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Essere insegnante oggi... un mestiere difficile e bello, arduo e complesso, che richiede nervi saldi, una grande dose di pazienza, di sopportazione e di tolleranza e una grandissima forza d'animo, per non restare annientati dalle sfide che quotidianamente attendono chi vi si dedica, in questo presente 'liquido', e spesso privo di punti di riferimento.
Se poi succede che un docente porti a scuola i suoi problemi personali, può capitare che le relazioni con gli studenti subiscano distorsioni, che si traducono in errori comportamentali pregiudicanti l'obiettivo primario di facilitare loro l'apprendimento delle conoscenze che la nostra cultura ha assorbito col tempo, affinchè un giorno possano essere persone dotate di spirito critico e capaci di gestire le loro vite.
Lo sa bene il professor Henry Barthes (Adrien Brody, mai così intenso e sofferto dai tempi di Il pianista), il protagonista di Detachment, il film del cineasta britannico Tony Kaye (quello di American History X, tanto per intenderci) guarda caso, di ambientazione scolastica, che illustra una malinconica e struggente esperienza umana, che è un po' la cronaca del fallimento di un sogno di speranza per il futuro.
Henry Barthes è un giovane insegnante precario, supplente per scelta, con un macigno sul cuore, che vuol nascondere agli altri oltre che a se stesso. Un giovane uomo elegante e culturalmente evoluto, tormentato e solitario, tendente alla depressione, che ha fatto del "distacco" il suo modello di vita e della solitudine il mezzo per fuggire da un passato di sofferenza, "impenetrabile", come lo definisce il vecchio nonno ricoverato in una casa di riposo, che custodisce nella sua ormai labile memoria un pesantissimo segreto. Un modo per tenere a distanza di sicurezza il mondo, con i suoi dolori e le sue passioni, le sue brutture e il suo degrado.
Una strategia di sopravvivenza messa a punto per allontanarsi da quella sofferenza che puntualmente ritrova fuori di casa, gestendo rapporti transitori che sfiorano appena gli altri, per non lasciarsi coinvolgere nel dolore altrui.
Chiamato come supplente a ricoprire una cattedra di letteratura in un degradato liceo pubblico di una degradata periferia metropolitana americana, Henry Barthes vi trova una realtà complessa e difficile, fatta di alunni turbolenti, demotivati, privi di ambizioni e di speranze per il futuro, figli di genitori assenti e anaffettivi e incapaci di gestire la crescita dei figli e di colleghi impotenti, arresi, disillusi, svuotati della loro funzione di guida e frustrati di fronte alla mancanza di mezzi e al fallimento personale e sociale.
Uno di quei luoghi dove regnano incontrastati il bullismo e l'ignoranza, dove professori e dirigenti, allo stremo delle forze, combattono ogni giorno una battaglia impari per portare avanti un progetto educativo perdente, che ha il sapore amaro di un'utopia.
Henry non sa nulla dei suoi allievi, dei loro problemi, dei loro comportamenti distruttivi, del loro bisogno di autonomia, mentre il crollo di certezze e di miti li porta a una crisi di valori, ideali per cui le istituzioni, già talvolta così lontane, appaiono ancora più distanti e incapaci di risolvere o solamente capire i loro problemi; nonostante ciò, Henry cerca in tutti i modi, nel breve tempo di una supplenza, di lasciare un segno del suo passaggio nell'animo dei suoi ragazzi, proponendosi, lui cresciuto all'ombra di un terribile dramma, come guida e conoscitore dei loro problemi, trasmettendo loro l'amore per la letteratura, con la forza delle parole dei più grandi scrittori e poeti.
Un insegnante che crede ancora nella funzione sociale della scuola e nell'importanza della cultura, come l'unico mezzo possibile per costruirsi una mente raziocinante e autonoma, necessaria per guardare la società con occhio critico e non farsi irreggimentare dalla massa in modelli precostituiti, privilegiando sempre autonomia di pensiero e di giudizio. Appena arrivato in quella scuola di frontiera, però, il distacco emotivo che ha contraddistinto la sua vita viene messo a dura prova e comincia a vacillare, mentre il mondo che aveva cercato di tenere lontano da sé fa irruzione nella sua vita con la stessa forza dirompente del degrado che gli sta attorno, costringendolo a fare i conti con se stesso e con le ferite della sua anima mai rimarginate.
