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Milioni di persone in tutto il mondo staranno ancora ringraziando quel fatidico giorno del 1990, quando una giovane venticinquenne di Bristol prese un treno Manchester-Londra dopo un fallimentare tentativo di cercar casa nel paese del fidanzato.
E' durante quel viaggio infatti, interrotto bruscamente da un guasto al motore, che, nel bel mezzo della campagna inglese, è nato improvvisamente Harry Potter così come lo conosciamo oggi: un timido occhialuto maghetto orfano, solo al mondo.
Tutta la genesi del fenomeno Harry Potter è una storia troppo lunga da raccontare, ci basti solo sapere com'è andata a finire: le avventure del maghetto, scartate da ben tre case editrici, sono diventate un best seller mondiale e la squattrinata Joanne Kathleen Rowling (la ragazza di cui sopra), costretta a "scroccare" cappuccini al cognato per poter scrivere in pace, è diventata più ricca della regina d'Inghilterra.
L'altra storia, quella del film, comincia sette anni più tardi, quando la Warner Bros decide di investire la risibile cifra di un milione di dollari (considerando come andrà a finire) per acquistare i diritti del romanzo.
Quando la fama di Harry inizia ad aumentare, il progetto pian piano prende corpo; vengono fuori subito nomi grossi: l'onnipresente Spielberg non ci pensa su due volte, anzi comincia già a fantasticare, a organizzare, a farsi venire idee. La prima è quella dell'attore protagonista, che secondo i suoi programmi doveva essere Haley Joel Osment, il bimbo prodigio che avrà gloria per Il "Il sesto senso" e "A.I. - Intelligenza artificiale". Naturalmente però le decisioni non spettano affatto a lui.
Quando i produttori riferiscono a Joanne, convinti che il suo consenso sia solo una formalità, ecco che la madre del maghetto fa valere la sua autorità, alla faccia delle regole e dei trucchi di marketing: no! Joanne vuole che il cast sia composto da tutti inglesi, uno sceneggiatore inglese che sottostia alla sua volontà e ambientazioni inglesi.
Riavutisi dal colpo, i produttori riescono comunque a fare un grande acquisto: Chris Columbus, di fatto unico componente della troupe non nato nello United Kingdom; in effetti nella clausola di J.K. non si faceva menzione di regista inglese. Con un inghippo bello e buono si riesce dunque a trovare un timoniere esperto per il film, uno che ci sa fare coi bambini, sia direttamente sul set coi baby attori, sia indirettamente al cinema con i giovani ed esigenti spettatori, forte delle esperienze con "Mrs. Doubtifire" e "Mamma ho perso l'aereo".
Il lavoro sporco tocca invece a Steve Kloves, incaricato di scrivere la sceneggiatura, sempre con la vigile guida dell'autrice.
Per il cast, rigorosamente inglese, tutto sembra andare per il verso giusto; nei ruoli adulti fioccano star a non finire: prima l'austera Maggie Smith per Minerva McGranitt, poi Robbie Coltrane per il gigante Hagrid, Alan Rickman nel ruolo di Piton, John Hurt nella piccola parte di Olivander e, dulcis in fundo, Richard Harris, che sarà un serafico Silente, mai più eguagliato dal successore Michael Gambon il quale, dopo la sua dipartita, lo sostituirà dal terzo lungometraggio.
Per i piccoli protagonisti invece viene passata al setaccio l'intera Inghilterra: Daniel Radcliffe, ovvero Harry Potter, viene chiamato e convinto dallo stesso Columbus, il quale lo aveva ammirato nello sceneggiato della BBC "David Copperfield", mentre Rupert Grint ed Emma Watson, futuri Ron ed Hermione, escono fuori dai provini, dopo la scrematura di decine di migliaia di pretendenti.
La trama è pressoché fedele all'opera prima della Rowling, con quelle piccole dovute variazioni percettibili solo all'occhio di un espertissimo; come tale la seguente recensione dev'essere fatta in costante riferimento col testo, perché le scelte e le ragioni dello sceneggiatore quasi sempre sono quelle dell'autrice stessa.
In fondo "Harry Potter e la pietra filosofale" , nonostante le circa 290 pagine (è il più corto dei sette romanzi) è una favola per bambini, narrata con appassionata semplicità, sguardo infante e un certo indugio nella descrizione di un mondo fantastico che ci si para davanti per la prima volta; c'è tempo e spazio perciò per raccontare e far vedere tutto ciò che serve, tagliando quel poco qua, aggiungendolo là e spettacolarizzando laddove l'immaginazione del lettore si era soffermata ed era rimasta attratta.
