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Hideo Yamamoto, bravo ragazzo. Un mangaka (ma non solo) che ha scritto e disegnato Koroshiya Ichi, grazie al quale è riuscito a farsi censurare perfino in Giappone. Pare infatti che il suo manga fosse stato giudicato leggermente violento.
Poteva un personaggio come Miike Takashi ignorare tale fenomeno? No, non poteva. E infatti nel 2001 concepisce in una manciata di mesi (lui di solito gira sei film all'anno, e tutti di una qualità che va dall'ottimo all'eccellente) "Ichi the killer": film che un eufemista definirebbe "eccessivo e violento".
Una cosa va chiarita: pare riduttivo appellare un autore che ha all'attivo 75 pellicole semplicemente come "regista". E son 75 al momento dell'estensione di tale articolo, con l'assoluta certezza che quando leggerete queste poche righe saranno come minimo 80.
Miike non è un regista, bensì una multinazionale di se stesso; la sua ditta produce vari articoli dai più disparati generi, e quando siete abbastanza sicuri di averlo classificato in una comoda etichetta manualistica ecco che subito sarà pronto a smentirvi.
Esiste un punto di contatto ideologico fra "Ichi", "Visitor q" e "Audition"? No. Perlomeno apparentemente; a ben vedere, sono storie d'amore tra le più pure che si siano mai viste, ma esattamente agli antipodi di un "Autumn in New York" a casaccio.
L'amore concepito da Miike è totalmente spoglio da strette cuciture di genere che portano lontano dall'indagare ciò che muove il cuore di una persona amante. Lontano dalla logica della sicurezza della coppia, Miike non tesse furbi vestiti culturalmente devianti, concepiti ad hoc per occultare le parti che non si vorrebbero mettere in evidenza. Si potrebbe osservare che non cuce addosso ai suoi personaggi nessun vestito, l'uomo è spesso nudo sia materialmente che ideologicamente: tripudi e danze di spogli toraci. Quando la carne è sottile il cuore si mostra più facilmente.
Ichi come punto di non ritorno della violenza filmica, che non ha altro fine se non evidenziare se stessa? Potrebbe essere vero, ma spostando di qualche grado il nostro punto di vista potremmo trattare Ichi come una storia sull'impossibilità dell'amore.
Ciascun personaggio principale non agisce mai per caso; Ichi, Karen, Kakihara.
Cercano qualcosa. Ma la ricerca di amore non coincide, molto poco onestamente, con la ricerca di un sincero affetto come potrebbe essere concepito in una normale accezione del termine.
E' ricerca di soddisfazione personale da sublimare attraverso l'altrui sfruttamento.
E' amore egoistico ed egocentrico, come egoisti ed egocentrici sono Ichi, Karen e Kakihara.
Ciascuno cerca in modo personale ed unico l'estasi, inizialmente concepita come pallido miraggio di un mero bisogno fisiologico, di completezza di se attraverso l'altro. Ma alla fine capiscono che l'Altro è solo una stazione da attraversare fugacemente, non un capolinea. Una tappa di un viaggio che riporta a se stessi.
Ichi riesce a raggiungere l'orgasmo solo dopo aver sparso nell'aere circostante ciò che prima era una persona. Fa in due, ma esattamente in due (manco col righello), un pappone molto poco gentile nei confronti della sua fonte di guadagno. La stessa ragazza, che con un grande punto interrogativo in fronte guarda il macello creato da Ichi, capisce in quel momento che forse non avrebbe dovuto chiedergli aiuto; un aiuto che era comunque uno sfogo e non una richiesta d'omicidio su commissione. «Ti picchierò io al suo posto» è la solidale uscita di Ichi. Comprensibilmente la ragazza pare non apprezzare, e anche lei diviene non più distinguibile dalla carta da parati. Stessa fine di Karen, che più o meno consapevolmente se la va a cercare col lanternino.
Ichi è equiparabile al samurai folle di "Guinea pig 2: flower of flesh and blood", ossia trova l'estasi suprema nello scavare nell'altrui corpo.
La cosa è complicata dall'autentica natura del conflitto che muove e dà senso al film: il rapporto fra Kakihara e Ichi, due persone che si cercano e che solo alla fine si troveranno.
Non cercano le rispettive persone, ma le rispettive personalità, ciascuna in grado di procurare sommo piacere all'altro. Perché i due son le due perfette metà di un'estasi da consumare una sola volta, la più significativa, quella per cui vale la pena vivere.
Cos'hanno di particolare questi due individui? Semplice ed efficace: Ichi è al 100% sadico, Kakihara è al 100% masochista. Meglio di così non si può chiedere, sulla carta è l'unico rapporto garantito a funzionare.
