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Una normalissima famiglia di becchini

Pubblicato il 17/09/2012 09:06:13 da elio91



Probabile che abbiate sentito parlare di “Six Feet Under” come di uno degli show HBO più famosi ed interessanti degli anni 2000. E se si dovesse fare una classifica ipotetica delle migliori serie tv degli ultimi anni ormai concluse molti non avrebbero problemi ad inserire nella stessa, insieme all'immancabile “I Soprano”, proprio ”SFU”. E non avrebbero poi tutti i torti.
Le storie raccontate in 5 stagioni per un totale di 63 episodi (iniziata nel 2001 e finita nel 2005) sono quelle di morte quotidiana che capitano alla famiglia Fisher, impresari funebri. Quando la morte entra in casa tua ogni giorno non può mai essere solo business, e i Fisher si troveranno ogni puntata a fare i conti con situazioni di straordinaria quotidianità e di ordinaria morte. Quasi un’ora a puntata serve per rendere giustizia alla mole di personaggi che si avvicendano in cinque stagioni grandiose, in cui i punti fissi restano sempre David, Nate e Claire Fisher insieme alla loro madre Ruth. Senza dimenticare il “fantasma” di Nathaniel, loro padre, che giusto per dare un tono definitivo alla serie muore nei primi minuti dell’episodio pilota a causa di un incidente col suo carro funebre, o Brenda e Keith, fidanzati “eterni” rispettivamente di Nate e David. Senza dimenticare un altro familiare aggiunto alla grande famiglia, Federico Diaz, un vero e proprio “artista” restauratore, di cadaveri, però.


Che la serie tv faccia sul serio anche se con humor pesantissimo si capisce subito, come se l’ideatore principale Alan Ball (lo sceneggiatore di “American Beauty” e poi di “True Blood”) volesse sfondare tutti i tabù o le controversie che fino a quel momento in tv non sembravano poter entrare, specie poi in maniera cosi esplicita e dissacrante. Il melodramma di una serie televisiva viene in tal modo esasperato come in un film alla Almodovar: le regole sono le stesse, con ogni puntata che affronta argomenti come il tradimento, l’omosessualità, la droga, la malattia, la famiglia, la religione e la mercificazione della morte, tutti però esplicitati in maniera drastica e visionaria. All’acido fenico. Straordinari poi sono i trip mentali che vediamo sullo schermo, sogni che prendono forma in tutti i modi possibili: omicidi solo immaginati (per fortuna, già ce ne sono troppi di morti), catarsi soltanto sognate, desideri. E poi c’è ovviamente la morte, inevitabile quando i protagonisti sono dei becchini, sviscerata in tutte le sue forme sempre senza didattismo sterile. Lo humor nero a volte è cosi tangibile e spietato che può risultare addirittura indigesto, anche se si attenua a partire dalla seconda stagione lasciando più spazio al dramma vero e proprio - cosa che qualcuno potrebbe avvertire come un difetto. Ed è grandioso vedere che nello “schema” per cui ogni puntata sembra avere gli stessi punti di riferimento, improvvisamente c’è un brusco cambio di rotta, anche se solo per un episodio, dove ci si concentra totalmente solo su un personaggio e davvero “tutto può succedere” (è il caso dell’incredibile “That’s My Dog” tradotto in italiano con il banalissimo “La Valle della Morte”, puntata controversa che considero uno dei capolavori assoluti di queste cinque stagioni).


