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"L'arena lo rese un dio - l'amore lo rese un uomo."
Così recita la locandina originale del film di Menno Mayjes sul torero più leggendario e celebrato di Spagna. Ed era veramente un dio e un uomo, Manuel Laureano Rodriguez Sanchez detto Manolete, che da morto è diventato un mito.
E come tutti i miti nacque povero e morì ricco.
E morì giovane, dopo aver vissuto una intensa, appassionata e carnale storia d'amore profano, peccaminosa perchè consumata fuori dal matrimonio, e indecorosa per la disastrata e bigotta Spagna del nascente regime franchista.
La folla lo osannava e assecondava il suo innato innamoramento della morte, lui aveva un solo obiettivo, diventare famoso.
Fino a quando non incontrò l'oggetto del suo desiderio.
A portare una traccia di sorriso nella sua vita ci pensò Lupe Sino, una donna solare, bellissima e sensuale che, al contrario di Manolete, amava l'amore e amava la vita.
All'epoca Lupe Sino faceva l'attrice, o almeno ci provava, come ci provava a liberare la maschera triste di Manolete dall'ombra della perenne malinconia che lo avvolgeva.
L'incontro fatale tra il torero e Lupe è avvolto nel mistero, forse si incontrarono per caso, o forse per un disegno del destino. Di sicuro c'è solo una vecchia fotografia color seppia, che li ritrae sulla spiaggia messicana di Acapulco, con il torero in ginocchio davanti alla sua donna, mentre le bacia con passione un piede.
Non era bello, Manolete, ma fascinoso come chi gioca con la morte, ed elegante nella sua gestualità solenne e rigorosa, assorbito com'era dalla "suerte de matar".
Non era bello, ma era ricco e famoso, schivo e austero, e perpetuava un rito antico e solenne, ma anche crudele e sanguinario, di cui era il solo e magnifico officiante.
Lupe Sino era spregiudicata, sensuale, seducente. Era anche bollata come "prostituta" e accusata di essere un'opportunista, più interessata al denaro e alle conoscenze influenti del suo amante, che al torero stesso.
Nonostante gli avvertimenti dei suoi collaboratori, dei parenti, degli amici, dello stesso "Caudillo", che lo diffidò a perseverare in quella "sconcia relazione", nessuno riuscì a convincere "el monstruo" (così veniva soprannominato) a porre fine alla sua relazione extraconiugale con Lupe.
Manolete visse con Lupe una parentesi d'eros conflittuale e momenti di serenità che il mondo della corrida e la severità della madre resero problematici.
Il film di Menno Meyjes, più che un trattato sulla tauromachia e sulla realtà multiforme che ad essa si accompagna, è un biopic che ripercorre una storia d'amore e di morte, cominciata dal momento in cui i loro sguardi si sono fissati per la prima volta, e conclusasi quella tragica "tarde" d'agosto del 1947, sulla sabbia della "plaza de toros" di Linares.
Ed è proprio da qui che comincia il film di Meyjes, da quel pomeriggio del 28 agosto del 1947, quando Manolete, sceso nell'arena per rinverdire il suo mito, offuscato dal glamour di Luis Miguel Dominguin, l'astro nascente che farà impazzire Ava Gardner prima di sposare Lucia Bosè.
Nel corso dell'ultima corrida lunghi flashback, intervallati dai ricordi dei suoi esordi, della sua carriera, della sua consacrazione a "matador de toros", ripercorrono i tre anni d'amore che cambiarono la sua vita. Un amore passionale, travolgente, osteggiato, criticato, fatto di litigi e riconciliazioni, di dipendenza reciproca e di sentimenti totalizzanti, di divergenze caratteriali e pulsioni contrastanti, tra due personaggi agli antipodi, con due diverse visioni, anche politiche, della vita. Due personaggi diversi che diventano complementari perchè la voglia di vivere di Lupe, la sua prorompente fisicità, compensano la perenne malinconia, il male di vivere del "matador" che reinventò e nobilitò l'arte della corrida, e imparò l'amore dalla donna che gli insegnò a vivere e a godere la vita, anche al di là delle glorie taurine.
Lui con l'entusiasmo del ragazzo alle prese col primo amore, lei fasciata in abiti che mettevano in risalto i suoi occhi di brace, l'accendino sempre pronto per le sue sigarette. Lui che si gioca la vita contro un toro possente, lei che amoreggia sfacciatamente con un corteggiatore sugli spalti dell'arena, sfidando la sua incessante gelosia.
Arriviamo così alle fatidiche "cinco de la tarde" del 28 agosto del '47.
A Linares si celebra la "feria de San Augustin"; nella Plaza de Toros, Manolete, 30 anni appena compiuti, volto pallido e scavato, doveva dimostrare a Dominguin, che da qualche tempo gli va rubando la scena, e alla folla che assiepava l'arena, che il più grande era ancora lui. Era cominciata con maestria la sfida di Manolete contro il miura, e ora sta per concludersi con l'uccisione del toro, quando giunge, improvviso, l'ennesimo "momento della verità".
