Voto Visitatori: | 7,20 / 10 (64 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,50 / 10 | ||
"Dieu est un fils de pute et un jour je le tuerai!"
Negli anni settanta la MR 73 era la pistola d'ordinanza della Polizia Giudiziaria francese. Si tratta di un revolver a sei colpi, un'arma pesante, potente, precisa. Un gioiello per i collezionisti, ma uno strumento assai arcaico e scarsamente funzionale, se paragonato alle moderne armi automatiche.
La MR 73 è un arma del passato.
Non ha nessun senso il titolo italiano di quest'ultimo film diretto da Olivier Marchal. In questa pellicola non c'è nessuna ultima missione, addirittura il protagonista viene sollevato fin dal principio da tutti quelli che erano stati i suoi incarichi.
La MR 73 è il passato! Un passato pesante, potente e micidiale.
Tuttavia è meglio procedere con ordine all'analisi di questo film e, come sempre, si sconsiglia fortemente la lettura di quanto segue a chi ancora non avesse visionato questa pellicola, poiché si sveleranno anche alcuni degli accadimenti finali.
Leggerete su quasi ogni rivista o in qualsiasi altra recensione che "MR 73" è un thriller (o un noir, nella migliore delle ipotesi) che racconta la storia di un poliziotto di nome Schneider (Daniel Auteuil), un uomo tormentato, alcolizzato e alla deriva, cui viene offerta dal destino la possibilità di riscattarsi proteggendo una ragazza da quello stesso assassino che venticinque anni prima aveva ucciso i genitori della giovane e che ora sta per uscire dal carcere.
Bene, questa è una falsa verità!
"MR 73" non racconta questa storia. Si potrebbe dire che l'ultima fatica di Marchal narra un'indagine su un serial killer terribilmente sadico e brutale, che sevizia e massacra donne di differente età ed estrazione sociale, senza nessun comune denominatore apparente. Solo sullo sfondo troviamo la storia parallela di Justine (Olivia Bonamy), una ragazza che non è mai riuscita a liberarsi della violenza di cui fu testimone da bambina e che non accetta il fatto che l'assassino dei suoi genitori stia per essere rimesso in libertà.
"È stato condannato all'ergastolo. Il problema non dovrebbe nemmeno porsi!", protesta Justine.
"È la legge!", replica il funzionario.
"Vi auguro che lui uccida ancora!"
In verità anche questa è una falsa traccia. L'indagine sul serial killer, così come la storia parallela di Justine, sono soltanto due delle storie narrate da Marchal.
"MR 73" è un nugolo di micro e di macro storie che ruota tutt'intorno a Louis Schneider. Inutile dilungarsi maggiormente sulla trama anche perché questa è poco più che un pretesto, un escamotage dell'autore per raccontare ben altro.
Olivier Marchal, che prima di diventare attore e regista ha militato per dodici anni nella Polizia francese, non affronta soltanto i suoi temi più cari e ormai classici quali la corruzione delle forze dell'ordine, gli abusi e lo strapotere della gerarchia interna, la deriva morale e fisica dei suoi personaggi.
Questa volta Marchal ci racconta il dolore.
Un male di vivere intenso e lancinante, cui nessuno può sfuggire. Il dolore agisce attraverso la memoria del passato. Il presente è fagocitato dal passato trasformandosi in una mera proiezione di esso.
Louis Schneider è un poliziotto onesto, tormentato da ricordi strazianti quali l'incidente stradale in cui ha perduto la propria figlia e in seguito al quale sua moglie è divenuta un vegetale.
Ma ogni personaggio ha un passato più o meno tragico e comunque foriero di tormento e di dolore. Lo hanno Justine e sua sorella (Louise Monot) per le violenze atroci cui hanno assistito da bambine e cui sono riuscite a sopravvivere. Altrettanto vale per il loro nonno Émile (Clément Michu), che le ha accudite dopo la perdita dei genitori.
Lo ha Matéo (Gerald Laroche), collega ed amico di Schneider, che è stato lasciato dalla propria famiglia.
Lo ha ogni superstite di un crimine o di una violenza, sia esse generata dalla malvagità umana o da una fatalità crudele.
Solo chi non ha vissuto, non ha passato. E solo chi non ha passato o non ha la memoria di esso, non vive con dolore.
"MR 73" racconta il dolore di vivere ed i diversi modi in cui ciascuno cerca di esorcizzarlo per riuscire a liberarsi del passato e poter finalmente vivere il presente.
Louis Schneider si ubriaca fino allo sfinimento, distruggendo così la propria carriera e la propria vita.