Ma, come già detto, può funzionare una sola volta. Da un incontro del genere non può nascere nulla di troppo longevo, esattamente come il finale di "Dead or Alive" insegna. Si potrebbe obiettare che i comportamenti violenti di entrambi gli individui siano solo un cumulo di efferatezze che ben poco hanno di diverso, ma in realtà sono nefandezze che muovono da assunti psicologici volti a soddisfare i diametralmente opposti lati dell'ego dei due. Da autentico masochista, Kakihara non si limita solamente a torturare molto poco simpaticamente vari individui, ma infierisce spesso e volentieri sul proprio magro corpo.
In una sequenza che definir "dettagliatissima in quanto a particolari" è poco, Kakihara annuncia ai vari boss di voler riparare ad un suo sbaglio. Lo sbaglio è quello di aver torturato Suzuki, sospettato di aver fatto scomparire il capo Anjo. «Non abbiamo prove» «da quando ti preoccupi delle prove?». Kakihara non è realmente intenzionato a sapere se Suzuki sia effettivamente colpevole o no, vuole solo torturarlo. E lo fa appendendolo a dei ganci, infilzandolo di spilli in faccia e buttandogli addosso olio con gamberetti, ovviamente bollente.
Ma ora, come yakuza, deve pagare quello che ha fatto. Kakihara tira fuori un coltello ma gli viene detto che «non bastano uno e due dita per quello che hai fatto». Ma il giovane boss risponde che non ha intenzione di tagliarsi dita, ma di «privarsi della fonte del suo piacere». Ergo: Kakihara ama i dolci, e vuole privarsi della sua lingua negandosi la degustazione degli stessi. Il dolore è doppio: mentale (niente più dolci) e fisico (via la lingua). Gli esterrefatti boss osservano Kakihara amputarsi la lingua, non riuscendo a trattenere un certo disgusto.
E noi con loro; Miike ci mostra l'atto in tutta la sua sfavillante, innocente, truculenza. Nel giro di qualche istante squilla il cellulare di Kakihara, rassicurandoci poco dopo del fatto che tanto la lingua ricresce (!).
E il suo rapporto con Karen, l'ex donna del boss, non è da meno. Qual'è la prima cosa che Kakihara chiede a Karen? No, sbagliato.
Chiede di essere picchiato. E lei non ci riesce, non riesce a procurargli il dolore necessario, cosa in cui eccelleva il boss Anjo. Come intuisce uno dei "pulitori", Kakihara cerca spasmodicamente il suo capo col quale aveva una sorta di relazione per un motivo strettamente egoistico; ritrovare l'unica persona che riusciva ad infliggergli un sommo dolore e che ora ha perso.
Ma c'è Ichi, la persona che sta facendo letteralmente a pezzi il suo clan. Kakihara vuole trovare Ichi non per vendetta, ma per tornaconto personale. Poco gli importa dei suoi sottoposti, poco meno che carne al macello. Vuole, desidera, ha paura di Ichi. Ma non di essere ucciso, bensì di se stesso. Ha paura, come lui confessa alla coppia di sadici poliziotti, di quello che potrebbe scoprire, di quello che potrebbe fare.
Sa che esiste un limite perfino per un masochista, un limite legato a questioni di sopravvivenza. Kakihara teme di poter oltrepassare tale limite.
La cosa puntualmente avviene, ma con i dovuti distinguo. Nel senso che non è ben chiaro cosa accada alla fine. Quel che è certo è che non tutto va come previsto; Ichi crolla a terra in preda ad una crisi di pianto, calciato da un ragazzino che si è appena visto uccidere il padre. Kakihara lo sprona a rialzarsi, incredulo, incitandolo al combattimento. Ma è tutto inutile; capisce che non potrà contare su Ichi per gustare l'estasi suprema. Deluso, volge i suoi spilloni all'interno delle proprie orecchie, per concedere a se stesso il piacere della propria morte, avendo gli altri fallito. Ma qualcosa accade; Kakihara si volta e vede Ichi con la testa del bambino in mano. Ichi si è destato, e sta correndo contro di lui per finirlo.
In una spettacolare sequenza, Ichi colpisce Kakihara in fronte e questi cade dal palazzo luogo dello scontro, morente ma felice. Sennonché Jiji sposta il ciuffo biondo dalla sua fronte, e dove avrebbe dovuto esserci la ferita mortale non c'è nulla. La fronte è intonsa, nessuna ferita è aperta sulla fronte di Kakihara. Un errore del regista? Tutt'altro; ed il gesto di mostrarci così dettagliatamente il particolare non ha altro scopo se non farci notare qualcosa.
Cosa significa il fatto che Kakihara non risulti ferito? Che con la morte ha completato e purificato se stesso in un processo di espiazione delle colpe e che si mostri quindi non più corrotto, quindi "sano"?
