il diario di un curato di campagna regia di Robert Bresson Francia 1950
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il diario di un curato di campagna (1950)

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locandina del film IL DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA

Titolo Originale: LE JOURNAL D'UN CURÉ DE CAMPAGNE

RegiaRobert Bresson

InterpretiClaude Laydu, Nicole Maurey, Joan Riveyre

Durata: h 1.50
NazionalitàFrancia 1950
Generedrammatico
Tratto dal libro "Il diario di un curato di campagna" di Georges Bernanos
Al cinema nel Gennaio 1950

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Trama del film Il diario di un curato di campagna

Un giovane parroco frequenta un castello il cui padrone, un conte, inganna la moglie con grande pena del figlio. Il prete si attira l'ostilità di entrambi. Malato di cancro, va a morire in casa di un prete spretato.

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Voto Visitatori:   8,77 / 10 (11 voti)8,77Grafico
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Voti e commenti su Il diario di un curato di campagna, 11 opinioni inserite

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stratoZ  @  09/10/2024 12:39:06
   8½ / 10
ATTENZIONE POSSIBILI SPOILER

Terza opera di Bresson, l'ho trovato un film con diverse similitudini al suo esordio, sia per la tematica clericale che per il gioco di contrasti che si viene a creare tra il prete - nel caso dell'esordio era la suora - in buona fede e il resto della comunità che sembra non vederlo di buon occhio, allo stesso tempo si vedono le influenze di Dreyer, specie sulla tematica riguardante il rapporto tra fede e applicazione della stessa all'interno dell'istituzione ecclesiastica e un'influenza futura su alcune opere di Bergman - la trilogia del silenzio in particolare - in cui i personaggi andranno incontro a dilemmi simili a quelli del protagonista di questo film, il giovane curato di campagna che è in continua lotta, prima che con gli altri membri della comunità, con la sua stessa fede, è un film in cui vengono prepotentemente scandite le difficoltà della sua figura, è un cammino, già definito da altri, cristologico in cui il curato verrà messo costantemente alla prova, la fede innata viene sottolineata proprio dai brutti avvenimenti a cui va incontro, proprio dal non essere riconosciuta dagli altri membri, tra cui i suoi superiori stessi che per motivi abbastanza ignoti o effimeri sembrano non provare particolare stima per il protagonista, che però, proprio come una figura divina, cercherà in tutti i modi di ricambiare il male con il bene, anteponendo gli altri a se stesso, vi è anche la tematica del conflitto tra corpo e anima, se l'anima del curato sembra non risentire delle peripezie, il corpo da l'impressione di essere quello che assorbe tutto il male, le precarie condizioni di salute del prete, con la triste scoperta finale potrebbero non essere altro che il risultato del male che ha assimilato e non è riuscito a dissipare in nessun modo, una reazione che somatizza le paure, le titubanze, l'incertezza di un mondo che sembra non riconoscere, anzi sembra totalmente opporsi, alla sua figura di rappresentante della fede.

Bresson utilizza ancora uno stile minimale, seppur mi è sembrato leggermente più elaborato di quello delle sue prime due opere, con un saltuario uso della colonna sonora extradiegetica e il costante uso del narratore, che sarebbe lo stesso protagonista, in un flusso di coscienza che mette in evidenza tutte le angosce e i dubbi causati dalla sofferenza terrena, con lo stratagemma come suggerisce il titolo, del diario dove segna tutte le sue memorie, ma è un protagonista che sembra non rassegnarsi nonostante tutto, una sorta di santo, non riconosciuto, che però essendo umano rimane inconsapevole della sua condizione, e qui si torna a quello che chiedeva anche Dreyer, un santo per esserlo davvero ha bisogno del riconoscimento da parte dell'istituzione?

La regia è ispiratissima e tocca ottimi picchi semantici, dall'utilizzo dei primi piani atti a mettere sempre al centro il protagonista e sottolineare la natura profana di altre figure - basti vedere la figlia della contessa, inquadrata nel confessionale circondata dal buio, oltretutto, vi è pure una bellezza formale non indifferente - o la rappresentazione del buzzurro superiore ancorato a preconcetti dogmatici.

