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"L'orizzonte degli eventi" è termine del linguaggio scientifico, della fisica in particolare, che credo definisca "il panorama della ricerca" in un determinato momento; cioè lo stato dell'arte degli studi in corso. Un po' come dire " a questo punto è così che vanno le cose!".
Vero questo, il quadro che emergerebbe da questo " film/ ricerca" sarebbe davvero desolante; guardando, in effetti, all'oggetto effettivo della ricerca (film) stessa: apparentemente quella fisica, del mondo naturale, ma nella sostanza quella psicologica e morale, del mondo umano -e, direi, in particolare maschile!
La storia è suddivisa in due momenti, che raccontiamo in successione.
Il primo riguarda gli studi condotti da una troupe di fisici e ricercatori universitari, a mille metri di profondità, nelle viscere del Gran Sasso, ambiente ottimale ai loro fini.
Nell'atmosfera spettrale e rarefatta dell'attività underground, il gelo dell'insieme, e la reiterazione arida delle procedure, crea un clima di indominabile "noia esistenziale", del tutto disumanizzante, di taglio Kafkiano o Sartriano.
Meglio ancora, se vogliamo, il riferimento all'alienazione classica del cinema di Antonioni, con evidenti e molteplici richiami a scene de "L'eclisse" e "Il deserto rosso": somiglianti anche per un certo ermetismo, per la riduzione del dialogo all'essenziale, e per il soffermarsi a lungo sull'immagine.
In questa prima metà del film la fotografia gioca un ruolo determinante, sovrapponendo immagini surreali di grande suggestione; dove gli ambienti underground, i tunnel perforati da luci psichedeliche e le lampade del maxiglobo sferoide, evocano simbolicamente la dimensione metafisica dell'universo, a quelle della piccolezza umana: vista nella noia alienante del quotidiano al computer, e nella buia intimità dell'alcova, momento unico di vitalità.
Dove l'amore fisico, solo legame tra persone in realtà distantissime, suona come unica forma di sollievo dalla fatale insensatezza dell'esistere.
Poi, esce la verità del protagonista: pur di conservare il suo potere, trucca le carte della ricerca, fingendo di avere eseguito una vera scoperta, e sconfessando l'utopico idealismo dello studioso puro.E la sua apparenza da eroe, bello e dunque giusto, diventa tristemente emblematica della pochezza dell'uomo di oggi, e di sempre: per denaro e potere si vende l'anima, rivelandosi povero e meschino, senza qualità.
Al contrario della donna, proposta nel film come nobile, onesta, spiritualmente più elevata, con evidente simbolismo angelico.
Nella seconda parte del film, si offre l'opportunità di un riscatto al protagonista. Scampato per miracolo al tentativo di suicidarsi con l'auto, viene salvato da un pastore albanese, tenuto come schiavo da una ghenga di conterranei, che lo ricattano perché in possesso dei suoi documenti.
A contatto col pastore, con il gregge, e con la aspra e selvaggia natura dei pascoli del Gran Sasso, il disonesto studioso avrebbe materia per rivedere la propria vita e le sue scelte, acquisendo una superiore consapevolezza; capace di reumanizzarlo, e di insegnargli un giusto distacco dalle cose materiali del mondo e dalle vicende del potere.
Anche qui la fotografia segue con coerenza la narrazione, avvincendoci con gli aspri panorami desertici della montagna, e con gli splendidi notturni dei cieli e nella misera capanna. E qui sceneggiatura e dialogo si levano a quote superiori per delicatezza di tocco: dove la vicenda dell'incontro tra il cyber mondo della fisica e l'antica cultura agreste terzo mondista, potrebbe sfociare in un polpettone retorico, col solito discorso del buon selvaggio etc. etc.; al contrario l'asciuttezza e l'essenzialità dei dialoghi, rendono il tutto credibile e convincente.
Come pure nel prosieguo: il disonesto ricercatore prima si muoverà a compassione, offrendosi di riscattare la taglia per salvare il povero pastore; poi, a distanza, dimenticherà le buone intenzioni, lasciando il poveraccio al suo atroce destino.
E questa crudele indifferenza assurge così a metafora dell' indifferenza con cui il cosiddetto mondo "civile" guarda al destino dei poveri e del terzo mondo.
Amara, dunque la conclusione: il famoso homo homini lupus è sempre in vigore! L'uomo è crudele ed egoista, sempre pronto a vendersi l'anima per interesse. E non c'è da credere minimamente nell'eventualità di una sua redenzione.
Triste a dirsi, dopo l'avvento sulla terra di Cristo, Gandhi e Madre Teresa. Ma triste pure per Daniele Vicari, che a soli 38 anni è già così intriso di pessimismo: annota e registra la meschinità umana come un reperto anatomico, senza apparente partecipazione emotiva.
Ma il mondo non lo ha fatto lui; e la sua attività di vivisettore si può dimostrare preziosa anche per illuminare le coscienze sopite. Col merito aggiuntivo di saper raccontare, con intensità, senza fronzoli la realtà dell'esistenza e dell'alienazione (esemplari e memorabili i dialoghi di Valerio Santandrea con le sue amanti, G.Simon e F.Inaudi!).
Al giovane regista manca ancora,ovviamente, una compiuta maturazione, che renda più fluida e spontanea, meno voluta e architettata, la strutturazione generale della sua opera.
Ma ha tale profondità di pensiero e di espressione, oltre che sensibilità estetica e gusto per l'immagine, che all'orizzonte de suoi eventi è facile attenderlo, per il futuro, ai confini di un capolavoro.
Proprio come avevamo pensato, ai suoi primi film, per Valerio Zurlini.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 07/10/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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