Recensione film regia di Alan Schneider, Samuel Beckett USA 1964
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Recensione film (1964)

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locandina del film FILM

Immagine tratta dal film FILM

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E' un muro scabro, spoglio, assorto nel silenzio oculare di un quartiere newyorchese, il nuovo paesaggio beckettiano, come immiserito da una guerra, uno scorrerlo nel guardarsi attorno in attesa di qualcuno, sfaccendato e smarrito, aspettando un Godot, che viene sorpreso.

Chi si aspettava di vedere Keaton, dovrà accontentarsi di scorgerlo di schiena, non oltre il limite di 45 gradi dalla spalla, per quasi tutta la durata di "Film", mai entrando nel suo arco visivo.

Se il titolo inizialmente doveva essere più semplicemente "Eye", quello definitivo è forse maggiormente incisivo, quasi penoso nella sua vasta anonimia, drammatico nella sua vaghezza, svuotato di un qualsiasi intento di definire e significare.

"Film" segna la prima sperimentazione di Beckett nel cinema, in cui vi entra da sconosciuto, ma navigato in simili acque, e accompagnato da Schneider, suo regista teatrale, egli ne comincia subito una discussione corrosiva dall'interno, denudandone il linguaggio come già aveva fatto con il teatro. Il salto da palco a palco, da scenario a scenario non cambia di molto le atmosfere: il drammaturgo si porta dietro il suo vacuo assurdo; l'inquietante antagonista, l'occhio tra le rughe che apre e chiude la pellicola è, in un primo livello, quello della cinepresa.

Sarebbe stata forse più coerente la scritturazione per la parte di un interprete anch'egli di provenienza teatrale, come in principio si era pensato, ma l'incontro assolutamente inedito tra Beckett e Keaton, singolare anche a livello umano (i due non paiono riuscire a comunicare a vicenda, e l'attore non nasconde le sue perplessità nei confronti di una sceneggiatura troppo povera di situazioni), seppure dettato da motivi principalmente economici, e se anche frutto di un ripiego come oggi è noto, aggiunge inaspettati motivi d'interesse artistico, non ultimo la rinuncia del film a mostrare, se non nel finale, in volto la propria star. Keaton è rimasto un attore popolare, ha una storia di grande passato, e il suo inconsueto ritorno da protagonista ne proietta enigmaticamente il declino, fa nascere un raffronto con ciò che è stato; la sua recitazione fisica non ha più la vitalità acrobatica di un tempo; da icona del cinema muto, si trova ora immerso in un silenzio terribile, non familiare, nuovo anche per Beckett, per la prima volta al cospetto dell'assenza e del mutismo della platea cinematografica.

Qui Keaton si muove con leggiadria maldestra; furtivo, frettoloso, losco, reietto, ratto, con l'andatura di un ginnasta ferito tra le rovine. Procede radente al muro, in bilico, simile a un'ombra, tanto che se trova un ostacolo tira dritto, lo scavalca o lo sfonda. Indossa ancora l'inconfondibile cappello di un tempo ma ora anche un lungo cappotto, trascina con sé una valigetta, ha la faccia bendata da un fazzoletto, in una maniera che quasi ricorda l'uomo invisibile di Whale, egli va però in cerca dell'invisibilità.

E' Keaton in fuga dal proprio passato? E' Beckett in fuga da Joyce?

Nel copione si tratta di O (l'oggetto, il protagonista) che prova a sottrarsi dallo sguardo di E (Eye, l'occhio, la telecamera). Ma O non volendo girarsi indietro, non può avere la certezza che E lo stia seguendo, anzi nemmeno che esso esista.

L'intera pellicola si sviluppa sulle tracce di questo pedinamento, quasi interamente vissuto nella soggettiva di E (la cinepresa a mano) che segue fluente le azioni di O; solo talvolta compie un movimento repentino che simula il voltarsi improvviso verso un obiettivo, attento a non perdere mai di vista O. Molto brevi e rare sono invece le riprese nella soggettiva di O, perlopiù fisse o lente negli spostamenti, sempre sfocate.

"Essere è essere percepiti" - che nell'ottica filmica si semplifica con essere guardati, dal momento che il sonoro è a proposito assente.

E' necessario partire da questo concetto per ragionare sui significati di 'Film", ma non sufficiente. Più dell'essere guardati è determinante il saperlo, sapere di essere guardati e soffrirlo, l'esserne angosciati, essere consapevoli di essere soltanto in quel momento in cui si è consapevoli di essere guardati, e non sopportarlo. Volere non essere percepiti per non essere.