Nel complesso è un'opera di grande impatto che approfondisce il pensiero di Bresson sulla fede e sulla sua applicazione più pragmatica, dalle tendenze antropologiche e con una forte componente introspettiva data dal flusso di coscienza e dalle condizioni del prete, opera che mostra la grande maturazione del regista che continuerà a regalare altre pellicole straordinarie nel corso degli anni successivi.

Thorondir  @  28/12/2023 11:42:28
   9 / 10
Metafora cristologica sul cammino di un uomo in una sorta di inferno dell'anima (i suoi tormenti sulla fede) e inferno dell'ambiente (una micro-comunità che per motivi sconosciuti lo vorrebbe cacciare e dove molti gli sono apertamente ostili). La rigorosità della vita del curato è anche quella che Bresson sceglie per la sua messa in scena, in cui quasi sempre il protagonista è al centro dell'inquadratura, figurativo nella sua martirologia cristiana (mentre altri personaggi, in momenti particolari, possono arrivare quasi a scomparire dal piano, come fa la ragazzina che quasi si eclissa nel buio del confessionale). È un film-manifesto del pensiero e dello stile di Bresson, talmente asciutto da poter essere mal digerito da chi è abituato al cinema contemporaneo dell'iper ritmo e dei dialoghi che tutto spiegano. Ma è anche un manifesto di rigorosissimo cinema spirituale, trascendentale (Paul Schrader), essenziale e pur potentissimo nella scelta dei piani cinematografici.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento emans  @  25/04/2020 00:10:48
   9 / 10
Un giovane prete viene destinato in uno sperduto villaggio della provincia Francese dove non esiste Dio.
Inutile andarsi a chiedere il perche' di tutta questa diffidenza nei confronti del prete, possiamo metterci la guerra da poco conclusa, ma in realta' è tutta una messa in scena dello stato d'animo del protagonista. Coni suoi dubbi di fede e il suo modo di vivere Cristianamente fino all'eccesso. Come quello di nustrirsi solo di pane e vino, come se l'ultima cena si ripetesse all'infinito, cosi come il calvario che lo portera' sulla croce.
Il regista Bresson tocca argomenti delicati che riescono a mettere daccordo atei e credenti, la sceneggiatura è perfetta e ci fa viaggiare a meta' strada, provando spesso pena e compassione per un prete mal voluto dai suoi stessi superiori.
A tal proposito sono emblematiche le ultime parole del suo confessore che quai dubita se assolvere i peccati del prete morente...una crudelta' infinita, proprio come la passione di Gesu' Cristo, un accanimento mai visto prima.
Solo la scrittura conforta il prete, e anche le uniche parole di ringraziamento (ovviamente velato) arrivano da una lettera.
Il film è certamente invecchiato e non è adatto ad una platea non preparata. Ma chi riesce a coglierne il significato non puo' che gridare al capolavoro!

Goldust  @  22/09/2014 17:43:27
   7 / 10
Doloroso viaggio nei tormenti interiori di un giovane curato di provincia che non si ritiene all'altezza del suo ruolo. Tra difficoltà ambientali, ostilità dei fedeli e scarsa fiducia dei "colleghi" il suo sarà un vero e proprio calvario che solo la Fede riuscirà a mitigare. Visto oggi, risente alquanto del peso degli anni, anche se a fine visione non lascia certo indifferenti.

Invia una mail all'autore del commento nocturnokarma  @  18/02/2013 14:40:29
   7½ / 10
Un'opera rigorosa e dolente, dove la solitudine e il dubbio accompagnano passo dopo passo il percorso cristologico del protagonista. Schiacciato dall'ipocrisia di un piccolo paese e della stessa curia, il curato sbaglia e si addolora, si interroga sul mistero di Dio e la sua Verità.

