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Questo splendido film sul medioevo, del regista Jean-Jacques Annaud, uscito nel 1986, è un rifacimento in chiave cinematografica del famoso romanzo "Il nome della rosa" di Umberto Eco. Sia il film che il libro, pubblicato nel 1980, hanno avuto una grande divulgazione suscitando un interesse di critica internazionale. L'opera del semiologo alessandrino è stata tradotta in diverse lingue.
"Il nome della rosa" è il primo e il più famoso dei romanzi scritti dal noto saggista piemontese. Oltre cinque milioni le copie vendute. Un record inaspettato che difficilmente sarà superato.
Il grande successo commerciale e di critica del racconto di Eco non poteva lasciare indifferente l'industria cinematografica. E, infatti, un grande produttore, Franco Cristaldi, nel 1981 si è subito impegnato in un progetto filmico sul libro. Esso prevedeva un forte investimento su tutta l'operazione affinché si esaltassero le qualità letterarie e spettacolari dello scritto. Nella creazione di questo film nulla è stato lasciato al caso, il produttore era intenzionato a lanciare un'opera di particolare successo e pregio. Basti pensare che Cristaldi non ha posto alcun limite di tempo all'uscita del film. I lavori sono terminati nel 1986, dopo cinque anni di lunghe riprese. Ne è uscito un film sopra le righe, con personaggi e intrecci ben delineati che suscitano tuttora curiosità e interesse senza deludere.
Il film si è mantenuto, grazie alla bravura di Annaud, vicino alle atmosfere gotiche del libro.
Il regista francese è riuscito a dare un buon equilibrio alla narrazione selezionando accuratamente quegli aspetti del libro che più si prestavano a una significativa e spettacolare traduzione visiva.
Il film mantiene l'umorismo e l'ironia anticlericale di Eco confermando l'idoneità del suo romanzo a trasmettere sullo schermo i motivi letterari e fabulatori che lo racchiudono. Spettacolo e cultura s'intrecciano disinvoltamente, con sicurezza, senza tradire il libro né le attese cinematografiche dello spettatore.
Il forte investimento del produttore Cristaldi, sembrava inizialmente un po' a rischio perché il film in progetto apparteneva a un genere troppo colto. Erano, infatti, previsti numerosi dialoghi, concettualmente non sempre di facile e veloce comprensione. Nonostante ciò Cristaldi ha centrato in pieno l'obiettivo, perché nel film le numerose situazioni messe in tensione e le scene di suspense prendono sovente il sopravvento sul detto imponendosi per fascino visivo. Il piacevole ritmo delle immagini in movimento sembra quasi supplire al passaggio veloce e a volte inafferrabile dei difficili concetti presenti nelle conversazioni.
Il successo del libro ha reso anche evidente come negli anni '80 ci fosse un forte interesse per la cultura e la storia medioevale.
Cristaldi, seppur a fatica, ha saputo cogliere questo momento favorevole del mercato ed ha lavorato per costruire un'opera filmica che rimanesse fedele a un'atmosfera fortemente impregnata del linguaggio, dei miti e della cultura medioevale, per giungere a ciò ha rinunciato a ogni compromesso con la cultura della nostra epoca. Felice è stata a questo proposito la scelta di Cristaldi sul regista Annaud, il cineasta francese ha interpretato al meglio il libro traendone ispirazioni visive di grande interesse.
Diversi ma tutti fortemente narrativi i motivi conduttori del film e le tecniche legate alla composizione degli episodi, ricordiamo: il giallo alla Sherlock Holmes, l'anticlericalismo reiterato mascherato da ironia colta, le feroci satire sulle procedure aberranti messe in atto dall'inquisizione, la comicità delle lunghe e seriose dispute teologiche, le messe in ridicolo dei numerosi riti e formalismi legati alla gerarchia cattolica medievale. Per non dimenticare l'andamento ironico sul mondo spirituale dei frati, una realtà quest'ultima a tratti colorata di fondamentalismo e affetta da divisioni profonde: da una parte i frati francescani cultori della pace dall'altra i frati dolciniani feroci giustizieri dei ricchi e dediti al vizio sessuale e di gola.
Di buon livello l'umorismo del film. Esso ruota intorno alle contraddizioni delle vecchie istituzioni cattoliche. Il buon umore che il film riesce a trasmettere spiega in parte il successo di pubblico.