Il libro inoltre risente di una struttura tipica, quella che impone la presenza fisica del cattivo e uno scontro finale, ed è questa l'unica nota che stona in questo primo capitolo se vista in rapporto con la complessiva serie, apparendo una forzatura, quasi un espediente attuato per paura di perdere il lettore. Ma lasciamo al dopo queste considerazioni.
Harry Potter è un bambino orfano costretto a vivere con gli odiati zii: dorme nel sottoscala, veste i frusti abiti smessi di suo cugino Dudley, non ha amici, ma ha ancora la forza di sognare motociclette che volano.
Harry è un mago, anche molto famoso, e lo scopre solo il giorno del suo undicesimo compleanno quando il gigantesco Hagrid lo preleva dal buio mondo babbano per condurlo in quello che gli spetta di diritto: il mondo dei maghi. Nello stesso giorno Harry scopre di essere l'unico superstite del terribile mago oscuro Voldemort e anzi addirittura il responsabile della sua caduta: ecco il motivo della sua celebrità.
Ammesso nella prestigiosa scuola di magia di Hogwarts, condotta dall'affascinante preside Silente, Harry avrà modo di trovare amici (Ron e Hermione con cui formerà un inseparabile trio) e nemici, di scoprire tante cose sul mondo della magia e tante insospettabili su sé stesso.
Fin qui ci siamo tutti credo, la storia è ormai arcinota. Come detto, essendo essenzialmente una favola per bambini, il primo episodio di Harry Potter è innanzitutto un inno all'amicizia, al coraggio, alla speranza, all'amore, alla conoscenza. Un film fantastico si, ma pieno dei buoni valori a cui sempre ci appelliamo.
Detto così però si potrebbe pensare a un semplice ricettario di buonismi, fatto per piacere ai bambini e accattivarsi, al contempo, il consenso dei genitori. La distinzione va sempre fatta: infatti tra certi trattatelli di retorica vuoti in tutto che riescono a infastidire finanche i bambini e quelle opere, invece, dettate dalla sincera musa dell'immaginazione, le quali non mostrano limiti neanche allo spettatore cresciuto ci corre un abisso.
Su Harry Potter si aggiunga anche che tutto ciò che fa da contorno alla storia, non solo la storia stessa, ha un fascino particolare sul lettore, tanto più su quello adulto scrupoloso che certe cose le nota di più: ci si riferisce, nello specifico, al notevole espediente adottato dalla Rowling di ambientare un fantasy nel nostro mondo, contro ogni regola imposta dal genere.
Succede così che all'improvviso,calandosi nel contesto, ci si rende conto di esser vissuti in un posto che conoscevamo per metà, e che la metà più interessante ci era stata celata; a descriver male o in maniera superficiale una simile fantasia, la nostra mente non avrebbe la capacità di immedesimar visi o lo farebbe con enorme sforzo a furia di forzature, ma la fatica ci viene risparmiata da un narrato fluido e una capacità descrittiva equamente distribuita, a dipingere una società contrapposta alla nostra ma perfettamente coerente in tutto il suo funzionamento, tanto che, la sua esistenza, appare infine quasi verosimile.
Non è più strano, a questo punto, pensare che da qualche parte in Romania si allevino draghi, o che da qualche altra parte al nord dell'Inghilterra ci sia un castello, apparentemente abbandonato, nel quale si istruiscono i giovani maghi: ogni cosa, in fondo, è regolata da un ministero, come succede (o dovrebbe) anche da noi. E il governo, allo stesso modo che da noi, è soggetto a tutti i turbamenti della politica: inganni, corruzione, colpi di stato.
La magia, come si vede, non può fare i miracoli.
Tutto ciò che è stato elencato come punto forte del romanzo, non può che risaltare nella prima riduzione cinematografica. Questo è il motivo principale per cui "Harry Potter e la pietra filosofale" sembra esser, tra i film, l'unico capitolo affascinante, indimenticabile e irrinunciabile. Si ha, per la prima volta, un mondo intero da raccontare: il narratore, in questo caso il regista con tutti i suoi tecnici al servizio, si può sbizzarrire come può.
