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Texas, Stati Uniti d'America, anno 1858. La guerra civile fra il Nord e il Sud non è ancora scoppiata e negli stati del sud la schiavitù è ancora legale.
Django (Jamie Foxx) è uno schiavo di colore, che è stato venduto dal proprietario della piantagione presso la quale lavorava, dopo aver tentato di fuggire insieme alla moglie Broomhilda (Kerry Washington). Il dottor King Schultz (Christoph Waltz), un cacciatore di taglie di origine tedesca, intercetta i negrieri che hanno comprato Django e lo acquista a sua volta. Il suo interesse per Django discende dal fatto che questi conosce i volti di tre ricercati cui Schultz sta dando la caccia. In cambio del suo aiuto, il bounty killer offre allo schiavo una ricompensa in denaro e la libertà. Questo è solo l'inizio del loro sodalizio. Django, debitamente istruito da Schultz e ormai uomo libero, diventa un bounty killer (o hunter, se lo si preferisce visto che questo è il termine usato nel film), ma il suo unico scopo è ritrovare sua moglie e liberarla. Schultz gli promette il proprio aiuto.
Quentin Tarantino trascina lo spettatore in un viaggio attraverso il sud degli Stati Uniti raccontando il mercimonio della carne umana con schiettezza e solidarietà senza rinunciare al proprio gusto per il cinema di genere, per l'intrattenimento spettacolare e per l'ironia feroce, mantenendo uno sguardo solo apparentemente distaccato.
"Django Unchained" si ispira agli Spaghetti Western degli anni sessanta e settanta. Dal film "Django" (1966) di Sergio Corbucci riprende il nome dell'eroe, i titoli di testa, il tema musicale composto da Bacalov e la sciarpa rossa che copre il volto di Zoe Bell. Inoltre, Tarantino ha affidato un cameo a Franco Nero in omaggio alla pellicola di Corbucci.
Fra gli altri riferimenti più evidenti ci sono il film "Mandingo" (1975) di Richard Fleischer, alcune pellicole di Howard Hawks e buona parte della filmografia di Sergio Leone, soprattutto, "Il Buono, il Brutto, il Cattivo".
Dal film di Fleischer Tarantino ha mutuato i combattimenti fra schiavi e, soprattutto, quelle che erano la vita e le relazioni fra schiavi e padroni e fra schiavi e schiavi nelle piantagioni degli Stati del Sud alla metà del 1800. Probabilmente è stato il personaggio di Warren Maxwell (James Mason) a suggerire l'incedere frenetico e claudicante di Stephen. Tuttavia, se in "Mandingo" si indugiava sui dettagli della vita quotidiana e della violenza nelle piantagioni, in "Django Unchained" tutto questo si dà per scontato ricorrendo a poche immagini che danno per presupposto tutto quel retaggio consuetudinario, che sta alla base degli equilibri e dell'esercizio della violenza, ed esso spesso è espresso attraverso alcune rapide spiegazioni che Django rivolge a un ignaro e disgustato Dr. Schultz.
Ufficialmente questo è il primo film di genere Western diretto da Tarantino, ma questa affermazione è in buona parte errata. Abbiamo già evidenziato in passato come Tarantino abbia girato altri film Western inspirandosi quasi esclusivamente al cinema di genere, senza però mantenerne l'ambientazione e quindi fuorviando pubblico e critica. I due film in questione sono "Bastardi senza Gloria" ("Inglourious Basterds", 2009) e "Kill Bill". Ma se il primo, ad eccezione dell'ambientazione, è un Western a tutti gli effetti (si è sbagliato chi lo ha voluto definire film di guerra o, peggio ancora, film storico), il secondo gioca con tutti i generi dando vita a un'opera squisitamente originale, indubbiamente l'apoteosi della filmografia di questo autore.
Ciò premesso, appare logico pensare che il genere più naturale all'impostazione artistica di Tarantino sia appunto il Western e da ciò avrebbe dovuto discendere che la prima pellicola palesemente rientrante nel genere avrebbe dovuto assurgere a capolavoro della cinematografia di Tarantino. Invece, così non è stato e non solo: "Django Unchained" è paradossalmente una delle pellicole meno "tarantiniane" di Tarantino.
Vediamo di spiegarne il perché.
Si deve premettere, come già fatto in passato, che Quentin Tarantino prima che autore cinematografico è uno spettatore che vuole e che sa divertirsi facendo Cinema ed è grazie a questo suo sguardo che riesce a regalare al pubblico prodotti di sicuro intrattenimento e di una grande eleganza narrativa e visiva. Egli non ha bisogno di offrire al proprio pubblico quello che questi si aspetta, perché il suo primo spettatore è lui stesso. Ne discende inevitabilmente che se realizza un film di cui si reputa soddisfatto, difficilmente il pubblico resterà deluso.