Bresson sceglie una messa in scena stilizzata, fatta di primi piani e una sapiente alternanza di voci off e dialoghi interiori, dando però (soprattutto alla prima mezz'ora) un ritmo quasi sincopato. Tuttavia la fede del regista appesantisce il film di una vena se non predicatoria certo fin troppo fiduciosa, fortunosamente schiacciata dal rigore formale di assoluta qualità, nel concedere alla Grazia la risposta all'Esistenza.

Per un ateo è più facile entrare in sintonia con il Bunuel di Nazarin o Viridiana, e anche con la precisione sconvolgente di Dies Irae di Dreyer, ma questo film ha comunque il pregio di interrogarsi sulla vita e le umane sofferenze senza nulla concedere alla spettacolarizzazione, al patetico e alle soluzioni facili.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR elio91  @  13/07/2011 20:06:27
   7½ / 10
Opera lacerante e senza compromessi sulla fede e sull'animo umano. Tutt'altro che semplice da seguire,la pellicola è incentrata completamente sul protagonista prete di cui conosciamo pensieri,vediamo azioni,cogliamo i dubbi e soffriamo insieme a lui dell'impotenza in cui è gettato quando tenta di professare la fede in cui crede ma viene ostacolato dalla stessa Chiesa...
Tratto da un romanzo,lo stesso film è molto lettarario e verbale e questi due presupposti sono il fondamento di un cinema tutt'altro che accattivante ma necessario.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR Invia una mail all'autore del commento kowalsky  @  01/06/2011 23:35:00
   10 / 10
"Quant'è meraviglioso che si possa donare ciò che non si ha" afferma il protagonista, mentre occulta pudicamente la prova concreta della sua (unica?) forza.
"Il diario di un curato di campagna" è lo zenith assoluto sulla debolezza dell'animo umano, e Bresson riflette su questo prete (dal cammino C.r.i.s.t.o.logico, verissimo) fino a plasmarlo nelle sue inquietudini, negli stessi interrogativi che pone a se stesso più che agli altri. In tutta questa "Via crucis" della sofferenza, troverà un unico momento di vera gioia (il passaggio in moto) come tanti anni dopo Mouchette nel suo breve giro in giostra. La prima volta la mia laicità si è rivoltata contro la guarigione spirituale del dolore - v. il personaggio della contessa - ma con maggior riguardo questa prova di accettazione diventa un elemento universale che tutti avrebbero potuto esaudire, senza invocare D.io o la conciliazione con lo spirito.
Tutto ciò che trasmette il film è che, nell'inesorabilità del destino, la vita e la morte vanno di pari passo, quasi quanto l'amore e l'odio, è il sacrificio inevitabile - e per questo insostenibile - della nostra eterna ricerca.
Credo sia uno dei più grandi film sull'umanità mai realizzati