Justine, non riuscendo a liberarsi dalle ossessioni e dagli incubi, cerca di conoscere più a fondo il proprio passato, nella speranza di poterlo affrontare e di poterlo razionalizzare con la sua mente adulta e non più con quella di una bambina. Spera che attraverso la conoscenza di questo passato e dei suoi protagonisti tutto si ridimensioni ad una misura più umana e quindi più facile da sopportare. Spera di riuscire a trasformare il mostro, che ha distrutto la sua famiglia, e di ridurlo ad una semplice figura umana, anche se abominevole. Per fare questo finisce col perdere tutti i suoi affetti del presente, non per ultimo il suo compagno.
Il nonno Émile ha vissuto venticinque anni cercando di fingere che non fosse mai accaduto niente.
"Tu tre giorni dopo ci mandasti a scuola come se non fosse successo niente", lo rimprovera Justine.
"Certo! O facevo così o prendevo un fucile e ci uccidevo tutti e tre".
Si racconta anche di una cane che, dopo la morte della padrona, si è lasciato morire. Così come di genitori che hanno lasciato tutto intatto ed inalterato, come quando la figlia era ancora viva.
Forme comuni di dolore e un'infinità di reazioni differenti per sopravvivere ad esso.
Un film sul dolore e soprattutto un film sul passato che ritorna, come il titolo originale lascia felicemente intuire.
Alcuni si domanderanno del perché sia stata introdotta la storia di Justine e della scarcerazione dell'assassino dei suoi genitori.
Scarcerazione che avviene negli ultimi minuti del film, dopo che il regista ha mostrato chiaramente al pubblico come Charles Subra (Philippe Nahon) non sia affatto cambiato e sia ancora un pericoloso e crudele assassino, che ama osservare l'agonia che precede la morte delle proprie vittime. Si ricordi che quando ha assassinato la madre di Justine, si è preparato un pranzo e lo ha mangiato davanti a lei, osservandola morire.
Bene, anche questo è un espediente narrativo.
Subra era stato arrestato da Schneider. Subra è il passato che ritorna. È un passato implacabile e potente, foriero di dolore e di morte, in quanto il passato, se non correttamente metabolizzato o esorcizzato, cerca sempre di distruggere il presente.
La sola soluzione possibile secondo Marchal è la cancellazione del passato, da intendersi anche come cancellazione dei propri errori. Non c'è nessun'altra via per combattere il male se non estirpandolo.
Distruzione contro distruzione.
Artefice dell'epurazione è Louis Schneider, che in pochi istanti distrugge chi produce il male e cancella così anche i propri errori.
Ma Schneider è appunto un uomo del passato, e il mezzo di cui si serve è il revolver MR 73 appartenuto all'amico Matéo. Quindi, come detto in precedenza, un'arma del passato che viene utilizzata sia come corpo contundente per schiacciare il cranio dell'abietto Kovalski (ed ecco così manifestarsi la pesantezza del passato), sia per far saltare le cervella di Subra con un solo colpo (ed ecco la potenza micidiale e precisa del passato) e, infine, per togliersi la vita (la restituzione del passato al passato, liberando così il presente da tutta la sua invadente pesantezza).
La metafora finale del bambino che nasce, mentre Schneider muore, non è da intendersi solo come rinnovazione, o come il passato che cede il passo al presente. Il figlio di Justine si chiamerà Louis, e, anche se ancora senza passato, nascerà nel dolore di un presente fatto di morte. Questo è sì un passaggio del testimone dal vecchio al nuovo, ma non ha una valenza salvifica né fortemente positiva. Esso simboleggia la continuità nel dolore, la traccia che il passato lascerà sempre nel presente segnandolo e privandolo così della libertà.
Perché la vera libertà si raggiunge soltanto quando si è liberi dal passato.
Inoltre la metafora finale è anche la summa della seconda, ma non meno importante, tematica affrontata in questa pellicola: la solitudine.
Essa è una conseguenza inevitabile del dolore, del male di vivere, e della paura di soffrire ancora. È anche il risultato dell'incapacità di vivere il presente a causa del passato.
Perché Justine chiama suo figlio Louis, invece di battezzarlo con il nome del proprio padre o del proprio nonno?
La risposta la dà la ragazza in uno dei suoi fugaci incontri con Schneider:
"Io ho soltanto te!"
Schneider rappresenta la coscienza adulta che compensa la coscienza della Justine bambina. È la sola memoria del passato che può permettere a Justine di liberarsi da esso e di vivere con serenità il proprio presente.
Schneider, Justine, Marie, Matéo, l'odioso Kovalski, il malvagio Subra e qualsiasi altro personaggio di questa pellicola. Tutti sono soli!
