Recensione il diario di un curato di campagna regia di Robert Bresson Francia 1950
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Recensione il diario di un curato di campagna (1950)

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locandina del film IL DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA

Immagine tratta dal film IL DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA

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"QUANT'E' MERAVIGLIOSO CHE SI POSSA DONARE CIO' CHE NON SI HA"

In un recente film di Xavier Beavoir, "Uomini di Dio", una confraternita accetta di condividere il martirio come forma imbelle di espressione religiosa. Quegli uomini, che provano per pochi istanti un senso di desolante smarrimento, si arrendono illusi e fatalisti davanti alla grandezza agiografica della loro missione. Eppure non esiste orgoglio abbastanza forte da sovrastare la conciliazione spirituale come riflesso di una dedizione assoluta verso le nostre azioni.
Il curato d'Ambricourt, protagonista di questo film, è invero insicuro della sua spiritualità, che tende a frantumarsi con le debolezze fisiche e psicologiche dell'umanità che lo circonda, con quella forte predisposizione al compatimento che lo rende, di fatto, vittima del suo stesso ruolo. Nessuna persona dotata di buon senso vorrebbe cercare in lui quell'elemento spirituale di cui forse ha bisogno. Ne percepisce sofferenza, non liberazione. Lo stato d'animo è una prostazione assoluta, che reclama amorevoli cure, oltre al coraggio di affrontare il silenzio, la morte, la separazione dai propri cari.

"Il diario di un curato di campagna", libero adattamento di un romanzo di Bernanos (scritto nel 1936) è, nell'ottica bressoniana, un film scarno, rigoroso ed essenziale, che riesce tuttavia a mantenere tanti di quegli elementi atti ad ampi dibattiti sul tema della fede, sulla vita e sulla ragione.
Bresson costruisce un film di riflessioni e aneddoti, attraverso immagini che riportano direttamente alla metafisica o alla poesia (per certi versi sembra di rivivere sullo schermo le atmosfere oppressive delle poesie di Antonine Artaud), sicuramente diverso dall'espressività narrativa del testo originale.
L'incontro di Bresson con le tematiche care a Bernanos non è rimasto isolato, infatti nel 1967 il regista realizzerà uno dei suoi film più intensi e dolorosi, "Mouchette", tratto da un romanzo scritto da Bernanos nel 1937 - l'anno successivo alla pubblicazione del "Diario".

Il curato d'Ambricourt, col suo volto scavato e lo sguardo perso in un "vuoto illuminante", è impersonato da un attore, Claude Layou, capace di filtrare oltre lo schermo l'inesorabile destino del suo personaggio, ma per quanto egli cerchi di adempiere a un ruolo non comune, egli è figlio indiretto di "Mouchette", di "Giovanna d'Arco", de "Il tenente Fontaine", di "Michel", di tutta la galleria individuale con cui Bresson ha costruito la sua scarna, basilare filmografia.
Ciò che colpisce nella rappresentazione di Bresson è la capacità di denutrire il romanzo della sua corposità eccessiva, e al tempo stesso arricchire il film attraverso una serie di riflessioni filosofiche e religiose da cui ognuno - credente o non - può trarre le più disparate teorie.

"CREDO DI NON FAR NULLA DI MALE ANNOTANDO QUI CON ASSOLUTA FRANCHEZZA GLI UMILI E INSIGNIFICANTI SEGRETI DI UNA VITA CHE NON HA MISTERI"

