Ci hanno provato in molti a fissare sul grande schermo quella ricerca del tempo perduto che fu la fortuna di Proust nella letteratura. Non si può dire che l'operazione sia semplice e i casi si contano sulle dita di una mano.
Resta da vedere quante dita debbano alzarsi per Heimat di Edgar Reitz: tre? Quattro? Uno solo?
Forse quest'ultima opzione.
Heimat è famoso per essere (stato) uno dei film più lunghi della storia del cinema, nonché progetto
ambiziosissimo che vuole riscrivere la storia e la memoria collettiva della Germania. Edgar Reitz, colui che ha concepito e costruito materialmente questa idea, ha quindi dato vita nel 1984 all'uscita del primo Heimat: undici episodi, quasi 16 ore di cinema. Un grande successo mondiale e televisivo anche se vale la pena ricordare che siamo lontanissimi dalle serie tv attuali: la forma è quella del cinema.
Con molta lentezza e passione ho deciso di realizzare uno speciale sul progetto di Reitz che mi ha da sempre appassionato. È appena uscita quella che dovrebbe essere la prima parte mentre le restanti due parti sono ancora in lavorazione. Lo speciale è incline più ad una semplice recensione sulla trama e i fatti che del contesto storico vero e proprio.
Ma se non avete mai visto Heimat oppure volete approfondire, chissà, magari qualche spunto interessante potreste trarlo lo stesso.
Reitz intanto non si ferma e gira un altro Heimat a quanto pare, ambientato stavolta nell'800.
Cliccando su questo LINK potrete trovare lo speciale al film. Buona lettura.
Partirà a Novembre il primo ciak di "Venus in Fur", la venere in pelliccia, il nuovo film annunciato da Roman Polanski. La protagonista sarà la moglie Emmanuelle Seigner con cui torna a lavorare dopo "Roman Polanski". La trama sembra già ricordare una sorta di Luna di Fiele 2, sempre con le dovute differenze: l'erotismo al centro della vicenda, la Seigner come protagonista, tratti di commedia nera; inoltre Polanski pare sempre più propenso a girare sceneggiature teatrali: "Venus in Fur" è stato un successo a Broadway cosi come "Carnage" derivava da una piece teatrale. Inutile stare a rimarcare la trama che sarà presumibilmente una rilettura del libro di Masoch.
Mentre da un lato accade questo, sull'altro versante, quello personale, Polanski continua a non vedersela proprio bene: è certo che ormai Samantha Geimer, colei che fu la vittima dello stupro negli anni '70 da parte del regista polacco, scriverà un libro autobiografico in cui già dal titolo avrà ampio risalto la questione della violenza sessuale e, manco a dirlo, Polanski in primis: " The Girl: Emerging from the Shadow of Roman Polanski" sarà il titolo. è paradossale e cinico pensare che, in fondo, la vita di Roman Polanski si sia ridotta a questo disturbo bipolare, un fossato enorme dove vediamo da una parte il regista impeccabile nonché uno dei migliori sulla piazza, dall'altra il violentatore senza pietà che adesso, a quasi 80 anni suonati, sta subendo processi mediatici, giuridici e "psicologici" da parte di mezzo mondo a quarant'anni dalla vicenda. Polanski scappò, non è un innocente, è sacrosanto ricordarlo; resta la perplessità sul perché Samantha Geimer, che disse di averlo "perdonato e dimenticato", torni ancora su una vicenda su cui ha parlato poco e sempre in maniera molto pacata e lontana dalla spettacolarizzazione. Certo lei è l'unica che avrebbe il diritto di farlo, a differenza di una modella sconosciuta che per i suoi cinque minuti di notorietà annunciò in pompa magna un'autobiografia dove un capitolo intero sarebbe stato dedicato alle molestie subite da ragazzina da Roman Polanski. Perché inevitabilmente tutti hanno da sempre tentato di cavalcare l'onda mediatica di una storia piena di risvolti non facili, mille sfumature, dove sembrava che i ruoli vittima/carnefice fossero ben definiti. A 35 anni di distanza dalla violenza sulla ragazzina, adesso possiamo anche noi fare i cattivi come nella migliore tradizione cinematografica polanskiana e vedere come i ruoli si siano ribaltati sotto molte prospettive: non che la Geimer sia una carnefice, ma forse... è Polanski ad essere diventato a suo modo una vittima? è una black comedy la sua vita, se la vogliamo vedere cosi, cinica e ambigua al punto giusto: tanto che ormai dare un giudizio su ciò che sta accadendo diventa impossibile. Possiamo solo restare a guardare. L'assillo è: schierarci dalla sua parte o contro di lui è lecito? Dal bambino che perde la madre e scampa ai campi di concentramento, al vedovo e quasi padre che viene privato di moglie incinta dalla setta di Manson, fino alla violenza sessuale su una tredicenne e la grande fuga... e una vicenda che si riaccende in Svizzera dopo tre decadi di quasi silenzio e si protrae tra nuove confessioni e pubbliche scuse. Questo accade solo nei film alla Roman Polanski.