Numerose le polemiche sorte dai contenuti del libro e del film. Esse sono durate degli anni impegnando diversi quotidiani, riviste di cinema, televisione.
In proposito vien da pensare che, andando a vedere il film, una parte degli spettatori abbia intravisto l'occasione di partecipare, da un'angolazione diversa, al forte clima polemico coinvolgente cattolici e laici: un'atmosfera di forti litigi accesa dai contenuti del libro. Le polemiche che quel clima racchiudeva vertevano sulle verità storiche dei diversi episodi del film e del libro, sulla loro autenticità o meno. Veniva contestata da parte cattolica la descrizione fatta da Eco del mondo religioso medioevale, dell'austero e feroce clima presente in alcune istituzioni ecclesiastiche.
Massimo Introvigne, intellettuale cattolico di spicco, è entrato duramente in polemica con il film e l'opera di Eco sul numero 142 di Cristianità (1987). Introvigne sosteneva che i processi per eresia e possessione diabolica eseguiti dagli inquisitori nel medioevo non erano di tipo ideologico, come viene evidenziato nel libro e nel film, ma garantisti, gli scritti di Eco perciò secondo lui appaiono lontani dalla vera realtà storica dell'epoca. L'inquisizione, secondo l'intellettuale cattolico, procedeva senza alcun pregiudizio verso gli accusati. I processi avevano delle regole complesse che garantivano sia la difesa dell'imputato che un'equità fondamentale nelle sentenze. La corruzione negli inquisitori era molto rara perché facilmente smascherabile dalla difesa.
Introvigne rivolge a Umberto Eco altri numerosi rimproveri, non sempre ben sostenuti comunque tutti tesi a dimostrare le varie falsità del libro e della sceneggiatura. Introvigne giunge perfino a sostenere che il riso e l'umorismo, a dispetto di quanto affermato da Eco e da Annaud che ne lamentano la tragica assenza, erano ben presenti nei monasteri medievali, semplicemente non andavano a interferire con le liturgie e i culti dei monaci; si esprimevano nei momenti opportuni.
La polemica cattolica verso Umberto Eco non fu molto costruttiva perché non chiarì quello che era il vero movente culturale del libro e del film, cioè scrivere delle debolezze umane divertendosi, in particolare scrivere prendendo di mira uomini seriosi appartenenti alle varie gerarchie religiose medioevali. Divertirsi e ridere del comportamento umano che sfocia in paradossi e contraddizioni svelando i veri suoi intenti. Ed è proprio questo che non è stato colto dal cattolico Introvigne, egli nel polemizzare è rimasto troppo ligio ai suoi doveri e principi dottrinali. Quando l'agire umano è rigido e porta a paradossi e contraddizioni tradisce una complessità che porta al comico, nessun dogma religioso può negare o semplificare certi meccanismi psicologici.
Eco aveva colpito nel segno, l'eccessiva serietà dei vangeli, dei frati, dei vescovi, dell'inquisizione, nascondeva una concezione troppo pessimistica dell'uomo che per contrasto con la realtà molto più complessa della vita umana non poteva non andare incontro a diverse forme di umorismo.
Le polemiche testimoniano tuttora la presenza di credenze religiose in crisi di identità storica. Sia il libro che il film con le loro penetranti e acute ironie hanno ridestato, scuotendolo, un rimosso collettivo precario. Pagine di ricordi che racchiudono antiche e discutibili vicende del cristianesimo si sono presentate alla coscienza del mondo religioso. Esse hanno messo in evidenza le parti più tragiche della storia della chiesa cattolica.
"Il nome della rosa" ha riscosso un successo di pubblico straordinario. "Il dizionario di cinema Morandini del 2006" assegna al film cinque cerchietti, il che significa: massima affluenza al botteghino.
Sembra che Umberto Eco abbia collaborato a una parte della sceneggiatura del film rendendosi disponibile a varie consulenze. Tra l'altro occorreva tener conto, nella trasposizione cinematografica, della necessità di usare codici linguistici riferiti non solo allo spettacolo ma anche all'etica. Alcune parti del film sono diverse dal libro per rispettare ciò che nel cinema è ormai diventato un pensiero politico: dare un senso etico al finale. Annaud tiene conto dell'importanza di uno scioglimento a sfondo etico del racconto cinematografico, tipico di molti grandi film, ormai quasi un obbligo nei film commerciali, il regista dà alle sorti del cattivo uno statuto diverso dal libro.