Gli sconvolgimenti familiari sono all’ordine del giorno, tanto nei rapporti d’amore quanto nel business; si veda Ruth, per esempio, che a seguito della morte del marito si ritrova prima vedova inconsolabile, poi madre che fa di tutto per nascondere i suoi scheletri (o amanti) ai figli, proposito destinato a fallire, e alla fine della prima stagione donna matura che sembra aver trovato un proprio equilibrio personale. Un percorso di crescita ciclico che va avanti di stagione in stagione, e che investe ogni personaggio. Nell’elenco dei tormentati non può non essere citato allora David, omosessuale “nascosto” che dietro l’inappuntabile completo nero e il lavoro sui cadaveri nasconde desideri e speranze che sono forse tra le più dirompenti in famiglia Fisher, la qual cosa si capisce però non subito ma con il lento avanzare degli episodi; difatti è Nate il figliol prodigo, il ribelle rientrante ma che maturo non è ancora (e che forse maturo non diventa mai) che già dal nome pare destinato a rilevare il posto che fu del padre in “ditta”. E infine c’è Claire, la più piccola, la più ribelle. Ciò che colpisce di “SFU” è anche una trama che se risulta quasi autoconclusiva nella prima stagione, dalla seconda in poi comincia ad allargarsi verso orizzonti ben più vasti. Dei personaggi di contorno rimangono o comunque si rifaranno vedere improvvisamente, con un’aderenza alla realtà stupefacente (il Caso è sempre dietro l’angolo e si lega strettamente alla morte), altri personaggi che sembrano aver già detto tutto verranno messi da parte. Ci si concentrerà sull’evoluzione o involuzione della famiglia Fisher, spesso e volentieri in burrasca e altre volte unita nella/e tragedie come nei lieti eventi. Ed è ottimo il modo in cui sceneggiatori e registi lavorano assieme allo sviluppo di una trama che, tra pochissimi bassi e quasi sempre alti, trova ampio respiro allungandosi per più stagioni. La sensazione, fortissima, è che Alan Ball faccia crescere le sue “creature” provandole con tutte le esperienze che una vita può riservare, le faccia raggiungere uno stato di benessere o presunta evoluzione (tanto che sembra di vivere con loro accadimenti reali, non realistici), e poi fa crollare improvvisamente, senza preavviso, con la forza di un’onda, tutta la disillusione e la crisi sulle loro spalle; e devono ricominciare daccapo a ricostruirsi, pezzo dopo pezzo. Evoluzioni che sorprendono perché mettendo a confronto (primo nome a caso) il David della prima stagione con quello della quinta ed ultima stagione, sembra di vedere due persone totalmente differenti, seppur legate da un percorso di dolore e crescita che ha portato al cambiamento (quasi) totale. Dal tormento di essere omosessuale alla voglia di costruire una vita di coppia con l’uomo che ama, alla risoluzione di attacchi di panico e paure ancestrali che andranno poi ricondotte, ancora una volta, al fatidico primo episodio: ciò che si capisce è che la morte di Nathaniel cosi brusca ha portato non solo sconquassamenti nella famiglia Fisher, ma l'ha anche sconvolta e turbata. Le 5 stagioni, anche se potrebbe sembrare “mascherato” dai tanti accadimenti e dalle altre tante morti, sono un'elaborazione del lutto che va a collimare con l’elaborazione di un altro lutto, simile al primo in tutto e per tutto. Ma adesso i Fisher saranno pronti.
                                                                                
E dovrebbe esserlo anche lo spettatore, perché in un clima in cui la morte è l'unica costante, la sensazione tangibile e angosciante è che uno dei personaggi che tanto hai imparato ad amare per i suoi difetti, le sue virtù, il suo carattere possa esserti strappato via all’improvviso. Di qui il fascino al tempo stesso coinvolgente ed inquietante della serie. E a nulla vale il rivedere questi morti sotto forma di “fantasmi” o epifanie joyciane, in quanto è praticamente acclarato che le visioni dell’aldilà siano frutto di pensieri e desideri del vivente. La morte è definitiva anche in questo caso, l’aldilà resta una meta intangibile, troppo lontana da raggiungere se non attraverso un'elaborazione mentale su come vorremmo fosse dopo la morte. Ma tutto sta nelle mani del vivente, il resto è ambiguità.


E dopo 5 stagioni “Six Feet Under” giunge al termine (benché gli ascolti avrebbero potuto giustificarne un prosieguo. Scelta saggia e coerente), e lo fa nella maniera più struggente, più tragica, eppure liberatoria. Pur non svelando per ovvi motivi quanto accade, si consiglia di tenere a mente nel guardarlo che se Alan Ball ha creato questa serie è stato come per esorcizzare la morte improvvisa della sorella. Non sarà quindi una sorpresa se proprio la sorellina di casa Fisher, Claire, acquisterà via via un’importanza preponderante, lei cosi giovane che ha tutta la vita (e tutte le morti) davanti. E visto che anche voi in fondo non avete molto tempo, o magari avete tutto il tempo del mondo, fareste bene a dare un’occhiata a Six Feet Under. Non vi dico che potrà cambiarvi la vita, e figurarsi se vi potrà far smettere di aver paura della morte. Ma magari, chissà, il vostro approccio alla più grande e tremenda paura, quella del distacco definitivo, cambierà.

Commenti: 2, ultimo il 19/09/2012 alle 09.54.58 - Inserisci un commento

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