Vedi recensione

Invia una mail all'autore del commento wega  @  15/08/2009 21:08:31
   10 / 10
Il cinema francese, tra i tanti, ha avuto anche l' antimoralista Renoir, l' intimista Truffaut, e lo spiritualista Bresson. Se nei film di Renoir i suoi protagonisti si scaricavano sulla società, pur essendo personaggi genuini e sinceri (ecco perché si può parlare di antimoralismo), quelli di Bresson, al contrario, sono come spugne che assorbono le angherie di un male sociale, che per Bresson, è ufficialmente incurabile. E' il caso del prete - malato di cancro - di quest' opera che è il primo capolavoro assoluto del regista, dove, ne "Il Diario di Un Curato di Campagna", per parossismo può sembrare, è più grande il dolore morale inferto da un amico morto suicida che il dolore fisico del cancro stesso; o dell' ufficiale francese di "Un Condannato a Morte è Fuggito", successivo capolavoro, l' asino di "Au Hasard Balthazar", altro capolavoro assoluto, la Santa Giovanna d' Arco o la ragazzina Mouchette. Se si parla di spiritualismo è inevitabile l' incontro con la religione e la fede in Dio. Tutti gli "eroi" di Bresson - chi più, chi meno - sono stati toccati da questa condizione: Giovanna d' Arco si sentiva addirittura prescelta da Dio, ma altri, dichiaratamente, come a molti succede poi nella propria vita, "pregavano solo nei momenti peggiori". Questo film del 1950 invece, rappresenta con "Nazarin" di Bunuel, l' atto estremo di fede mai apparso su pellicola. E punti in comune tra le due opere non saranno pochi.
E' la storia tratta dall' omonimo romanzo di Georges Bernanos di un giovane curato di campagna di Ambricourt, che nonostante tutti i buoni propositi collezionerà fallimenti a destra e a manca, ritrovandosi a morire poi, solo, di cancro allo stomaco, a casa di un prete spretato. La purificazione e la Grazia attraverso un percorso cristologico - come Nazarin - dove la mise en scène bressoniana è rigorosa ed essenziale espressione della sofferenza interiore del protagonista, condannato in una algida solitudine (al di là del cancello a sbarre, metafora che ritornerà, facile ma appena suggerita) scandita dal racconto in prima persona dell' Io (spirituale) del curato attraverso le annotazioni sul diario, che se non sbaglio, vengono riportate fedelmente dal testo da cui è tratta l' opera. Uno dei capolavori massimi della Storia del Cinema.

4 risposte al commento
Ultima risposta 20/08/2009 20.39.48
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Gruppo COLLABORATORI ULTRAVIOLENCE78  @  04/04/2008 18:06:33
   9 / 10
“Un'opera tutta fatta di verità interiore ha potuto per la prima volta passare sullo schermo senza la più piccola concessione” (Julien Green).

Dice bene lo scrittore e drammaturgo Julien Green. Bresson è riuscito nella proibitiva impresa di rappresentare i travagliati moti dell'animo di un prete che si sente perduto e abbandonato da Dio: e lo ha fatto con la puntuale descrizione dei rapporti del curato con gli altri compaesani, ma soprattutto con lo svolgersi della quotidiana stesura del diario dello stesso, con la quale prende avvio e si sviluppa il lento disvelarsi della sua conflittuale interiorità, non togliendo niente così allo spessore dell'opera di Bernanos.
Il film di Bresson, e prima ancora il romanzo da cui è tratto, si presenta come una parabola estremamente conciliante per chi ha la fede e crede in Dio: tutte le difficoltà, le sofferenze, le debolezze, le tentazioni, gli errori e i vizi che caratterizzano il corso della vita, ne “Il diario di un curato di campagna” diventano le tappe imprescindibili che conducono alla Grazia e alla conciliazione finale con Dio: in questo modo ciò che appare come qualcosa che fa cadere nella perdizione e che allontana dalla fede non è altro che una prova della forza di questa che, alla al tramonto della esistenza dell’uomo, si manifesterà in tutta la sua salvifica e radiosa Grazia. A questo proposito, un passo fondamentale è quello in cui il giovane prete, riferendosi alla sua opera benefica nei confronti della contessa (che grazie al suo aiuto riesce a riconquistare la fede), afferma che è una meraviglia poter dare quel che non si possiede, che è “un miracolo delle nostre mani vuote”: ma alla fine egli capirà che ciò che pensava di aver perduto definitivamente, in realtà è sempre stato saldamente radicato nella sua anima.
Un’opera di una potenza eccezionale che, quantunque si incentri sul tema della fede, si rivolge tanto ai credenti quanto ai non credenti, poichè pone al centro il dramma universale dell’uomo solo davanti al mistero di Dio.