"Django Unchained" è stato immediatamente definito uno Spaghetti Western e un omaggio al cinema di genere. A parere di chi scrive, questa è una visione distorta se non, addirittura, un'affermazione falsa. Questo nuovo film diretto da Tarantino è un Western che cita i cosiddetti Spaghetti Western, ma non rende loro omaggio né tantomeno si allinea al genere cinematografico. Basta osservare le prime immagini del film di Sergio Corbucci per comprendere l'abisso che separa "Django" da "Django Unchained". Ancor maggiore è il distacco dall'universo immaginifico della filmografia di Sergio Leone. Gli Spaghetti Western hanno una dimensione estetica volutamente sporca, dove il fango e il sangue si mescolano alla polvere del deserto e impregnano gli abiti luridi dei personaggi. I paesaggi sono aspri e la natura è ostile. Il sole ferisce, scarnifica e uccide, mentre la notte scende gelida come la lama di un coltello. La dimensione della violenza è volgare, realistica, cruda, a volte funzionale altre fine a se stessa, ma sempre tangibile, palpabile anche nei momenti di quiete. Tutto questo non c'è in "Django Unchained". La sua è una dimensione estetica pulita, elegante, sofisticata e assolutamente edulcorata rispetto a quelle del genere di riferimento.
Da questo momento in poi, si sconsiglia la lettura di quanto segue a chi ancora non avesse visionato il film.
Una sola scena di importanza nevralgica arriva a sfiorare la grammatica cinematografica dello Spaghetti Western e si tratta della morte dello schiavo D'Artagnan (Ato Essandoh). Ma anche qui, con sapienza e intelligenza artistica, l'occhio del regista si concentra soprattutto sugli sguardi dei personaggi, da un nauseato dottor Schultz agli schiavi terrorizzati fino ad un intenso gioco di forza fra Calvin Candie (Leonardo DiCaprio) e Django.
"Django Unchained" ha una narrazione lineare, sostenuta da una progressione avvincente e veloce, che non lascia allo spettatore un solo istante di tregua. Questo è il primo e più evidente punto di distacco dalla filmografia di Leone che spesso è stata definita "lenta" a causa dei tempi volutamente dilatati e del continuo indugiare della macchina da presa sui ogni piccolo dettaglio, anche marginale, volto a creare l'atmosfera in cui poi l'azione avrà luogo. Secondo elemento di distacco è dato dalla lunghezza di alcune sparatorie e, in particolare, di quella che avviene a Candyland. Nei film di Leone, la preparazione poteva essere lunghissima, ma l'esplosione dell'azione era fulminea come uno sparo. Nella propria filmografia precedente Tarantino ha sempre fatto ricorso alla scomposizione narrativa in blocchi temporali, in alcuni casi coadiuvata dalla divisione in capitoli narrativi e nella costruzione di storie parallele che finivano inesorabilmente con l'intrecciarsi. In "Django Unchained", invece, l'evoluzione narrativa ha una progressione lineare, fatta eccezione di alcuni rapidi flashback, fra cui c'è l'esilarante preparazioni dei precursori del Ku Klux Klan (che fu fondato nel 1865), volti a rafforzare il senso dello svolgimento dell'azione. Fra queste si deve segnalare la scena della cena a Greenville, durante la quale Candie spiega le proprie teorie razziali, che è scomposta e montata complementarmente al viaggio verso Candyland.
In "Django Unchained" manca anche un qualsiasi reale approfondimento psicologico dei personaggi. Le ragioni di Django sono chiare, ma elementari, mentre degli altri personaggi, primo fra tutti King Schultz, seguito a ruota da Calvin Candie e da Stephen (Samuel L. Jackson) nulla c'è dato di sapere, o quasi. I riferimenti al loro passato sono scarni o inesistenti, mentre le azioni che compiono nel loro presente sono dettate da accadimenti espressi nel corso della narrazione stessa e non risalenti al background del personaggio.
A questo si aggiunge l'assenza di un personaggio femminile forte o in qualsiasi modo protagonista della vicenda e la sua rivalsa contro uomini violenti e oppressori. Anche la tematica della vendetta si riduce ai minimi termini e non basta del sangue che schizza sul bianco immacolato del campo di cotone o un semplice "D'Artagnan, motherfucker!" a creare quella spirale ossessivo punitiva ormai così ben connaturata alla cinematografia tarantiniana, né tantomeno a simboleggiare la rivalsa contro l'oppressore di un popolo ridotto in schiavitù.