L'uomo, l'intellettuale di Beckett, prigioniero tra maschere e dell'incomunicabile, della relatività delle opinioni altrui e della propria, trasfiguranti, atterrito in meditazioni cervellotiche e sprofondato in un'abissale crisi d'identità, non vuole più vivere, desidera annientarsi, non più esistere, preferisce il nulla al mediocre, il silenzio alla parola vana, la cecità definitiva alla miopia. Ha provato la vergogna dell'esistenza, ha provato l'impotenza, il rimorso per un'arte erudita e capricciosa, il disgusto della ricchezza, l'inadeguatezza sociale, ora chiede l'occultamento di tutti i sensi, perdere d'identità, il nascondersi misero nella miseria.

In un mondo desolato e diminuito, residuato da pochi elementi, O non fa altro che provare a sottrarsi agli sguardi di chi incontra, e lo fa per ambienti sempre più interiori, al solo scopo di non esistere più; ogni tanto scopre le sue mani rugose di vecchio e si ferma a misurarsi il polso, nella speranza che le pulsazioni via via cessino. Essendosi già privato dell'ascolto, in un mutismo cinematografico assoluto, non gli resta che spegnere l'ultimo senso rimasto, il più ingombrante, quello visivo.

Nel primo ambiente, la strada disastrata che costeggia il muro, egli urta una coppia di passanti, due figure borghesi di una normalità sconcertante, uniche altre forme viventi nel quartiere. Passato O, la donna emette il solo suono udibile nell'intera pellicola, un 'sssh" che ironicamente richiama al silenzio. Poi, guardando entrambi dentro l'obiettivo, o meglio in volto E che sta seguendo O, reagiscono con un'espressione inorridita, dunque impressionati vi distolgono lo sguardo.

Dentro un condominio la scena si ripete analoga, qui è una vecchina che scende le scale tenendo in mano dei fiori, anche questa di aspetto borghese, con un incedere che è assieme funebre e sereno. Altro 'mostro" di normalità, O evita d'incrociarne lo sguardo. La vecchina guardando dentro l'obiettivo, assume l'identica espressione dei due passanti, quindi cade svenuta ai piedi di E, mentre si scorge O approfittarne per salire le scale.

La scelta della soggettiva è in queste situazioni doppiamente funzionale, allo spettatore che è chiamato a immedesimarsi, a colui che guarda dall'altro lato dello schermo, è trasferito il carattere inquietante del pedinatore invisibile. Lo sguardo terrificato dei personaggi, che connota un certo disgusto, è anche rivolto a lui, allo spettatore 'deformato" come al regista, costretto a subire l'umiliazione e impossibilitato a replicarla.

Il terzo e ultimo ambiente ha un periodo decisamente più lungo dei primi due, e consiste in un appartamento di una sola stanza, poverissimo, male arredato, fatiscente e surreale come il paesaggio fuori stante, dalle pareti perlopiù spoglie e scalcinate. Qui O, serrato dentro, solo se si esclude la presenza non ovvia di E, avverte quasi subito di essere tutt'altro che al sicuro. Nell'appartamento non c'è nessuno ma qualcuno pur c'è: egli stesso, esistente ancora, finché ci sono occhi che continuano a osservarlo. Le successive perlustrazioni alla stanza, circolari, accurate e ossessive, li rilevano in alcuni oggetti e animali domestici: ci sono un cane, un gatto, un pappagallo, un pesce, lo specchio, la finestra; c'è un foglio appeso a una parete che ritrae probabilmente un Cristo, disegnato con tratti infantili e dagli occhi enormi. Sono tutte parimenti minacce ottiche, inanimate ma ad ogni modo vigili. Al centro della stanza, quale meta modesta, promessa di riposo dopo la fatica dell'esistere, c'è una sedia a dondolo.

Nei minuti successivi assistiamo ai diversi espedienti che O adotta per espellere, coprire o distruggere i vari occhi della stanza, occupandosi di uno per volta, piccole e ridicole azioni che attua con una cautela e un'apprensione eccessive. Lo scopo, è quello di potersi sedere e aprire, non guardato, una busta che preleva dalla valigetta che si portava dietro.

Evita di passare davanti allo specchio e alla finestra che lo spaventano. Copre gli oggetti con panni scuri, gli oggetti fermi e innocui quasi fossero cose sfuggenti o pericolose. Chiude le tende della finestra ma hanno strappi. Copre lo specchio ma in un primo momento il panno cade. Mette alla porta gli animali ma essi rientrano. Strappa il disegno del Cristo ma in un ritaglio per terra c'è uno dei suoi occhi ancora. Dinnanzi, sulla parete, restano l'impronta del foglio e il chiodo.

Lo schienale della sedia a dondolo esibisce in cima due orbite lucenti, quasi gli occhi di un idolo che ordinano al servo la seduta; vengono notate da O che però su esse non vuole o non osa intervenire; mentre anche i bottoni che chiudono la busta ricordano due pupille, e ruotano come meccanicamente il loro asse da verticale a orizzontale, e da orizzontale a verticale, in modo da suggerire un continuo ribaltamento di prospettiva.

