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In un mondo dominato dai ghiacci, dove non si conosce bene la posizione geografica occupata dalle ultime tracce di comunità umane, Essex (Paul Newman), un cacciatore di foche, arriva in una cittadina imprecisata organizzata in sezioni-dipartimenti, ai cui vertici si pratica il Quintet (Quintetto), torneo a cinque partecipanti, un comune gioco da tavolo che nasconde una posta in gioco terrificante, per cui il vincitore ha un indiscusso diritto di vita e di morte sui suoi compagni nonché il dovere di continuare a giocare.
L'ambientazione è molto sinistra ma suggestiva, la popolazione risulta sterile e crede di appartenere all'ultima generazione: quella che non avrà più un seguito di vita. Gli animali sono rari. L'aspetto estetico e di costume della città rifugio e della sua popolazione si avvale di riuscite raffigurazioni cinquecentesche e moderniste che conferiscono al film suggestioni di forte impatto emozionale tanto da risultare un altrove in cui la fantasia immedesimativa dello spettatore pare soffermarsi volentieri.
Il gioco del Quintet sembra essere, per la casta che detiene il potere sulla città, l'unico motivo di "vita", la più alta emozione possibile in quella struttura coatta di relazioni sociali, una vera e propria passione che paradossalmente consente la vita di quella comunità che altrimenti si degraderebbe gerarchicamente andando incontro al caos sociale. E' ciò che a quella borghesia dominante occorre per mantenere il potere, al di là delle già garantite soddisfazioni dei bisogni primari che non procurano piacere ma inedie, dei vuoti psichici mortali.
Film profetico, non tanto per quanto riguarda il suo compimento reale nel futuro quanto per il gioco di metaforizzazioni che richiamano realtà ben configurabili nel presente sociale e istituzionale di ogni giorno.
Il film ad esempio mette in luce il pleonasmo (sovrabbondanza) pulsionale oggettivo che anima attualmente parte della borghesia al potere, che con i nevrotici ma necessari, soggettivamente, svaghi di mercato nella distribuzione della finanza di stampo derivato, gioca arricchendosi illecitamente all'inquinamento dei titoli sani mettendo in pericolo la vita dell'intera economia del lavoro.
Altman con questo film culturale supera se stesso, lasciando un messaggio sconvolgente, diretto, privo di compromessi, rinunciando a codici visivi spettacolari che avrebbero potuto mettere in secondo piano il prezioso contenuto del suo narrare per immagini.
Altman è un regista che non ama divertire a tutti i costi né lavorare con l'ovvietà della morale sulle coscienze, quanto primariamente evidenziare delle oggettività di comportamento, spesso dalle sembianze misteriose, create da pulsioni di provenienza inconscia, irrefrenabili. Altman riesce a renderle credibili, a dargli la forma giusta, evidenziandone la forza subdola, insinuante, che si impossessa lentamente, in un certo tempo della normalissima quotidianità, delle coscienze. Oggettività che mostrano con il cinema, senza falsi pudori, i demoni del desiderio perverso e criminoso che le costituiscono, e la cui presenza, per pudore e furbizia esistenziale, in ogni tempo e luogo non si è mai osato del tutto confessare.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 07/01/2015 16.29.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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