Gruppo REDAZIONE amterme63  @  28/12/2007 23:36:10
   9 / 10
Molto affascinante e profondo. Porta alla ribalta una storia particolare, non facile da interpretare. Un giovanissimo curato prende possesso della sua parrocchia nella povera campagna francese. Si tratta di un’anima molto tormentata e che vive totalmente di spirituale, tanto da trascurare tutto ciò che è materiale, compreso il proprio nutrimento. Si ciba infatti solo di pane e vino (guarda caso i simboli dell’eucarestia). Qualsiasi pensiero o azione è sottoposto a riflessione e sviscerato nel suo significato religioso, tanto da diventare quasi un tormento continuo che lo porta in pratica ad autodistruggersi. Interagisce con poche persone fra cui il curato di Torcy, che rappresenta invece l’aspetto più terreno della vocazione religiosa. E’ infatti un bel prete tondo e rubicondo, di carattere energico e pratico. Ci sono poi una serie di presenze femminili conquistate dal fascino (anche profano) che promana il giovane curato, fra cui Chantal, la figlia del Conte, presa anche lei da un sentimento fortissimo, ma di natura opposta rispetto a quella del curato (voglia di passioni forti e intense di natura terrena). Completa il quadro la Contessa, ossessionata dalla perdita del figlio e un vecchio medico ateo anche lui tormentato dalla mancanza del suo lavoro. Entrambi faranno una brutta fine.
Questa storia può essere vista in due modi diversi. Uno puramente religioso e serve per esaltare e nobilitare una grande figura che ha seguito fino in fondo i dettami di Dio, fino a sacrificare il proprio fisico per la fede. Il nucleo centrale di questo aspetto è il colloquio fra il Curato e la Contessa, in cui si proclama la volontà di Dio come volontà assoluta a cui occorre conformarsi nel bene e nel male, le disgrazie come prove di forza per poter comunque andare avanti nella strada disegnata da Dio. E’ questo l’atteggiamento che sosterrà il Curato fino alla fine.
L’altro modo di vedere fa apparire il film come una critica sottile alle ossessioni maniacali, compresa quella spirituale del Curato, anche se la storia tende a esaltare questa figura. E’ la stessa operazione stilistica di Goethe nel romanzo “I dolori del giovane Werther”. Non a caso vengono accostati al Curato le altre figure del medico, di Chantal, della Contessa; tutti con la loro ossessione, come per far capire che la religione è solo un aspetto della psiche umana come tanti altri (può diventare una fissazione, una monomania). Alla fine sono i tipi come il curato di Torcy (i materiali) che sopravvivono e portano avanti le istituzioni. La vita completamente spirituale è quindi una nobile e impossibile utopia.
Il film è una trasposizione del romanzo di Bernanos, fin troppo letteraria. Per tutto il film c’è una voce fuori campo che legge il diario del curato mentre avvengono i fatti. In effetti si ha quasi l’impressione a volte di avere davanti un film muto con la voce narrante al posto delle didascalie. Il film è rigorosamente narrato in soggettiva. Si racconta sempre e solo quello che avviene nell’animo del Curato. Il paese è ostile al Curato, mette in giro voci, ma lo capiamo solo attraverso ciò che viene a sapere lui. Solo alla fine, quasi in punto di morte, quando non riesce quasi più a scrivere, la voce narrante tace e scorrono immagini di un uomo distrutto. L’agonia è raccontata con distacco da terzi. Tutto gira quindi intorno ad un’unica bellissima interpretazione. Bravo l’attore a dare un’immagine indimenticabile del Curato: emaciato, dimesso, con il suo atteggiamento malinconico/triste e tormentato. L’occhio si concede solo qualche bella immagine di chiese e portali gotici. Il resto sono scenografie estremamente semplici e dimesse, proprio per dare il senso di vita staccata dal fisico e dal materiale che conduce il protagonista. Una figura e una vicenda che rimangono senz’altro impressi.

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Ultima risposta 30/12/2007 21.40.47
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Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento goat  @  03/06/2007 14:50:18
   10 / 10
tratto da un romanzo di bernanos.
il libro, ai limiti dell'illeggibile per quanto noioso e statico, è ben più filmico della pellicola di bresson: nel film non tutto cio che è detto viene filmato, ma tutto ciò che è filmato, viene detto.

1 risposta al commento
Ultima risposta 13/06/2007 23.01.22
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