L'inizio va subito forte: l'antefatto ci presenta senza indugio un alto signore barbuto che spegne i lampioni, una professoressa-gatto e un gigante a cavallo di una moto volante. E' già questo un taglio netto e nitido che ci fa prendere le distanze dalla realtà, come un avvertimento che anticipi ciò che si vedrà per tutto il film.
Le successive due scene sono lo spartiacque tra l'infernale infanzia di Harry, relegato lontano dall'universo che gli appartiene in una bigotta società babbana ritratta col più profondo disprezzo, e l'adolescenza, nel quale il nostro verrà finalmente a contatto con i suoi simili. Prima un vetro che scompare, a liberare un Boa Constrictor tanto simile al maghetto per condizione, poi la meravigliosa scena delle lettere, che arrivano, sempre più numerose, nella casa di Privet Drive fino ad invaderla letteralmente e a sfrattarne gli abitanti. La bellezza sta nel magico che irrompe, anche con violenza quando è ostruito, nella normale quotidianità di una famiglia fin troppo normale.
La festa per gli occhi comincia però a Diagon Alley, il quartiere magico perfettamente mimetizzato entro una Londra che pensavamo di conoscere. Allo schiudersi del muro di mattoni, si apre alla vista uno spettacolo coloratissimo di fascino e mistero: gufi e altri animali esotici, scope volanti, bizzarrie di ogni tipo. Uno spettacolo che continua fin nei cunicoli della banca Gringott, scavata sottoterra, con quell'aria tetra di impenetrabilità e sicurezza coniugate insieme.
L'ultima chicca, prima di arrivare a Hogwarts, è il binario 9 e ¾, cui si accede tramite il passaggio nella banchina tra i binari 9 e 10. E' il luogo di filtro tra i maghi e i non maghi, un'ambientazione che riveste un ruolo centrale e decisivo in tutta la saga. Dall'altra parte del muro attende, in mezzo ai fumi di una stazione vecchio stampo, una luccicante locomotiva rosso nera, pronta a cambiare la vita al nostro piccolo protagonista.
Riecco, dunque, il treno ricoprire un compito essenziale; di sicuro il mezzo preferito di J.K.
Le delizie per lo spettatore non sono finite e, anzi, sono appena cominciate: se fuori la magia si manifestava per sbaglio, quasi traboccasse quando era in sovrabbondanza, o per caso, a Hogwarts non c'è più limite, ed essa investe a tempo pieno tutta la giornata dell'allievo.
Il culmine del fascino evocato dall'istruzione per maghi, che ogni bambino di questa Terra avrà sognato ricevere, è la lezione di volo e, conseguentemente, il Quidditch, uno sport talmente adatto alla resa cinematografica che sembra pensato apposta. E' nelle sequenze di quest'avvincente sport che gli effetti speciali possono giocarsi le loro carte migliori, sebbene restino di buon livello per tutta la durata del film. Lo spettatore se ne faccia una bella scorpacciata di pluffe, boccini e bolidi, perché nei seguenti capitoli non si esiterà a sacrificare le scene di Quidditch quando vi sia bisogno di qualche taglio.
In mezzo a tanto divertimento, c'è pur bisogno di qualche attimo di sosta, di riflessione, di commozione. E' qui che si colloca la scoperta dello "specchio delle brame", un oggetto che già aveva popolato la letteratura fiabesca e che torna qui ad assumere il suo consueto ruolo di compagno fraudolento e di amico mentitore.
L'immagine del piccolo Harry che si ferma ore intere a contemplare il riflesso dei suoi genitori è di una sincera dolcezza; ancor più gradevole è l'intervento di Silente, una figura benevola a 360 gradi che, prima, mostra di comprendere le motivazioni del maghetto orfano e poi, a fin di bene, disillude sulle capacità dello specchio: "Esso mostra, solo e soltanto, i più profondi e più tormentati desideri del nostro cuore, ma non ci dà né la conoscenza, né la verità […] non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere ".
Alla fine si arriva un po' col fiato corto. Lo spettatore è passato per uova di drago, centauri, cani a tre teste certo, ma dopo più di un'ora è ormai avvezzo a questo genere di cose. E comunque, come già detto, è proprio il finale del libro che è molto debole.
La Rowling ha col tempo abituato i suoi lettori a varie costanti: innanzitutto quella del colpo di scena, per la quale viene concentrato il sospetto su un personaggio, salvo poi rivelarne sul finale il ruolo positivo, a danno di un altro che è il vero cattivo; la presenza del nemico che, in un modo o nell'altro, si palesa ad ogni episodio della serie; la conformità del registro linguistico ( e di conseguenza registico) all'età dei protagonisti.