Sono tre le donne che irrompono nella sua esistenza e mettono in discussione il suo già precario equilibrio, impedendogli il totale distacco dalla vita.
Erica, una giovanissima prostituta scappata di casa, che accoglie con sé per salvarla dalla strada; Meredith, una sua allieva, afflitta da obesità ma dotata di forte personalità artistica, non apprezzata dai compagni e dalla famiglia; Sara Madison, una giovane e bella collega, che non riesce a tenere a bada i suoi alunni. Le prime due gli ricordano da vicino la sua adolescenza smarrita, la terza per un attimo riesce a fare breccia e a far palpitare il suo cuore.Tutte e tre queste donne infrangeranno quella barriera impenetrabile che ha creato attorno a sé per isolarsi da ogni coinvolgimento emotivo e proteggere la sua fragilità emozionale, tenuta gelosamente nascosta in un gesto estremo di difesa.
In classe, invece, la sua ideologia lo porta a schierarsi contro i poteri forti, contro il sessismo e gli stereotipi consumistici, che alterna con letture di brani di autori esistenzialisti come Albert Camus ("Non mi sono mai sentito così distaccato dal mondo e presente a me stesso") o decadentisti quali Edgard Alan Poe, ("La caduta della casa degli Usher", come metafora della decadenza di una casa e quella della disastrata scuola pubblica).
Triste, poetico, disturbante, "Detachment" è un film intriso di un profondo pessimismo, che cancella di colpo l'immagine edulcorata e felice che tanti film hollywwodiani ci hanno trasmesso degli impeccabili college americani, frequentate dai rampolli (e dalle rampolle) della upper class a stelle e strisce, tutti ricchi, tutti belli, tutti biondi, tutti superdotati, spensierati e sereni, con il futuro già stabilito e sicuro; dove tutto è perfetto, pulito, funzionale, costruito a misura di insegnati e studenti, dove insegnare è gratificante e apprendere meritocratico.
Qui invece siamo di fronte al lato oscuro della scuola pubblica americana, assolutamente dequalificata, dalle strutture fatiscenti, le mura scrostate, gli arredi obsoleti, dove l'incuria regna sovrana e le istituzioni sono più interessati alla produttività (decisamente sotto la media minima accettabile) piuttosto che al bene dei ragazzi.
Non a caso le immagini dell'aula vuota e a soqquadro campeggiano sulle locandine del film, e nel finale Adrien Brody legge un passo di E.A. Poe, inducendo lo spettatore a fare un accostamento tra le macerie della casa degli Usher e la totale deriva in cui sono ormai ridotte le scuole dei quartieri poveri delle metropoli americane; nonchè le ripercussioni che questo disastro ha non solo sulle vite dei giovani, ma anche su quelle dei docenti, la cui missione si infrange contro i loro fallimenti quotidiani.
Solo apparentemente "Detachment" è uno dei soliti, classici film di formazione, in realtà il lavoro di Tony Kaye si discosta parecchio dalle pellicole più note dalle stesse affinità tematiche (come "Pensieri pericolosi", di John Smith, o "La classe", del francese Laurent Cantet, ma anche del celebrato" L'attimo fuggente", di Peter Weir), ma è anche molto di più, perchè pone l'accento sulla fragilità psicologica degli insegnanti più che su quella degli alunni e perchè racconta la solitudine in cui vengono lasciati le anime fragili nel momento difficile del passaggio dall'adolescenza all'età quasi adulta; senza figure di riferimento capaci di accompagnarli nel difficile cammino, e perciò destinate a sicuro fallimento.
