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La vita di Ron Woodroof, blue-collar dedito ad alcool, droghe e sesso non protetto, viene sconvolta dalla diagnosi di AIDS e un'aspettativa di vita di trenta giorni. La battaglia per la sopravvivenza diventa una lotta contro le autorità quando Ron sceglie di aggirare le leggi federali e procurare per sé e altri alcuni medicinali non approvati ma dalla comprovata efficacia nel trattamento dell'AIDS.
"Dallas Buyers Club" poteva essere un film come tanti. Un episodio di cronaca recente drammatizzato con un sapiente lavoro di cesello di sceneggiatura e nobilitato da una performance strappalacrime. Di fronte a film come questo, sono lecite (e prevedibili) tutte le reazioni: sdegno per il contesto (il sistema sanitario americano che specula sui malati di AIDS), commozione per la componente melodrammatica, ammirazione per la prova d'attore, indifferenza per l'ennesimo falso storico confezionato ad arte e tramandato ai posteri come versione ufficiale di una storia dimenticata da molti.
Se "Dallas Buyers Club" si distacca dalla media dei film "tratti da una storia vera" è perché Jean-Marc Vallée sceglie di raccontare non solo per ricordare la battaglia di Ron Woodroof contro la FDA, ma per assestare un altro colpo al mito del sogno americano. Woodroof infatti incarna esattamente lo spirito del self-made man, dell'onesto lavoratore che trova un modo per arricchirsi tramite la libera iniziativa. Invece di essere premiato dal suo paese, però, il progetto del Dallas Buyers Club viene costantemente ostacolato e mortificato, fino ad essere messo fuori legge.
La libera iniziativa va bene, l'aiuto alla comunità anche, ma solo fino a che non viene ostacolato il meccanismo ben oliato che ingrassa i ricchi speculatori. C'è un elemento di romanticismo nel ritratto di Woodroof come un cow-boy, seppur da rodeo: è l'archetipo dell'eroe di frontiera, del coraggioso leader che sfida l'ignoto, le montagne e i pellerossa. Gli americani hanno sviluppato un'epica talvolta superficiale, ma sempre efficace per il loro mezzo di comunicazione preferito: il cinema.
Matthew McConaghuey è sorprendente in un ruolo che ne mortifica il fisico, ma ne esalta doti attoriali tenute finora nascoste da pettorali e acconciatura. La sua scelta di cercare ruoli di spessore (dopo "Mud") sta pagando. Woodroof è un individuo spiacevole e gretto, che la malattia colpisce come un meritato castigo. Se la crescita del personaggio non sembra solo un trucco di sceneggiatura, è tutto merito dell'attore un tempo sinonimo di commedia sentimentale non riuscita. Nel fisico smagrito e negli occhi scavati di McConaghuey si incontrano una vera sofferenza, un'autentica rabbia per una condanna ineluttabile che viene incanalata in un progetto, economico prima ed umanitario poi, una lotta contro un sistema ingiusto e imbattibile, il toro che alla fine ti disarciona: lo scopo non è restare in groppa per sempre, bensì per otto secondi, quelli necessari a vincere la gara.
Il rodeo è la metafora perfetta della battaglia combattuta da Ron Woodroof e il suo club di compratori - alla fine, ha vinto il sistema, Woodroof non se lo ricorda più nessuno, ma la sua sconfitta è una romantica storia di frontiera che il cinema non può fare a meno di raccontare.
Accanto a McConaghuey, Jared Leto regala una strepitosa interpretazione nel ruolo di Rayon, travestito malato terminale che aiuta Ron nella sua impresa, mentre Jennifer Garner - per quanto dignitosa - non può andare oltre un limitato campionario espressivo e conferma di essere tagliata più per i ruoli secondari che per quelli da protagonista.
"Dallas Buyers Club" - al di là della vicenda che racconta - è un film che si regge su due interpretazioni centratissime e un ottimo ritmo, riuscendo a non cedere alla tentazione del melodramma e trovando il giusto equilibrio tra decostruzione del mito americano e linguaggio classico di un cinema che di quel mito è stato spesso cantore.
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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 15/01/2014 16.32.00
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