Passando a un'analisi della regia, si nota subito come anche qui Tarantino abbia voltato in parte le spalle alla propria filmografia precedente. Questa volta la sua è una regia di impostazione classica che rinuncia ai moltissimi virtuosismi visivi cui ci ha abituati in passato. I piani sequenza sono rari. Le soggettive sono assenti. In poche occasioni i dialoghi sono risolti con soluzioni differenti dalla tecnica del campo e controcampo. Il ricorso al Piano Americano, tipico della cinematografia Western, la fa da padrona accompagnato da un costante ricorso al Piano Medio. Sono presenti le spettacolari inquadrature dall'alto specie durante le scene di azione, ma sono assolutamente assenti le inquadrature dal basso così tipiche e frequenti nelle opere precedenti. Queste vengono a mancare anche quando la narrazione lo avrebbe richiesto come nella scena in cui D'Artagnan si è rifugiato sopra un albero per sfuggire ai cani che lo stavano braccando. In linea di massima la macchina da presa si limita a seguire i personaggi, tipica la ripresa dalle spalle mentre un personaggio esce da un luogo chiuso in un ambiente aperto, o a riprendere le loro azioni a distanza, con pochi movimenti o addirittura da una postazione fissa.
In tal senso Tarantino ha adottato una grammatica cinematografica tipica delle pellicole di Howard Hawks e di John Ford, piuttosto che di quelle dirette da Sergio Leone.
Indubbiamente si tratta di scelte ponderate e finalizzate ad emulare lo stile di regia classico proprio di molti Western degli anni sessanta e settanta, ma in passato l'emulazione non ha mai impedito a Tarantino di fare sfoggio di una tecnica personale, virtuosa e assolutamente originale.
Sostanzialmente si può concludere che sia la costruzione narrativa, sia la descrizione dei personaggi, sia le scelte tecniche e le risoluzioni di regia appaiano lineari, elementari e assolutamente semplificate rispetto alla produzione precedente di questo autore.
La regia opzionata da Tarantino è raffinata sotto il profilo estetico, semplice sotto il profilo tecnico e completamente dedicata alla storia narrata. Essa consente una grande fluidità narrativa, rendendo scorrevole e veloce una pellicola della durata di quasi tre ore.
Per eleganza e sobrietà la scena assolutamente più emozionante è quella durante la quale i servi apparecchiano la tavola a Candyland accompagnati dalla voce di Elisa che canta "Ancora qui", composta da Ennio Morricone appositamente per il film.
"Django Unchained" è un film assolutamente impeccabile fin quando è presente il personaggio del dottor Schultz. Dalla sua scomparsa in poi comincia a percorre una china discendente che precipita in un finale troppo pacchiano. A deludere è soprattutto la sparatoria finale nell'ingresso della Grande Casa. Questa volta il celebre citazionismo tarantiniano cede il passo a una sconcertante mancanza di idee. La scena ricorda fin troppo da vicino "Kill Bill", sia per i movimenti di macchina sia per l'angolazione di ripresa e la prospettiva, mettendo addirittura in bocca a Jamie Foxx la medesima battuta di Uma Thurman con cui la Sposa obbliga Sophie Fatale a non lasciare La casa dalle Foglie Blu. È fastidiosa e caricaturale l'uscita di scena di Miss Lara (Laura Cayouette) catapultata in una direzione improbabile oltre la porta in seguito a uno sparo proveniente da ben altra angolazione. Dopo questo, assistere ad un risibile e decontestualizzato ripetersi dell'urlo finale sospeso di Eli Wallach de "Il Buono, il Brutto, il Cattivo" in bocca a Samuel L. Jackson nei panni dell'odioso Stephen, appare ridondante. Ma a rovinare miseramente il tutto è lo stesso Jamie Foxx che esce dalla Grande Casa scimmiottando Will Smith in "Wild Wild West", accompagnato dalle note del tema di "Lo chiamavano Trinità", mentre Kerry Washington prima si mette teatralmente gli indici nelle orecchie e poi, dopo la deflagrazione, applaude in modo caricaturale. Del pavoneggiarsi di Django a cavallo è meglio non parlare affatto. Sono bastati questi pochi istanti a trasformare un film solido e avvincente in una parodia vera e propria dei film Western. Certo "Django Unchained" nel complesso rimane un ottimo film, ma se non fosse scivolato nella parodia, sarebbe stato assolutamente migliore.
Ad ammaliare per la propria bravura ancora una volta è Christoph Waltz che regala allo spettatore un personaggio carismatico ed epico. La sua è un'interpretazione magistrale, che merita di essere premiata.