Se il detachment emotivo, dietro cui si è trincerato per farsi scudo del mondo e la consapevolezza di non essere mai stato aiutato a superare i propri traumi infantili, nè a proiettarli fuori di sè, spinge il professore Barthes ad affrontare lavoro e vita con calcolata e pragmatica indifferenza, di volta in volta il fallimento del suo progetto di vita lo induce ad aiutare i suoi disastrati alunni a superare le nevrosi che attanagliano le loro vite e a tentare di cambiare il corso di un destino inesorabile.
Come la sorte tragica di Meredith, la ragazza obesa che non riuscirà a superare le vessazioni dei compagni, né il rapporto conflittuale con il padre o come gli episodi inconcepibili e inaccettabili che ogni giorno deflagrano dietro i banchi, tra atti di bullismo incontrollabili, violenza gratuita e un diffuso e malsano concetto di sessualità.
Dopo "American History X", in cui aveva affrontato il fenomeno del neo nazismo e lo spettro nero dell'odio antisemita, Tony Kaye realizza un altro capitolo su un pezzo di cultura statunitense, con le sue falle e le sue oasi di benessere, nutrite a discapito di tante realtà periferiche, che si dibattono tra provvisorietà e contraddizioni.
Il paese del futuro e "dell'american dream" che si sgretola prima di quanto sia lecito immaginare.
E fa veramente male quello che Kaye ci mostra in "em>Detachement", che riesce a toccare in 90 minuti molti argomenti scottanti e seri: dalla prostituzione minorile alle tossicodipendenze, dalla violenza di gruppo al suicidio giovanile, dalla solitudine come scelta di vita alla disperazione di cui nessuno è immune. Usando un linguaggio visivo crudo, aggressivo, a volte rabbioso, senza pregiudizi né indulgenze, lasciando che sia la macchina da presa a scrutare i volti, per tentare di svelare l'animo, per far emergere i turbamenti, i conflitti interiori, i ricordi dolorosi che li hanno segnati e che tengono prigionieri i loro cuori.
Il suo stare addosso al volto e al corpo di Adrien Brody è quasi ossessivo, come se volesse catturargli l'anima e introiettarla nella sala, per ridurre la distanza emotiva che separa gli spettatori dallo schermo e farli empatizzare con il personaggio, per far loro toccare con mano quanto sia pesante la desolazione della psiche e quanto sia difficile sconfiggerla. Mentre le immagini iniziali in bianco e nero si evolvono in una fotografia dai toni caldi e sgranati, che riproduce fedelmente il suo stato d'animo. Interessante e innovativa la soluzione visiva, dal sapore onirico, degli stacchi narrativi d'animazione di gesso bianco sullo sfondo nero della lavagna, che destabilizzano e lasciano lo spettatore alla mercé di quel senso di smarrimento in cui tutti sono costretti a vivere.
Fondamentale per la riuscita del film risulta la performance di Adrien Brody, in una delle sue interpretazioni più toccanti. Un attore che si rivela, ancora una volta, di straordinaria e magnetica espressività e un interprete di eccezionale bravura.
La sofferenza struggente che si legge sul suo volto è estremamente funzionale alla fruizione del suo stato d'animo e ci accompagna lungo questo viaggio doloroso e amaro in cui i sogni muoiono ancora prima di nascere e ciò che resta sono solo la rabbia e la sofferenza, talvolta anche la resa.
Funzionali e convincenti risultano anche gli interpreti di contorno, da Lucy Liu a Christina Hendricks, dal sempre verde James Caan a tutti gli altri, compresi Betty Kaye (figlia del regista), Sami Gayle, Marcia Gay Harden e l'indimenticabile William Petersen di "Manhunter" e "Vivere e morire a Los Angeles".
L'ultima immagine del film, che mostra il professor Barthes dietro la sua cattedra concentrato sulla lettura de "La caduta della casa degli Usher" mentre davanti a lui la classe è tutta in disordine, è paradossalmente un messaggio di pessimismo ma anche un profondo atto di speranza nei confronti del mondo e degli esseri umani.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 03/07/2012 13.26.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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