O che Kakihara abbia solo immaginato che Ichi lo abbia attaccato, e si sia buttato da solo?
In effetti, mentre Kakihara vola giù verso morte sicura, una sequenza mostra nuovamente il bambino che calcia un Ichi a terra, affranto e piangente. Ma non è una sequenza ben chiara, non si può essere sicuri che tutto ciò stia effettivamente avvenendo.
Delle due, una. Fatto sta che l'amore desiderato si è mostrato per la chimera che è.
Quale smacco per un masochista morire suicida, privandosi di quel sottile piacere che deriva dall'essere terminato non da se stessi ma dal proprio oggetto del desiderio?
Quale onta per Ichi, colui che raggiunge l'orgasmo attraverso la violenza, essere preso a calci da un bambino in preda ad un raptus piangione, incapace persino di considerare l'esistenza di Kakihara?
Quale disonore per Karen, burattinaia e calcolatrice, che cercando di servirsi di Ichi ne viene ammazzata?
Consuntivo della vicenda: va male a tutti. Si salva però qualcuno, cioè lo spettatore.
Difficile restare indifferenti dinnanzi al tripudio di soluzioni registiche che Miike ci offre, esente da qualsivoglia pericolo di affettazione. La naturalezza di Miike alla mdp è qualcosa di estremamente impressionante; si ha la sensazione che le inquadrature proposte siano sempre le più efficienti e la durata delle stesse quella ottimale. La fotografia è chiara e brillante, gli oggetti metallici e le stupende camicie di Kakihara riverberano scintillanti luccichii, che impreziosiscono e demistificano l'aura di estremo realismo in cui, comunque, il film è immerso.
Improvvisi ralenti e celeri accelerazioni fanno capolino di tanto in tanto, frantumando di fatto un montaggio a metà strada tra il classico e lo sperimentale. Si veda l'impressionante sequenza d'apertura con i titoli di testa, affettuoso omaggio all'immenso regista Tsukamoto, e in particolare a Tetsuo (lo stesso Tsukamoto recita nella parte di Jiji), culminante con il titolo del film che emerge da una macchia di sperma, gentile "omaggio" dello stesso Tsukamoto.
Ma attenzione; il tasso di violenza nel film è davvero alto. Le torture non sono avare di dettagli anche in primissimo piano, le violenze sulle donne sono la norma. E' chiaro che intervenga una tonnellata d'umorismo a stemperare il tutto, ma ciò non toglie che qui l'eccesso di truculenza è così esibito da far male agli occhi.
Non si vorrà in questa sede stilare un semplice elenco di alta macelleria miikiana, ma del film esistono varie versioni, più o meno censurate. Quelle intonse e prive di tagli sono quella olandese e americana, integrali fino all'osso. Seguono poi la versione inglese, tronca di circa 6 minuti, e quella cinese. Se vi imbattete in una copia di quest'ultima è d'uopo fuggire a gambe levate denunciando gli esercenti, essendo questa copia mancante di ben 15 minuti.
Chi scrive ritiene che sia possibile massacrare un film cassandone anche un solo minuto (bastano 50 secondi in meno a "Salò" per renderlo più o meno innocuo), ma un quarto d'ora è pura follia. Manca praticamente di tutto, ho visto suore assistere con divertimento alla versione di Ichi cinese tra un "Gandhi" e un "Al di là dei sogni".
State alla larga e boicottate questo scempio. Non siamo bambini, possiamo sostenere il pesante fardello di responsabilità derivante dal fatto di essere pienamente consapevoli di decidere cosa vogliamo vedere.
Ma anche la versione inglese è abbastanza da educande; il problema è che se volete realmente visionare Ichi lo dovete vedere nella sua completezza. I tagli concernono le violenze sulle donne, tagli di capezzoli, di lingua, spilloni dappertutto, olio fritto addosso, braccia staccate con la sola forza delle mani "per vedere se è possibile".
Per fortuna non esiste una versione doppiata, se decidete di darci un'occhiata dovete scendere a compromessi con i sottotitoli.
Cosa ottima, perché il doppiaggio dei film orientali è cosa dannosa e deprecabile, non tanto per critiche all'arte del doppiaggio in se, tanto quando per il fatto che ci son problemi piuttosto evidenti di tempistica: il contenuto di un testo giapponese, pur breve, potrebbe trovare la sua traduzione in periodi piuttosto lunghi e viceversa, incasinando il labiale ed accentuando l'effetto telenovela.
Ultima cosa: se riuscite a rimanere seri durante la visione di Ichi vendete il lettore dvd.
Avete sbagliato hobby.
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Recensione a cura di cash - aggiornata al 19/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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