Bravo e in parte Jamie Foxx.
Assolutamente imperdibile, anche se vagamente eccessivo e caricaturale, Samuel L. Jackson.
Ma quello che emerge fra tutti, regalando un'interpretazione straordinaria e memorabile è Leonardo DiCaprio. A parer di chi scrive, questa non solo è la sua miglior interpretazione, ma un'interpretazione eccezionale e irreprensibile sotto ogni profilo, sia esso gestuale, espressivo o vocale (ancora una volta si consiglia la visione del film in lingua originale). Tarantino ha già dimostrato di saper tirare fuori il meglio dagli attori che lavorano con lui, ma questa volta il risultato è stato eccezionale. In passato si è detto più volte che Leonardo DiCaprio difficilmente riesce a liberarsi dal personaggio di DiCaprio. Ma questa volta neppure per un solo istante lo spettatore assiste all'interpretazione di un DiCaprio prigioniero di se stesso. Dalla sua prima apparizione sullo schermo fino alla sua scomparsa, lo spettatore ha sempre davanti a sé Calvin Candie, spietato, arrogante, crudele, a suo modo raffinato, mai simpatico e mai del tutto antipatico.
A questo si aggiunge una curiosità. Durante il proprio monologo che conclude la cena a Candyland, Calvin Candie sbatte violentemente il palmo di una mano sul tavolo rompendo un bicchiere. La scena non era stata scritta così. DiCaprio ha rotto veramente quel bicchiere, ferendosi la mano, ma non ha smesso di recitare e alla fine quella è la scena che è stata montata.
Questo ci porta a fare una breve riflessione sul doppiaggio e, soprattutto, sulla traduzione di alcuni dialoghi. Per esempio nella versione in lingua originale, proprio nella scena iniziale il dottor Schultz si rivolge ai due mercanti di schiavi parlando un perfetto inglese, seppur con accento tedesco, ed utilizzando vocaboli troppo aulici. Uno dei due negrieri non capendo le parole americanissime, ma per ignoranza a lui sconosciute, utilizzate da Schultz, gli intima di parlare in "Inglese", pensando che invece egli stia parlando in tedesco. Nella versione italiana è stato tradotto con "parla cristiano!". Oltre a denaturare il senso del discorso, il profilo culturale del personaggio di Schultz e l'intelligente ironia della sceneggiatura originale, quale miglioramento o quale contributo avrebbe dovuto apportare questa traduzione alle versione italiana del film? E perché tradurre "black slaver" semplicemente con negriero anziché con "Schiavista nero"? La differenza è fondamentale perché per uno schiavo nero non c'è niente di peggio che vedere uno schiavista nero, mentre il termine negriero vale per tutti quei mercanti di schiavi che trattano i neri, indipendentemente dal colore della loro pelle. Inoltre, appare brutto anche se non necessariamente improprio né del tutto censurabile l'aver tradotto il frequentissimo appellativo "boy", rivolto agli schiavi, con "giovane" anziché con "ragazzo". Si potrebbe continuare a lungo, ma è inutile tediare il lettore, quindi ci limitiamo a consigliare la visione in lingua originale ricordando che comunque questa volta la distribuzione italiana non ha commesso quello scempio compiuto nel precedente film di Quentin Tarantino ridoppiando e riscrivendo in modo indegno i dialoghi della scena nella hall del cinema durante la quale tutti gli attori parlano italiano.
Questa pellicola presenta una vastissima serie di anacronismi, ma questi sono tutti funzionali alla narrazione e contribuiscono a creare l'atmosfera più consona allo svolgimento dell'azione. Fra tutti vale soltanto la pena citare l'uso della dinamite quasi dieci anni prima che fosse inventata. Ma anche Sergio Leone in "Il Buono, il Brutto, il Cattivo" ricorre all'uso di esplosivo per far saltare un ponte. E se è vero che Leone non cade mai nell'errore di chiamarlo dinamite e se è vero che esistevano esplosivi a base di semplice polvere nera, quando questo esplosivo è mostrato appare del tutto simile a un fascio di candelotti di dinamite. Inoltre, al di là della filmografia di Sergio Leone, anche le pellicole dirette da Howard Hawks e da John Ford, altri due autori di riferimento di Quentin Tarantino, presentano una miriade di anacronismi. Tuttavia questo non ha molta importanza, poiché Quentin Tarantino ha già più volte dimostrato di non voler restare fedele alla Storia, adattando e modificando fatti ed eventi per renderli coerenti con quella che è la sua storia. Anzi, egli ha ben espresso il suo pensiero secondo cui il cinema ha il potere di riscrivere la storia raccontandone gli avvenimenti nel modo in cui si desidera che essi siano accaduti. Naturalmente l'apoteosi di questa posizione concettuale è espressa in maniera cristallina dall'immenso finale di "Bastardi senza Gloria", dove aveva una coerenza intrinseca che in "Django Unchained", invece, manca completamente.