Sia il racconto di Eco che il film sono ambientati nel 1327 in un'abbazia benedettina di cui non si conosce il nome. Dalle vicende narrate nel libro, si desume che possa esser situata sulla dorsale appenninica dell'Italia settentrionale, forse tra la Liguria e il Piemonte o la Liguria e la Lombardia di oggi.
Gli episodi descritti hanno un andamento da thriller e si succedono lungo un arco di tempo di sette giorni, a iniziare dalla fine di Novembre.
Sia il romanzo che il film, sono corredati da lunghe descrizioni dell'abbazia, e seppur in modi e tempi diversi, mettono bene a fuoco le principali caratteristiche degli edifici dell'abbazia e della sua organizzazione. Vengono evidenziate, con numerosi dettagli, le varie funzioni attivate nella comunità dei monaci, un complesso autonomo e chiuso ad ogni influenza esterna.
Sul fondo del viale principale s'imponeva l'Edificio maggiore, di forma quadrilatera con ai vertici quattro torrioni ettagonali. All'interno le parti murarie erano nude, mere funzioni di altre attività. Prive di ogni bellezza architettonica. In esse erano racchiuse biblioteche con splendide opere letterarie e locali ben attrezzati sia per le traduzioni delle opere scritte sia per disegni di pregio in miniatura. Numerosi libri erano di origine laica come ad esempio quelli di Aristotele.
Innumerevoli le celle murarie di servizio e di raccoglimento per le preghiere nonché i locali di diverso uso, tutte ben protette dalle intemperie. L'abbazia rispondeva in modo sobrio ed efficace a tutte le funzionalità amministrative e organizzative che una comunità di grande richiamo richiedeva.
Gli edifici erano ubicati sopra la cima di un monte e avevano intorno una grande cinta di mura. L'ingresso era assicurato da un portale che si chiudeva lasciando scorrere dall'alto in basso o viceversa una spessa struttura a sbarre di ferro opportunamente studiata per resistere ad ogni attacco dall'esterno.
All'interno dell'abbazia si trovavano numerosi orti, il giardino botanico, l'ospedale e l'erboristeria, la chiesa e un grande viale che partiva dall'ingresso principale e arrivava all'ingresso del grosso edificio di culto e di lavoro.
Lo stile del racconto è alto ma insolitamente scorrevole per un film del genere, evidentemente l'ironia intrecciata a intelligenti forme di umorismo dà sempre buoni risultati. Molte le scene di suspense. Chiaro e semplice l'enigma centrale del thriller, anche se di difficile interpretazione analitica e di non facile soluzione.
Il nucleo principale del racconto riguarda la misteriosa morte, nello scorrere di una settimana, di sette fratelli benedettini.
Il francescano Guglielmo di Baskerville, giunto all'abbazia con il novizio Adso de Melk per partecipare a una disputa contro i cattolici sulla veridicità del dogma della povertà in Cristo, viene coinvolto dall'abate dell'abbazia nella ricerca delle cause e delle responsabilità degli omicidi.
Il film è essenzialmente un thriller favolistico, con aspetti satirici attraversati qua e là da parodie audaci e ricche di senso. Le conversazioni, spesso trascritte direttamente dal libro, sono molto colte, anche se permeate qua e là di cultura enciclopedica, quindi un po' lontane nello stile da ciò che oggi si considera colto. I personaggi del film danno sfoggio di una cultura impregnata di miti e nozioni empiriche di larga affermazione, distanti dalla cultura moderna notoriamente sviluppatasi a base scientifica.
Anche nel film i personaggi di Guglielmo e Adso hanno caratteristiche simili a Sherlock Holmes e Watson: protagonisti della famosa serie scritta di gialli inglesi di Arthur Conan Doyle cui Eco ha voluto rendere omaggio con la sua opera.
Nel racconto di questo film giallo si uccide o si decide di morire per angoscia e senso di colpa ogni qualvolta un frate benedettino entra in contatto con un libro di Aristotele dal titolo la "Seconda poetica": uno studio che insegna come creare situazioni di riso. Il testo di Aristotele suggerisce comportamenti eticamente discutibili ma veri che per i frati saranno scandalosi anche se attraenti. Ne è un esempio, una frase presa dal testo: "[...]come invitare uomini volgari a un intrattenimento e trarre piacere dai loro difetti [...]".
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 01/03/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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