Probabile che abbiate sentito parlare di “Six Feet Under” come di uno degli show HBO più famosi ed interessanti degli anni 2000. E se si dovesse fare una classifica ipotetica delle migliori serie tv degli ultimi anni ormai concluse molti non avrebbero problemi ad inserire nella stessa, insieme all'immancabile “I Soprano”, proprio ”SFU”. E non avrebbero poi tutti i torti.
Le storie raccontate in 5 stagioni per un totale di 63 episodi (iniziata nel 2001 e finita nel 2005) sono quelle di morte quotidiana che capitano alla famiglia Fisher, impresari funebri. Quando la morte entra in casa tua ogni giorno non può mai essere solo business, e i Fisher si troveranno ogni puntata a fare i conti con situazioni di straordinaria quotidianità e di ordinaria morte. Quasi un’ora a puntata serve per rendere giustizia alla mole di personaggi che si avvicendano in cinque stagioni grandiose, in cui i punti fissi restano sempre David, Nate e Claire Fisher insieme alla loro madre Ruth. Senza dimenticare il “fantasma” di Nathaniel, loro padre, che giusto per dare un tono definitivo alla serie muore nei primi minuti dell’episodio pilota a causa di un incidente col suo carro funebre, o Brenda e Keith, fidanzati “eterni” rispettivamente di Nate e David. Senza dimenticare un altro familiare aggiunto alla grande famiglia, Federico Diaz, un vero e proprio “artista” restauratore, di cadaveri, però.
Che la serie tv faccia sul serio anche se con humor pesantissimo si capisce subito, come se l’ideatore principale Alan Ball (lo sceneggiatore di “American Beauty” e poi di “True Blood”) volesse sfondare tutti i tabù o le controversie che fino a quel momento in tv non sembravano poter entrare, specie poi in maniera cosi esplicita e dissacrante. Il melodramma di una serie televisiva viene in tal modo esasperato come in un film alla Almodovar: le regole sono le stesse, con ogni puntata che affronta argomenti come il tradimento, l’omosessualità, la droga, la malattia, la famiglia, la religione e la mercificazione della morte, tutti però esplicitati in maniera drastica e visionaria. All’acido fenico. Straordinari poi sono i trip mentali che vediamo sullo schermo, sogni che prendono forma in tutti i modi possibili: omicidi solo immaginati (per fortuna, già ce ne sono troppi di morti), catarsi soltanto sognate, desideri. E poi c’è ovviamente la morte, inevitabile quando i protagonisti sono dei becchini, sviscerata in tutte le sue forme sempre senza didattismo sterile. Lo humor nero a volte è cosi tangibile e spietato che può risultare addirittura indigesto, anche se si attenua a partire dalla seconda stagione lasciando più spazio al dramma vero e proprio - cosa che qualcuno potrebbe avvertire come un difetto. Ed è grandioso vedere che nello “schema” per cui ogni puntata sembra avere gli stessi punti di riferimento, improvvisamente c’è un brusco cambio di rotta, anche se solo per un episodio, dove ci si concentra totalmente solo su un personaggio e davvero “tutto può succedere” (è il caso dell’incredibile “That’s My Dog” tradotto in italiano con il banalissimo “La Valle della Morte”, puntata controversa che considero uno dei capolavori assoluti di queste cinque stagioni).