È facile comprendere come questa nuova opera di Marchal sia complessa ed ambiziosa. Forse lo spettatore, che sperava di assistere al ritorno del noir anni settanta o al puro polar, resterà deluso. "MR 73" narra la tragedia del vivere attraverso un'ambientazione polar, ma non è né un noir né un film d'azione.
Come il precedente "36, Quai des Orfevres" anche questa pellicola è basata su una storia vera e narra le vicende interne al corpo della polizia.
L'ambientazione da Parigi è traslata a Marsiglia, altra città assai cara al cinema di genere anni settanta.
La regia di Olivier Marchal è perfetta!
Nonostante vari espliciti riferimenti a Melville, Marchal ritaglia uno stile completamente proprio, che lo rende un autore unico nel suo genere.
Troppe volte e a sproposito la sua regia è stata definita "di stile americano". In questa sede non si condivide affatto questa definizione già attribuita al precedente "36, Quai des Orfevres". Se con questo si vuole intendere che Marchal ha importato da Hollywood solo il meglio dei film d'azione, si potrebbe anche chiudere un occhio su questa qualificazione, tuttavia il dire "all'americana" troppo spesso e senza giusta ragione, assume una connotazione negativa.
Chi scrive reputa che lo stile di Marchal non sia "all'americana", e neppure "alla francese".
Lo stile di Marchal è lo stile di Marchal.
E magari in Europa ci fossero altri autori del suo calibro capaci di dare un'impronta così forte e nitida alle proprie opere!
Anche la sequenza iniziale, durante la quale Schneider dirotta un autobus e immediatamente intervengono i G.I.G.N., è diretta con uno stile e una cura tutta personale.
L'occhio attraverso cui si narra la vicenda è gelido, implacabile, pessimista, desolante, e privo di qualsiasi speranza.
Tutto affoga nel male e nella violenza, sia essa distruttiva o salvifica.
La fotografia è semplicemente superba. Sgranata, cupa, malata. Il colore è così privo di saturazione da sfiorare a tratti il bianco e nero.
Marsiglia sul grande schermo raramente è stata così livida. Alle scene notturne e alla pioggia battente si alterna un sole che sprigiona una luce bianca che, alla stregua del nero notturno, sembra assorbire ogni colore calando lo spettatore in un'atmosfera profondamente fredda e malata.
Si contrappongo a questo i colori dei parti e del cielo notturno delle campagne della Provenza, così come il colore del sangue di Subra che schizza su un crocifisso.
Sullo sfondo abbiamo un eccellente accompagnamento musicale del sempre bravo Bruno Coulais.
Gli attori sono tutti molto bravi e perfettamente in parte.
Su tutti svetta Daniel Auteuil, che si conferma uno dei migliori attori di questi ultimi dieci anni. Egli, che ha sempre spaziato dalla commedia, al thriller, al dramma, si dimostra particolarmente abile e formalmente impeccabile nel dar vita a personaggi lacerati da un profondo tormento interiore. Si ricordino almeno "L'avversario" ("L'adversaire", 2002), "Una Donna Francese" ("Une Femme Française", 1995), "Sotto Falso Nome", 2004 e il già citato "36, Quai des Orfevres", 2004.
Da notare la sempre brava e convincente Catherine Marchal nel ruolo di Marie, la coinvolgente Olivia Bonamy nella parte di Justine, il bravo Francis Ranaud nei panni dell'odioso Kovalski.
"MR 73" non è un film facile. È duro e crudo, è violento e disperato, è desolante e pessimista, è tetro e doloroso. Non c'è nessuna possibilità di redenzione, nessuno spiraglio di riscatto.
È un film di alta scuola e fortemente carismatico. Raramente il dolore di vivere è stato così ben rappresentato attraverso l'uso funzionale di una trama, che si presenta come quella di un film d'azione e di evasione.
Lasciatevi guidare da Louis Schneider attraverso i vicoli bui e puzzolenti di Marsiglia, passeggiate al suo fianco calpestando il sangue dei morti, osservate con lui l'abominio della corruzione dei poteri istituzionali, ascoltate le menzogne dei funzionari pubblici, bevete del whisky per farvi forti di fronte alla malvagità insita nell'essere umano, e piangete con lui di fronte all'inesorabile corruzione della carne e dello spirito, a quel lento scivolare dal dolore alla tomba.
Qui la morte è sì foriera di dolore, ma mai quanto lo è la memoria. Dimenticarsi del passato o morire. Qui la morte è anche liberazione!
Come non ricordare le parole di Nietzsche:
"Beati gli smemorati, perché avranno la meglio anche sui loro errori!"
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 24/04/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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