Per esattezza si deve ricordare al lettore che anche il mito di Sigfrido così come è raccontato dal dottor Schultz e in buona parte falso. Tuttavia questo potrebbe essere un errore del personaggio che ammette candidamente di non ricordare esattamente il contenuto della leggenda.
Vale la pena spendere un'ultima parola sulle polemiche sollevate dal regista Spike Lee contro "Django Unchained". Il regista si è lamentato per l'uso reiterato della parola "nigger" (chissà, forse pensava che all'epoca già esistesse l'ipocrisia politically correct) e, soprattutto, della superficialità gigionesca con cui è affrontato il tema della schiavitù, che egli non esita a definire un "vero e proprio olocausto". Senza entrare nel merito della discussione, cui hanno risposto già benissimo gli autori del film e, in particolare, lo stesso Jamie Foxx, in questa sede ci preme sottolineare il fatto che anche una trama d'evasione come quella di "Django Unchained" può essere un veicolo per una denuncia morale, storica e sociale. E infatti, come abbiamo accennato all'inizio, lo sguardo di Tarantino è solo falsamente distaccato dalle vicende narrate. Non è un caso che a scatenare il massacro finale sia la violenza del ricordo del corpo del povero D'Artagnan sbranato dai cani, che torna a ossessionare un sempre meno impassibile dottor Schultz mentre la sorella di Candie suona "Per Elisa". Qui, inoltre, si contrappone la cultura, e per estensione la civiltà, europea all'ignoranza del neopopolo americano. Lo schiavo si chiamava D'Artagnan, Calvin Candie scimmiotta la cultura francese bevendo champagne, distribuendo baci a iosa alla sorella, fumando col bocchino e facendosi chiamare con l'appellativo di monsieur, ma non ha potuto spendere un poco del proprio tempo per imparare la lingua francese, sua sorella Lara suona Beethoven e il confronto dialettico finale fra Schultz e Candie verte su Alexandre Dumas (che non era nero, come afferma Schultz, ma che era nipote di una donna haitiana). Il confronto diventa culturale e sostiene l'ipotesi che l'ignoranza, per quanto possa essere mascherata, produce crudeltà e violenza fine a se stessa. Tarantino è apertamente schierato dalla parte degli oppressi e non ne fa mistero né in questo film né nelle pellicole precedenti. Si noti anche come i testi dei brani musicali che accompagnano il flashback della fuga di Django e Broomhilda siano all'unisono con le immagini. Inoltre, Tarantino non ha mancato di introdurre scene non necessarie alla storia narrata, ma fondamentali per proiettare i personaggi e con loro lo spettatore nella quotidiana disumanità con cui erano trattati gli schiavi nelle piantagioni. Fra tutte vale la pena di citare la scena che vede Broomhilda chiusa nella cosiddetta fornace.
Quindi, ha sbagliato Spike Lee ad attaccare l'ultimo film di Tarantino dicendo che questi disonora la memoria dei suoi antenati schiavi, rapiti dall'Africa. Ma purtroppo il genere Western ha sempre attirato le critiche di tanti intellettuali o presunti tali. Comunque restano sempre più motivate le accuse mosse da Spike Lee a Tarantino rispetto ai deliri di Moravia su Leone e, in particolare, sull'ormai citatissimo "Il Buono, il Brutto, il Cattivo".
In questa sede, siamo certi che questo nuovo film di Tarantino riscuoterà un maggior consenso di pubblico rispetto ai suoi lavori precedenti, proprio a causa della sua impostazione semplice, della sua linearità, della sua grammatica cinematografica elementare e del suo finale comico. E per adesso, i dati parziali del Box Office sembrano darci ragione. Chissà che, come è accaduto anche per Martin Scorsese, il film più manieristico di questo autore non gli frutti anche la vincita dell'ambito e sempre negato Premio Oscar.
"Django Unchained" è un ottimo divertissement d'autore, ben diretto, ben scritto e interpretato in modo sublime. Come già spiegato, il suo finale lo fa scivolare in una sorta di parodia del genere Western e questo è francamente poco apprezzabile specie perché avulso dal resto del contesto filmico in esame. Tuttavia, conoscendo Quentin Tarantino, la sua ironia e il suo gusto per l'eccesso, a questa critica probabilmente risponderebbe:
"Scusate, non ho saputo resistere!"
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 23/01/2013 17.35.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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