La prima ci porta a ritenere alquanto artificiosi e ingannevoli tutti quegli espedienti, ancor più evidenti nel film, adottati per concentrare le attenzioni su Piton, una specie di colpo basso; la seconda, già accennata, risponde a una logica comprensibile e affermata in ogni prodotto per masse che si rispetti, ma è la comparsa prematura del cattivo principale (il quale, a ragione dovrebbe anche esser quello finale, presentato solo dopo una lunga suspance) che, ad opinione di chi scrive, va a compromettere la verosimiglianza della trama pur fantasiosa, costringendo a una resa dei conti affrettata e poco credibile.
E' qui infatti, con l'abuso di quell'amore che funge da arma universale a risoluzione di ogni problema, che si tocca per la prima e unica volta una punta di buonismo leggermente fastidioso e gratuito.
Quanto alla terza, possiamo usarla a mò di giustificazione delle due sopraelencate: se i protagonisti hanno 11 anni, e il punto di vista corrisponde loro, si presuppone per questo primo capitolo un pubblico molto giovane, tant'è che sono lontane le ansie e le inquietudine adolescenziali e i toni cupi, e nel libro e nel film. Sicché, questa considerazione che pure avrà fatto la Rowling, ha portato la trama a piegarsi alle richieste di un tal pubblico, a porre un cattivo, un colpo di scena sempliciotto e una vittoria (momentanea) finale e ad affrontare con leggerezza varie altre questioni su cui l'autrice sarà chiamata a metter pezza nei seguiti più grandicelli.
In questo finale un po' esagitato un'unica cosa c'è da rilevare, e cioè l'affermazione con la quale Voldemort tenta di tirar dalla sua parte Harry: "Non esistono il bene e il male, esistono solo il potere e quelli troppo deboli per averlo".
Questa frase, che sa di Talleyrand, non è stata lasciata al caso: essa dipinge con precisione la psicologia del personaggio Voldemort, non il solito cattivo che fa della forza la sua arma, ma il cattivo intelligente, demoniaco, che per arma ha la lusinga, l'inganno, il potere appunto. E' proprio quest'ultimo, dal quale il mago oscuro è ossessionato, che, nella sua ottica, regola il mondo: non più diviso, come solito, in cattivi e buoni, ma in potenti e deboli.
E' questo un interessante abbozzo della figura di Tom Riddle, completato in gran parte nei seguiti, un mago brillante (anche Olivander deve ammettere che "ha fatto grandi cose, terribili, ma grandi") e per questo stesso motivo affascinante. Il cattivo, dunque, si conferma una delle maggiori attrattive, nei fantasy, come nei thriller o nei recenti film sugli eroi Marvel.
Come si poteva facilmente immaginare, all'uscita la pellicola sbanca i botteghini di tutto il mondo: negli Usa il primo giorno in sala frutta 32,33 milioni di dollari ed è subito record (ora però superato da "Il cavaliere oscuro"); l'incasso totale è stato di quasi un miliardo di dollari.
In conclusione il film, per un lettore, può essere un piacevole conforto (tenuto conto della menomazione che subiranno i successivi) e una simpatica verifica del modo in cui sono stati vivificati i personaggi che prima vivevano solo nella sua immaginazione; all'occhio di uno che non avesse mai toccato un libro di HP, esso è ancor di più una folgorazione per i fatti già elencati, e cioè che un universo così straordinario si affacci all'improvviso ai suoi occhi vergini.
L'effetto sorpresa, che corrobora questa prima riduzione, è un po' quello che viene a mancare in tutti i film successivi, dove, se le situazioni e gli avvenimenti cambieranno, la sostanza (che è la parte bella da vedere al cinema) rimarrà la stessa.
Gli attori, della cui scelta si è tanto parlato, rispondono all'appello con prontezza; stupiscono l'altezzosa Emma Watson e in generale tutti i piccoli attori, fa sorridere la "gigantesca" prova di Robbie Coltrane, intrigano le ambiguità ostentate di "Renato Zero" Rickman e di John Hurt, infine strugge l'aderenza perfetta di Richard Harris col suo immenso personaggio, una parte che si definirebbe a torto secondaria nell'onorata carriera dell'attore.
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Recensione a cura di julian - aggiornata al 10/08/2010 11.33.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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