Tra questi episodi la gag del cane e del gatto, davvero keatoniana, se a prima impressione può sembrare divertente, finisce nella sua prevedibilità e nella sua ripetitività col definire una comicità collassata, giunta anch'essa all'impasse, è il ridicolo ridicolizzato: qui Keaton accetta non solo di dare vita al personaggio che desidera annullarsi, ma anche di annullare sé quale attore. Da clown infermo e patetico, rallentato nei gesti e stranito, è un vecchio che deambula nella sua cella - eremo deprimente - con il timore di un bambino stupefatto.

O, dopo un'ulteriore perlustrazione della stanza, probabilmente soddisfatto del proprio lavoro che pure ha accusato diverse imperfezioni, può finalmente sedersi. Scopriamo allora il contenuto della busta: una serie di grandi fotografie che istoriano i momenti salienti della sua vita, dalla nascita alla vecchiaia, la vita di un uomo non troppo dissimile a quei personaggi che aveva incontrato a inizio film, di una normalità sconcertante ma che sfoglia e guarda con nostalgica tenerezza.

In una di queste foto un alone nero copre una figura (la madre morta?). Con la mano rigida si lascia andare a una carezza pianissima all'immagine di suo figlio bambino. L'ultima, ritrae un vecchio uomo che ha un occhio bendato, ritto sopra lo sfondo di un paesaggio invernale.

Dunque comincia a strappare, a ritroso, tutte le fotografie, dalla finale alla prima, dalla vecchiaia fino alla nascita, per cancellare il suo passato e la sua vita, gli occhi della memoria dopo quelli del presente, per definitivamente più non esistere; all'ultima - per non essere mai nato - trova più fatica.

Controlla di nuovo le pulsazioni del suo polso. Anche in questo caso non ci è dato modo di sapere come le avverta, è probabile che si stia convincendo che esse si affievoliscano, le oscillazioni della sedia sembrano descriverle; poi, la sedia si ferma lentamente, e l'uomo si assopisce come simulando la propria morte.

Il primo tentativo di E di sorprendere in volto O fallisce, dacché quest'ultimo si sveglia di soprassalto; ma il secondo riesce: aspettato che O si sia riappisolato, la cinepresa compie un giro riavvolgente lungo le pareti della stanza, per gli oggetti coperti, e quando si arresta si trova precisamente in fronte a O, che di nuovo si scrolla dal sonno, tra egli e l'impronta del foglio (di Dio?).

E' una molteplice rivelazione.

E è O, e viceversa. Sono il vecchio dall'occhio bendato. Sono Keaton. I due (la stessa persona) si fissano in modo differente. Ma sono la stessa persona. L'uno seduto e l'altro sugli attenti. O vede E sfocato, E vede O nitidamente. O ha una reazione tra il terrorizzato e il rassegnato. E mostra una ruvidezza irrigiditagli sul corpo su per il volto, un'espressione impassibile e indecifrabile. Brilla il suo occhio spalancato, pulsano dietro ad esso tutti i bulbi vanamente occultati.

L'occhio bendato suggerisce una condizione dell'uomo malandata, ma la vera ferita è, in realtà, dell'altro aperto, che non batte palpebra, che non si cicatrizza; la benda sta a comunicare all'uomo come i tentativi di oscurare la vista sono stati fallimentari, serviti solo a metà, che equivale a niente, un occhio, il proprio interiore, oggettivo, assoluto, collettivo, eterno, forse divino, è rimasto a nudo, puntato addosso, mirante, non serve coprirsi lo sguardo, quando lo riapre esso è ancora lì, né servirebbe accecarsi; l'osserva, come egli l'osserva, un vecchio Keaton, un vecchio attore seduto, un vecchio.

Poiché scostati i complessi significati concettuali, "Film" è anche questo: una riflessione inquieta sull'ultima età; una meditazione sull'annullamento non solo intellettualistico, ma anche sociale, d'animo, vitale che tocca all'anziano prossimo al finire.

Provate a togliergli quel cappello, la benda sull'occhio, provate a dimenticarvi l'elucubrazioni per immagini della pellicola, chi egli sia. Quella figura l'abbiamo già vista - lontana da nipoti, inconsolabile - l'abbiamo già vista in altre camere, sopra altre seggiole, dentro altri ospizi.

Buster Keaton, vittima di un cancro ai polmoni, morirà appena un anno dopo le riprese di 'Film" di Beckett e Schneider.

Ripone inutile le mani aggrinzite sopra gli occhi spenti, le dita appassenti, non più per coprire lo sguardo ma come gesto di vergogna e profondissimo sconforto. Per aspettare la morte e nessuno, nel dondolare sempre più piano.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 10/12/2010 11.28.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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