l'uomo che verra' regia di Giorgio Diritti Italia 2009
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l'uomo che verra' (2009)

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locandina del film L'UOMO CHE VERRA'

Titolo Originale: L'UOMO CHE VERRA'

RegiaGiorgio Diritti

InterpretiAlba Rohrwacher, Maya Sansa, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Stefano Bicocchi, Eleonora Mazzoni, Orfeo Orlando, Diego Pagotto, Tom Sommerlatte, Bernardo Bolognesi, Stefano Croci, Zoello Gilli, Germano Maccioni, Tim Jacobs

Durata: h 1.57
NazionalitàItalia 2009
Generedrammatico
Al cinema nel Gennaio 2010

•  Altri film di Giorgio Diritti

Trama del film L'uomo che verra'

Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha 8 anni e vive alle pendici di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e da allora ha smesso di parlare. La mamma rimane nuovamente incinta e Martina vive nell'attesa del bambino che nascerà, mentre la guerra man mano si avvicina e la vita diventa sempre più difficile, stretti fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l'avanzare dei nazisti. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944 il bambino viene finalmente alla luce. Quasi contemporaneamente le SS scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti, che passerà alla storia come la strage di Marzabotto.

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Voto Visitatori:   7,69 / 10 (60 voti)7,69Grafico
Miglior filmMiglior produttoreMiglior sonoro
VINCITORE DI 3 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglior film, Miglior produttore, Miglior sonoro
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Voti e commenti su L'uomo che verra', 60 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI gerardo  @  22/02/2010 11:40:36
   6 / 10
Abitare le stanze vuote, colmare il silenzio e il vuoto che resta. E' questo l'aspetto più pregevole del film, che per tanti altri versi invece si perde in direzioni che non sa o non vuole trovare.
Al centro del racconto di Diritti vi è una comunità montana, contadina, simbolicamente rappresentata da una famiglia allargata dai nonni ai nipoti e della quale si sottolinea il carattere fortemente matrilineare. Diritti ne fa un quadro antropologico, posto di fronte alla catastrofe della guerra e all'apocalisse della strage, dello sterminio pianificato.
E' una strage degli innocenti quella di Marzabotto e del Monte Sole. Di riflesso, quello che Diritti pone a fondamento del suo racconto è un "innocentismo" quasi concettuale, assoluto. Ed è qui, a mio avviso, che fallisce, perché cade in una sorta di trappola morale della Storia. Il film è pervaso da una visione quasi manichea tra l'innocenza assoluta e la corruzione/abiezione dell'uomo, persino nelle figure che sembrerebbero più sfumate. Ciò che lascia perplessi è proprio l'esibizione continua dell'innocenza, che si concreta nella narrazione dal punto di vista della piccola Martina. Non a caso nel film un ruolo preminente è affidato proprio ai bambini. Diritti pone nelle parole (scritte) di Martina un concetto di innocenza rispetto alla guerra che sembra, invero, appartenere poco alla stessa bambina, ma molto all'idea di innocenza dei bambini che hanno di loro gli adulti di oggi. E', per così dire, un'innocenza d'ordinanza forse poco realistica nel concreto. Ché i bambini sapevano cos'era la guerra, ne erano pienamente coinvolti, sapevano chi combatteva chi e perché. Talvolta erano anche diretti, attivi protagonisti della guerra, già schierati più o meno consapevolmente. Nemmeno il bambino discolo/partigiano di Calvino è così innocente di fronte agli eventi.
Nel film, poi, non ci sono adolescenti: i ragazzi o sono bambini o sono giovinetti già pronti per imbracciare le armi e fare i partigiani. Su questi aspetti, più che il realismo (storico-antropologico), non mi convince proprio l'impostazione ideologica: un eccidio di proporzioni spaventose come quello di Marzabotto, nel quale sono state sterminate quasi scientificamente centinaia di civili inermi, non ha bisogno della sottolineatura dell'innocenza delle vittime. L'orrore si spiega da solo. E questa sottolineatura mi arriva quasi come una giustificazione dell'opera stessa di fronte alla Storia, come se la si temesse, come se si chiedesse il permesso alla Storia di raccontarne gli orrori, col timore di sbagliare.
La questione del realismo, però, non è secondaria. Se si vuole rappresentare un microcosmo umano in senso naturalistico, non si può sospendere lo stesso realismo su altri aspetti, anche se questa sospensione dovesse essere funzionale alla narrazione e all'obiettivo che si vuole raggiungere. Mi riferisco in particolar modo alla rappresentazione dei partigiani. Nel film non si sa bene come trattarli, quasi fossero delle figure imbarazzanti nell'economia del racconto. Non si capisce se essi siano un corpo estraneo alla comunità rappresentata, al pari dei tedeschi, o se ne siano parte integrante (come sembrerebbe da taluni passaggi del film e dall'uso del dialetto che antropologicamente lega i partigiani alla popolazione), ma dai quali prendere le distanze perché essi usano lo stesso "linguaggio" dei tedeschi, cioè quello della violenza, della crudeltà, della guerra. In questa semplificazione storicistica, nel film non si vedono i fascisti, se non nella figura del podestà, in un brevissimo passaggio iniziale. E questo è un fatto quanto mai singolare in un film che cerca col realismo (sì, poetico) di rinsaldare i fili della memoria.
I partigiani sono rozzi e violenti, il reclutamento nelle proprie fila assomiglia più a un rito d'iniziazione che altro, rito in cui si testano già le capacità combattentistiche e la fedeltà ideologica o si vagliano i sospetti di spionaggio. Creando in tal modo un'immagine dei partigiani come pistoleri disorganizzati e folkloristicamente invasati. Passi la rozzezza di molti, persino la violenza, che visto il contesto bellico appare del tutto naturale, ma che fossero degli sprovveduti è un po' difficile da accettare. Forse poteva accadere alle prime sparute e spontanee formazioni negli ultimi mesi del '43, ma non sempre. Il loro capo, Lupo, è poi una figura sfuggente, slegata dalla sua comunità, una sorta di bounty killer da film western. Fosse stata questa la Resistenza, sarebbe stata sgominata in un batter d'occhio. Mentre sappiamo quanto le bande partigiane fossero militarmente organizzate e quanto trovassero forza e sussistenza proprio nel senso di appartenenza alle comunità d'origine.
Quando il partigiano, davanti agli occhi di Martina, ammazza a sangue freddo il tedesco, la semplificazione simbolica della violenza rischia di ridicolizzare la Storia, ancorchè morale, militare della Resistenza: è difficile che i partigiani si attardassero a far scavare una fossa da un tedesco catturato per poi ammazzarlo: è una cosa che proprio non fa parte della condotta militare partigiana, ché basava le proprie azioni sulla velocità d'esecuzione (non avendo altro – in senso militare – a proprio favore). La crudeltà e il sadismo i partigiani proprio non se li potevano permettere. Non fosse altro che i tedeschi, quando catturati, erano un prezioso bottino per lo scambio di prigionieri.
Il distacco fisico dei partigiani al momento della strage è visto come una colpa, un po' vile, quasi fossero spettatori estranei – e inerti – di un massacro al quale, in qualche modo, essi stessi hanno contribuito. Come se quelle donne straziate non fossero le loro madri, le loro sorelle, fidanzate...
In generale, ho l'impressione che nel cinema di questi ultimi anni, i partigiani e la Resistenza non si sappia più come rappresentarli, come collocarli, ché ogni posizione potrebbe provocare imbarazzi. E tutto ciò io lo trovo assolutamente ingiustificabile.

11 risposte al commento
Ultima risposta 27/02/2010 12.18.44
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