Il giovane curato si affida esclusivamente al diario, al mezzo cartaceo, come vettore esclusivo e "umano" delle sue riflessioni. Si tratta, ma non solo, di uno tra i più grandi apologhi sulla fede che siano mai stati realizzati sul grande schermo.
. Il primo impatto dell'uomo con la piccola comunità di Ambricourt, e la conoscenza dei suoi parrocchiani, si rivela deludente e questa apparente ostilità è destinata a poco a poco a crescere, a diminuire, ad aprirsi a qualche varco, salvo poi dissolversi nelle spire degli eventi più dolorosi.
Il curato è generalmente deluso dal prossimo, e anche questa può essere una colpa per un uomo di chiesa, incapace di neutralizzare le colpe altrui e/o di cogliere quelle virtualità umane che non necessariamente devono rivolgersi all'incontro con l'Assoluto, ma al buon senso comune.
Neanche Bresson riesce a sovvertire una certa ambiguità, quando ci si domanda: se la fede fosse un valore indispensabile soprattutto per sovvertire e placare le inquietudini dell'animo umano? Ovvero, il ruolo che ha nel sedare, attraverso lo spirito, le nostre ferite più profonde.
Davanti all'esperienza del curato di Bernanos e Bresson, siamo egualmente divisi dai nostri pensieri. Liberi dall'oppressivo timore di un Dio sia amorevole che coercitivo, possiamo affrontare il film con un'inquietudine maggiore, scevri e vinti dalle nostre reticenze.
Il curato non è "abbastanza forte" per ritrovare in se stesso la via della guarigione e per questo quasi impone agli altri di ritrovarla.
Se fallisce con Chantal, la ragazza borghese invisa alla madre e in lotta perenne con le abitudini del padre, egli riesce nell'ardua impresa di riavvicinare sua madre - in lutto per la morte del figlio - a Dio.

- "Ha preso mio figlio, che altro può contro di me?"
- "Non è il padrone dell'amore, è l'amore stesso"
- "E adesso eccovi faccia a faccia, lui e voi!"

Prima di tutto ciò, il film si soffermava sul difficile inserimento del prete nella comunità, davanti alle meschinità e ai rancori dei paesani, in un clima che non diverge poi molto da quello di "Diario di una cameriera" di Mirbeau. Ma è evidente che, come spettatori laici, l'accanimento spirituale del prete nei confronti della contessa, davanti a un autentico dolore Materno, possa suscitare un senso di fastidio. E' qualcosa che stride col significato della fede in quanto univoca assoluzione dell'Anima ferita, ma solo in un secondo tempo siamo quasi certi di credere che oltre i dogmi esiste la benevola liberazione da un lutto.
Per quanto si apprenda presto della morte della contessa, una lettera pudicamente celata dagli eventi spiega al curato che la sua "missione" è andata comunque a buon fine. Lo rivela persino Chantal, nell'unico momento del film in cui alla sua proverbiale durezza prende il sopravvento la comprensione, persino una vaga riconoscenza nei confronti del curato. Di cosa si tratta? Esiste in Bresson il sollievo di aver fatto incontrare Dio agli spettatori o la facoltà di un solo uomo di interrompere - anche attraverso l'indiretto e fatale oblio - la disperazione di una donna?
E infatti nè l'uomo, nè gli aspri giudizi del vescovo d'Arcy riescono a fargli comprendere il suo gesto.

- "Avevo veduto sulla sua fronte il riflesso della pace dei morti. Si pagano queste cose"
- "Penso che lei sia morta con il ricordo della tua durezza"

Nonostante la lettera di ringraziamento della donna al giovane curato, la sofferenza ci appare sempre come indicibile e per questo priva di qualsiasi rassegnazione. Il prete stesso ne è testimone, davanti al suicidio improvviso di un medico, "punito" dai clienti per il suo disordine igienico e morale.

"LA GENTE NON ODIA LA VOSTRA SEMPLICITA', SE NE DIFENDE. E' UNA SPECIE DI FUOCO CHE NON BRUCIA"

Il vescovo d'Arcy mette in contrapposizione la forza caratteriale della Chiesa con l'immagine umile e cagionevole del curato, preferendo chiaramente un mirato opportunismo all'immagine pellegrina del giovane prete, così sensibile a quei segni affettivi che si augura spesso di trovare nei suoi confronti.

