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Eric Bishop è un postino di mezza età che sta attraversando una crisi dovuta ai problemi causati dai due figli lasciatigli da una moglie che l'ha abbandonato, e dall'amore mai scemato per la sua prima moglie che lui abbandonò trent'anni prima. A soccorrerlo arriva il suo mito, il calciatore Eric Cantona, che si materializzerà accanto a lui, uscendo dall'enorme poster nella sua stanza, indicandogli la maniera migliore per ricominciare a vivere.
Un Ken Loach rinnovato e abbastanza inedito questo de "Il mio amico Eric", visto che ci aveva abituato a film ben più drammatici, impegnati e seriosi, che si facevano apprezzare proprio per il loro valore etico-sociale e per il bagaglio di denunce ai soprusi contro i componenti più deboli della società, da sempre presi ad oggetto di narrazione da parte del regista inglese. In questo caso ci troviamo di fronte ad una perfetta e piacevolissima commistione tra dramma e commedia, con qualche punta di "surrealismo" insita nell'irresistibile ed a tratti esilarante figura del "grillo parlante" Cantona. Sia chiaro, Loach non ha potuto resistere a scegliere come protagonista della sua nuova pellicola un operaio (da sempre la categoria privilegiata del regista) e a mostrarci tutto il valore dei lavoratori e la loro potenza sociale ed umana proprio tramite la figura di tutti i fantastici amici di Eric che sequenza dopo sequenza dimostrano la loro grandezza d'animo e la loro forza di spirito (come quando si riuniscono per aiutare Eric con una specie di seduta di auto-stima o come nella straordinaria sequenza in cui riunitisi in due pullman da tifosi, indossando la maschera di Cantona, distruggono la villa di un criminale che minaccia l'esistenza di Eric e del suo "figlioccio" maggiore).
Sono molti i sottotesti che accompagnano questa sorta di ascesa dagli inferi del protagonista aiutato dal suo mito di sempre, a partire appunto dall'importanza e dal carattere a volte salvifico dell'esistenza di un punto di riferimento al quale aggrapparsi nei momenti più tristi e difficili della nostra vita. Non un'apologia al divismo, sia ben chiaro, ma una sana e innocua immedesimazione in qualcuno che si ammira e che si ritiene "invincibile". Non è un caso, infatti, che il protagonista abbia lo stesso nome di battesimo di Cantona, a sottolineare il concetto di immedesimazione e voglia di emulazione che si provano nei confronti dei propri punti di riferimento.
Ma quello che emerge ancora più chiaramente durante la visione de "Il mio amico Eric", seppur presente in sottotraccia all'interno della narrazione, è l'importanza della solidarietà umana, dell'umanità stessa, del concetto di gruppo e di fiducia nell'altro, della fratellanza e dell'impegno reciproco ad aiutarsi. Lo dimostra non solo la già citata sequenza in cui Eric, nonostante numerosi tentativi, riesce a risolvere uno dei suoi più grandi problemi solo in seguito alla condivisione di esso con i suoi amici che scendono in campo (la metafora è d'obbligo) solo per lui e per i suoi figli (straordinaria la battuta di un suo amico rivolta al criminale accorso in giardino in mutande: "Io ti troverò ovunque e sai perché? Perché sono un postino!", a rimarcare ulteriormente in maniera ironica il concetto di grandezza della classe operaia); ma anche un momento molto coinvolgente in cui Eric tenta di indovinare il ricordo più bello di Cantona, andando a pescare tra i suoi migliori goal, per poi scoprire che per il calciatore il momento più indimenticabile della sua carriera calcistica è stato un passaggio ad un collega che poi ha segnato.
Ad arricchire ulteriormente la già ricchissima narrazione si inserisce anche il filone "sentimentale" impersonato da Lily, la prima moglie di Eric, quella che l'ha mandato in sato confusionale perché, dopo un silenzio durato quasi trent'anni, sarà costretto a riallacciare i rapporti con lei per aiutare la loro unica figlia che ha bisogno di una mano con la sua bambina, per riuscire a laurearsi in tempo. Sarà il fatto di doversi incontrare con lei che scatenerà in Eric quella sorta di depressione che i suoi amici cercano di curare con barzellette e bevute di birra al pub. Ma l'unico che riuscirà ad indicare ad Eric la via giusta per rapportarsi con l'amore della sua vita sarà il grande Cantona, che esprimendosi autoironicamente com motti di spirito francesi (così come faceva spesso il calciatore nelle conferenze stampa come dimostra quella famosissima che vediamo dopo i titoli di coda), guida il postino verso un'inevitabile introspezione che lo porterà ad uno svelamento e ad un'approfondita conoscenza di tutti i fantasmi del suo passato (anche se in un momento molto commovente e toccante Loach ci racconta che sono i ricordi più belli quelli più difficili da sopportare), di modo da poterli affrontare per sistemare il presente e proseguire felicemente con il futuro.
Del resto, facendoci sorridere di gusto, è lo stesso Cantona che decanta l'importanza e il valore del personaggio da lui interpretato, rispondendo a Eric che gli ha detto di essersi reso conto che del resto anche lui è un uomo come tutti gli altri, con una battuta davvero emblematica: "Io non sono un uomo. Io sono Eric Cantona!".
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Recensione a cura di A. Cavisi - aggiornata al 22/12/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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