Recensione berberian sound studio regia di Peter Strickland Gran Bretagna 2012
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Recensione berberian sound studio (2012)

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locandina del film BERBERIAN SOUND STUDIO

Immagine tratta dal film BERBERIAN SOUND STUDIO

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Immagine tratta dal film BERBERIAN SOUND STUDIO

Immagine tratta dal film BERBERIAN SOUND STUDIO
 

"Chi ha paura non fa che sentir rumori" – Sofocle

Italia, anni '70. Tra gli asettici corridoi e gli angusti salottini del Berberian Sound Studio si odono vibrare gli orrori post-prodotti del nuovo capolavoro di Gianfranco Santini. Per il suo ultimo film il maestro del gotico italiano ha voluto che la gestione audio fosse assegnata all'inglese Gilderoy, neofita del terrore ma universalmente riconosciuto come genio del sonoro. Timido e introverso Gilderoy conoscerà la ferocia di un microcosmo che divora se stesso, di un mondo dove la linea di demarcazione tra realtà e finzione cinematografica sembra aver perso ogni significato logico. "E se fossero i pazzi ad essere normali?"

"Berberian Sound Studio" è un "grido" d'amore per il cinema di genere... Ciò che lo distingue dalla massa degli emuli tarantiniani, oltre alla quasi totale assenza di ironia, è il metodo narrativo impiegato: qualcosa di realmente innovativo. Con le dovute proporzioni l'opera di Strickland ricorda il capolavoro di Süskind "Profumo": l'esaltazione di uno dei cinque sensi a discapito del supporto scelto per il racconto. Odori sulla carta; rumori su celluloide.

Il senso di angoscia che questo film riesce a trasmettere, nonostante l'intero incedere sia basato sull'esplicita denuncia dei "trucchi" sonori, ha dell'incredibile: il regista, forte di una fotografia da manuale, riesce a far apparire ripugnante lo squartamento di un'anguria, utilizzata per simulare il rumore di una decapitazione, o lo sfrigolio dell'olio in pentola simboleggiante l'arsione della carne. Le cabine di doppiaggio, minuscoli loculi bui in cui creare raccapriccianti giochi di ombre sui volti degli interpreti, diventano moderne vergini di Norimberga: le urla strazianti delle attrici "imprigionate" appaiono più reali che in qualsiasi film del terrore, giacché è crollata la quarta parete e lo spettatore è divenuto complice nell'azione.

La scelta di mistificare "il film nel film", sebbene non particolarmente originale, funziona a meraviglia poiché ciò che la nostra mente può costruire, a partire dai pochi elementi "sonori" messi a disposizione, è e sarà sempre più efficiente di ogni immagine proposta (regola alla base de: "il libro è meglio del film"): nel film extradiegetico la violenza esplode e trasuda come un flusso inarrestabile a pari passo con il procedere dei lavori. Il tentativo di ribellione alla mercificazione dell'osceno attuato da Gilderoy è qualcosa di impossibile... Come nel "Cigarette Burns" carpenteriano il film ingoia e risputa chi ne fa parte, anche se qui vige una più evidente critica sociale.

Nell'intervista post proiezione, rispondendo a una domanda circa le differenze tra produzioni Hollywoodiane e opere indipendenti, Toby Jones ha ricordato come, in pellicole come "Berberian", siano essenzialmente i budget scarsi le principali fonti di incertezze... E' squisitamente ovvio, ma se di questo film si potesse scegliere un singolo pregio, sarebbe proprio la capacità di sfruttare al meglio le scarse risorse economiche messe a disposizione: pochissimi ambienti scenografati alla perfezione al solo scopo di far rivivere l'atmosfera degli anni '70: malinconico fin nel dettaglio.

Un aspetto che, a caldo, può suscitare critiche è l'alone di auto-referenzialità crescente che sfocia nel delirante finale Lynchano. Ripensandoci l'insieme dei piccoli non sensi da cui parte la follia del protagonista, ricorda capolavori del grottesco nostrano come "Il fischio al naso" di Tognazzi o "Dillinger è morto" di Ferreri. Affascinante il parallelismo tra l'allontanamento di Gilderoy dal mondo reale ed il crescente nonsenso di contenuto nelle lettere che riceve dalla madre.

Un'ultima riflessione: per tutta la durata della pellicola il senso di oppressione claustrofobica, generato dagli ambienti e dalla superba fotografia, non fa che soffocare la magia che dovrebbe trasparire quando vengono mostrati i "trucchi di un mestiere come questo". Da applausi la sequenza in cui, a causa di un guasto elettrico, i lavori di ripresa audio vengono temporaneamente interrotti e, nel buio di una sala illuminata da una fievole candela, il gruppo di disillusi professionisti dell'intrattenimento riscopre l'incanto dell'infanzia, ammirando Gilderoy simulare l'atterraggio di una navicella aliena grazie ad una semplice lampadina.

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Recensione a cura di Aenima - aggiornata al 07/11/2012 16.12.00

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