"NON SO CHE AVREI DATO QUESTA MATTINA PER UNA PAROLA UMANA DI COMPASSIONE E DI TENEREZZA"

Se l'Uomo è sempre solo davanti all'incubo della sofferenza, il curato d'Ambricourt lo è ancora di più, di fronte al mistero della fede ma soprattutto a quel bisogno di "umanità" che egli vede erroneamente richiesto DA lui per LE ASPETTATIVE degli altri.

In un primo tempo, lo spettatore conosce anche la crudeltà di quel mondo preadolescente che lo deride. Tutto ciò è emblematico nel personaggio di Seraphita, quasi un'antisegnana di "Mouchette", della quale il film si occupa in maniera marginale rispetto al contesto originario del romanzo. E' un personaggio diverso da Sophie, anche per la miseria in cui versa la sua famiglia (una povertà di cui il curato sembra avere timore). Ma verso l'epilogo la stessa bambina, colpevole di averlo disprezzato, si occuperà di lui in modo insolitamente materno, allievando le sue sofferenze, come un Cristo curato amorevolmente dalla Beata Vergine (Maria).
Si tratta in effetti di uno di quei rarissimi casi nel cinema davanti ai quali la simbologia è intrinseca, implicita, priva di vera effigie.

"VIA CRUCIS"

Esistono diverse interpretazioni sul film di Bresson, opinioni che divergono a seconda dell'individualismo di ciascun "esperto". Lo storico francese Jean Sémolué sembra convinto che l'opera descriva una lunga "via crucis" del curato prima di approdare alla redenzione eterna, esattamente come Cristo quando muore nella croce - che poi è la stessa immagine fissa, catartica, statica riportata nel finale del film, mentre una voce fuori-campo esplicita e racconta il martirio terminale del protagonista. Secondo altri, si tratta dell'analisi di un fallimento, che nè la vita nè la morte possono restituire a una giustizia equa, a un senso predestinato dell'esistenza.

Sono due punti di vista completamente diversi, ma per certe ragioni possono avere lo stesso significato. Che cos'è il Martirio? La più pura espressione del dolore come Sacrificio solenne, o la consacrazione definitiva dell'uomo all'espressione controversa di una Fede radicale e progressista. Nella sua Via Crucis, il curato d'Ambricourt, mentre si appresta a conoscere la morte a causa di un male incurabile, vede "un volto di bambina, ma senza nessuna luce", poi "sviene e viene soccorso dalla bambina", infine ella asciuga con uno straccio il viso macchiato di sangue e vino". E' evidente il riferimento alla "Passione", in particolare alla Sacra Sindone, e altrettanto evidente è l'intenzione del regista di manipolare l'immagine del prete per soffermarsi sul Sacrificio di un'umanità che porta con sé i segni dogmatici del Cristo crocifisso.

"Il diario...", con la voce fuori-campo che esprime pagina per pagina e sequenza su sequenza, coinvolge lo spettatore proprio in virtù di quella strana analogia con i testi sacri. Eppure è una sensazione "fuorviante".
In un breve miraggio di luce, quando il curato riceve un passaggio in moto da un giovane, la realtà terrena sembra precludere proprio la sofferenza, e il protagonista si ritrova a sorridere per la prima volta davanti alle prove meno onerose della libertà giovanile.
Quindi se il film, a detta di qualcuno, rappresenta "il cammino verso la Santità", è altrettanto vero che l'elemento sacro non esprime compiutamente le sue reali intenzioni, ma la sacertà come espressione umana della Pena.
Il mondo, del resto, è quello della gente comune, dell'adulterio del Conte, della gelosia di Chantal, della passione "proibita" di un'ex seminarista, del suicidio del dottor Leborde. Il mondo è quello che ama compiangere se stesso, e che forse nessuna preghiera potrà mai alleviare. E' un mondo dove regnano i sentimenti celati, dove non c'è spazio per l'Illuminazione celestiale e temporale, con la luce del giorno avvolta nell'oscurità. Cronaca di un'inesorabile morte annunciata.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 23/06/2011 15.17.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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