Il matador prende la mira per immergere la spada tra le scapole del toro, si slancia e affonda la lama nel corpo fino all'elsa. Ferito a morte, l'animale ha un ultimo guizzo di vitalità e, con una mossa inaspettata, gli assesta la cornata fatale che gli buca la coscia all'altezza dell'inguine. Portato nell'infermeria, Manolete perde conoscenza, poi viene trasportato nel piccolo ospedale di Linares, ma ha perso molto sangue e ha bisogno di una trasfusione di plasma. Ma il plasma è scaduto, e questo concorrerà ad ucciderlo.
Fuori dalla stanza, spinta da un opprimente presentimento, attende di entrare Lupe Sine. Parenti e collaboratori non le daranno il permesso, forse temendo un matrimonio "articulo mortis" che avrebbe fatto andare in fumo l'ingente eredità del patrimonio accumulato da "el monstruo".
Menno Mayjes con questo film porta sullo schermo la figura di un uomo straordinario, che incarnava i sogni e le trasgressioni di una nazione, che viveva sotto il peso di una dittatura e aveva, più che mai, bisogno di eroi. Un Paese che mentre da un lato guardava con invidia alla vita dorata del torero, dall'altro si scandalizzava del suo sentimentalismo e della sua passionalità amorosa per un'attricetta che sbarcava il lunario alla meno peggio, nella Spagna neofranchista e impoverita dalla guerra civile.
Mayjes costruisce il suo film sulle dicotomie: vita e morte, bellezza e bruttezza; gioia di vivere e mestizia connaturata; amore per la vita e fascinazione per la morte. Ma anche sull'introspezione psicologica dei due protagonisti, in cui si agitano pulsioni contrastanti: lei estroversa e seduttrice, lui timido, geloso e insicuro con le donne, che ritrovava tutta la sua vigoria solo quando si trovava faccia a faccio con la morte.
Due mentalità contrapposte che porteranno i due amanti a scontrarsi molte volte, ma anche a farli innamorare sempre più.
Il pregio maggiore del film risiede, forse, nel fatto di essere riuscito a suscitare interesse per uno spettacolo (arte o folklore?) che determina molte critiche, specie negli ambienti animalisti, e che rimane distante dalla nostra cultura; ricorrendo all'espediente di inquadrare la disastrata società spagnola degli anni 40, immediatamente dopo la fine della Guerra Civile, quando si percepiva un bisogno quasi assoluto di nuovi idoli in cui identificarsi, che portò la corrida a diventare così importante e Manolete un'icona nazionalpopolare (ruolo che successivamente verrà assunto dai calciatori), una carismatica figura che incarnava lo stereotipo dell'eroe amato e idolatrato dalle folle entusiaste, espressione ultima dei valori dell'onore e della virtù.
Il film è un melò "caliente", che trasuda sensualità nell'accostamento tra corrida e storia d'amore, gelosie e passioni; visivamente sontuoso nei personaggi e nelle location, tra i vicoli delle città spagnole, e scenograficamente molto curato, nei colori, nelle atmosfere, nelle immagini, che accompagnano i titoli di testa e di coda che fanno da ponte tra i successi di Manolete, quando la gente lo acclamava e lo osannava e le immagini del suo funerale, quando una moltitudine di spagnoli salutava per l'ultima volta il suo mito.
Uno spettacolo che, in fondo, rimane manifestazione dell'ancestrale contrapposizione tra eros e thanatos, tra pulsione di vita e pulsione di morte, uno spettacolo amato e odiato in egual misura da sostenitori e detrattori, vituperato come rito di morte, ed esaltato come forma di arte e cultura, ma che rimane in ogni caso una delle componenti della civiltà spagnola, con la sua gestualità e i suoi rituali legati alla tradizione: la vestizione pubblica del torero con "el traje de luces", i drappi, gli ornamenti, il rosso della muleta, le candele accese e la preghiera davanti all'altarino, l'eleganza dei gesti, che ne fanno uno spettacolo unico e indimenticabile.
In questo è fondamentale il contributo dei due protagonisti, Adrien Brody e Penelope Cruz.
Risiede tutto nello sguardo enigmatico e triste, nel volto scavato e scarno, nell'eleganza formale di Adrien Brody (peraltro somigliantissimo al vero torero, come ci viene mostrato nei titoli di testa che scorrono su immagini di repertorio); nella fisicità straripante, nella sensualità esibita, nel sorriso accattivante di Penelope Cruz, la vera forza del film e la sua struggente drammaticità.
Nonostante tutto questo, nonostante il gusto del melodramma, la tragedia della storia d'amore, di una sequenza finale emozionante, si esce dal cinema con un senso di intimo insoddisfacimento, con la percezione di un risultato non perfetto, con la sensazione di incompiuto, come se al film mancasse qualcosa, come se mancasse l'anima; colpa forse di un montaggio troppo alternato e di un uso eccessivo del flashback che spezzano il ritmo del racconto e fanno perdere interezza al racconto.
E così tutto finisce per restare incompiuto, impalpabile, come una carezza solo sfiorata, contribuendo a fare della pellicola un melodramma, solare luminoso, latino, che emoziona e affascina, ma non scende fino al cuore.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 08/06/2010 17.45.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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