Gli sconvolgimenti familiari sono all’ordine del giorno, tanto nei rapporti d’amore quanto nel business; si veda Ruth, per esempio, che a seguito della morte del marito si ritrova prima vedova inconsolabile, poi madre che fa di tutto per nascondere i suoi scheletri (o amanti) ai figli, proposito destinato a fallire, e alla fine della prima stagione donna matura che sembra aver trovato un proprio equilibrio personale. Un percorso di crescita ciclico che va avanti di stagione in stagione, e che investe ogni personaggio. Nell’elenco dei tormentati non può non essere citato allora David, omosessuale “nascosto” che dietro l’inappuntabile completo nero e il lavoro sui cadaveri nasconde desideri e speranze che sono forse tra le più dirompenti in famiglia Fisher, la qual cosa si capisce però non subito ma con il lento avanzare degli episodi; difatti è Nate il figliol prodigo, il ribelle rientrante ma che maturo non è ancora (e che forse maturo non diventa mai) che già dal nome pare destinato a rilevare il posto che fu del padre in “ditta”. E infine c’è Claire, la più piccola, la più ribelle. Ciò che colpisce di “SFU” è anche una trama che se risulta quasi autoconclusiva nella prima stagione, dalla seconda in poi comincia ad allargarsi verso orizzonti ben più vasti. Dei personaggi di contorno rimangono o comunque si rifaranno vedere improvvisamente, con un’aderenza alla realtà stupefacente (il Caso è sempre dietro l’angolo e si lega strettamente alla morte), altri personaggi che sembrano aver già detto tutto verranno messi da parte. Ci si concentrerà sull’evoluzione o involuzione della famiglia Fisher, spesso e volentieri in burrasca e altre volte unita nella/e tragedie come nei lieti eventi. Ed è ottimo il modo in cui sceneggiatori e registi lavorano assieme allo sviluppo di una trama che, tra pochissimi bassi e quasi sempre alti, trova ampio respiro allungandosi per più stagioni. La sensazione, fortissima, è che Alan Ball faccia crescere le sue “creature” provandole con tutte le esperienze che una vita può riservare, le faccia raggiungere uno stato di benessere o presunta evoluzione (tanto che sembra di vivere con loro accadimenti reali, non realistici), e poi fa crollare improvvisamente, senza preavviso, con la forza di un’onda, tutta la disillusione e la crisi sulle loro spalle; e devono ricominciare daccapo a ricostruirsi, pezzo dopo pezzo. Evoluzioni che sorprendono perché mettendo a confronto (primo nome a caso) il David della prima stagione con quello della quinta ed ultima stagione, sembra di vedere due persone totalmente differenti, seppur legate da un percorso di dolore e crescita che ha portato al cambiamento (quasi) totale. Dal tormento di essere omosessuale alla voglia di costruire una vita di coppia con l’uomo che ama, alla risoluzione di attacchi di panico e paure ancestrali che andranno poi ricondotte, ancora una volta, al fatidico primo episodio: ciò che si capisce è che la morte di Nathaniel cosi brusca ha portato non solo sconquassamenti nella famiglia Fisher, ma l'ha anche sconvolta e turbata. Le 5 stagioni, anche se potrebbe sembrare “mascherato” dai tanti accadimenti e dalle altre tante morti, sono un'elaborazione del lutto che va a collimare con l’elaborazione di un altro lutto, simile al primo in tutto e per tutto. Ma adesso i Fisher saranno pronti.
E dovrebbe esserlo anche lo spettatore, perché in un clima in cui la morte è l'unica costante, la sensazione tangibile e angosciante è che uno dei personaggi che tanto hai imparato ad amare per i suoi difetti, le sue virtù, il suo carattere possa esserti strappato via all’improvviso. Di qui il fascino al tempo stesso coinvolgente ed inquietante della serie. E a nulla vale il rivedere questi morti sotto forma di “fantasmi” o epifanie joyciane, in quanto è praticamente acclarato che le visioni dell’aldilà siano frutto di pensieri e desideri del vivente. La morte è definitiva anche in questo caso, l’aldilà resta una meta intangibile, troppo lontana da raggiungere se non attraverso un'elaborazione mentale su come vorremmo fosse dopo la morte. Ma tutto sta nelle mani del vivente, il resto è ambiguità.
E dopo 5 stagioni “Six Feet Under” giunge al termine (benché gli ascolti avrebbero potuto giustificarne un prosieguo. Scelta saggia e coerente), e lo fa nella maniera più struggente, più tragica, eppure liberatoria. Pur non svelando per ovvi motivi quanto accade, si consiglia di tenere a mente nel guardarlo che se Alan Ball ha creato questa serie è stato come per esorcizzare la morte improvvisa della sorella. Non sarà quindi una sorpresa se proprio la sorellina di casa Fisher, Claire, acquisterà via via un’importanza preponderante, lei cosi giovane che ha tutta la vita (e tutte le morti) davanti. E visto che anche voi in fondo non avete molto tempo, o magari avete tutto il tempo del mondo, fareste bene a dare un’occhiata a Six Feet Under. Non vi dico che potrà cambiarvi la vita, e figurarsi se vi potrà far smettere di aver paura della morte. Ma magari, chissà, il vostro approccio alla più grande e tremenda paura, quella del distacco definitivo, cambierà.