Recensione salvate il soldato ryan regia di Steven Spielberg USA 1998
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Recensione salvate il soldato ryan (1998)

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Miglior regiaMiglior fotografiaMiglior montaggioMiglior sonoroMiglior montaggio sonoro
VINCITORE DI 5 PREMI OSCAR:
Miglior regia, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior sonoro, Miglior montaggio sonoro
Miglior film drammaticoMiglior regista (Steven Spielberg)
VINCITORE DI 2 PREMI GOLDEN GLOBE:
Miglior film drammatico, Miglior regista (Steven Spielberg)
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locandina del film SALVATE IL SOLDATO RYAN

Immagine tratta dal film SALVATE IL SOLDATO RYAN

Immagine tratta dal film SALVATE IL SOLDATO RYAN

Immagine tratta dal film SALVATE IL SOLDATO RYAN

Immagine tratta dal film SALVATE IL SOLDATO RYAN

Immagine tratta dal film SALVATE IL SOLDATO RYAN
 

"Salvate il soldato Ryan" è un film di guerra sul massacro e l'orrore dello sbarco in Normandia. Dominanti sono le scene dello sbarco che durano 21 minuti. Esse vengono minuziosamente particolareggiate grazie alle tecniche di ripresa e costruzione sonora della macchina Spielberg. Uno spettacolo nel complesso riuscito. La pellicola nei suoi contenuti ha però lasciato un po' perplessa la critica cinematografica colta Americana ed Europea anche se è stato pluripremiato dall'industria commerciale degli Oscar. Il film è stato giudicato dalla critica colta: filoamericano e privo di spessore storico.

La trama si richiama vagamente ai valori del patriottismo e della famiglia americana al tempo dello sbarco in Normandia. Un'america vista da Spielberg come rimedio decisivo al prolungarsi della barbarie nazista. Nel film, durante lo sbarco, i soldati americani dimostrano un eroismo che sfiora l'inverosimile. Il regista però non approfondisce nessun argomento di carattere etico o politico. La collaudata macchina cinematografica dell'industria Spielberg costruisce un bellissimo film in stile fumettistico con dialoghi poco impegnativi e formule sceniche originali ma fini a stesse: ne è un esempio lo spettacolo visivo e sonoro dei combattimenti, talmente ricco di particolari da imporsi come linguaggio estetico a sé stante.
Il tutto va a vantaggio di un mercato cinematografico bisognoso di evasioni sadiche e purificazioni catartiche da misteriosi sensi di colpa. Quest'ultimi attraverso il film sono dapprima messi in tensione e poi appagati grazie a un finale un po' particolare dove il protagonista, il capitano Miller, trova la morte in un combattimento decisivo. Miller non muore a dispetto di ogni lieto fine commerciale ma per rendere psicoanaliticamente coerente il proprio delirio finale. Delirio in cui è inscritto il suicidio.

Spielberg dirige, come al solito, le attese inconsce più moralistiche o idealistiche del pubblico, nella direzione di soddisfazioni visive eccelse. Prodotti scenici costruiti con estrema maestria che danno i colori e gli acri profumi mortali della guerra. Un'estetica che lascia però dietro un vuoto di pensiero, perché scarsa è la cura del film nell'esporre quelle verità disillusive che le guerre si trascinano sempre dietro. Verità che proprio perché a volte deludono le aspettative, se vengono rielaborate dallo spettatore, rilasciano alla fine del film qualcosa di più pregnante intorno alla storia e al racconto. Qualcosa su cui si è stimolati a pensare con più coerenza e impegno di idee.
I colori e i profili psicologici dei personaggi appaiono volutamente sbiaditi o sfuocati. Spielberg sacrifica ai fini di un'azione più ricca di oggetti e velocità, sia l'intelligenza del dialogo che la tecnica delle riprese lente dei primi piani. E' noto che solo nella lentezza si possano cogliere le introspezioni significanti degli sguardi. Il loro dialogo interiore.

La velocità delle scene voluta da Spielberg finisce per restringere ogni spazio di possibile veicolazione di pensieri etici e politici originali. Le pause tra i combattimenti rimangono zone temporali di allerta segnate solo dalla paura.
Il film scorre veloce come le sequenze a schemi di un fumetto. Capitoli condensati di immagini dirette ma poveri di metaforizzazioni allusive ed enigmatiche. Nel film è rilevante la densità del sonoro tragico della battaglia che si associa però a un realismo poco intrecciato con le rappresentazioni della guerra.
Da un punto di vista più psicoanalitico è interessante la sequenza finale in cui il capitano Miller a dispetto di ogni pericolo corre verso alcuni punti di fuoco sparando all'impazzata conscio delle piega sfavorevole che sta ormai prendendo la battaglia. E' come se volesse, con il suo gesto disperato ed eroico, salvare il soldato Ryan al prezzo della propria vita. Ryan era l'oggetto della missione del capitano Miller, doveva rientrare in patria a causa di problemi familiari, si era aggregato al plotone dopo lunghe avventurose ricerche ed era finalmente pronto a rimpatriare per volere dello Stato Maggiore. La gestualità del capitano è in quel momento dominata dall'inconscio che sembra avvallare tragicamente il colloquio avuto prima dal capitano con il plotone sull'assurdità e i dubbi della missione. Missione ad alto rischio, tutta in funzione del salvataggio del soldato Ryan. Miller compie un gesto irrazionale, lui così lucido in tutte le precedenti azioni di guerra. Il suo inconscio si impone come pulsione di onnipotenza, delirio di una vittoria. Vittoria che in quel punto di perdita diventa paradossalmente un diritto. Diritto allucinato di salvare il soldato Ryan. Negazione psichica della sconfitta.

"Guadagnatelo" dirà sul punto di morte Miller a Ryan, che cosa? Il ritorno a casa? Ryan anni dopo ormai anziano si reca sulla tomba di Miller in America e dopo aver pianto chiederà alla moglie se il proprio comportamento è stato esemplare. La moglie gli dirà di sì. Ma il suo senso di colpa per essere vivo non si attenuerà perché la morte di Miller fa da schermo ad una elaborazione definitiva e risolutiva dei suoi sensi di colpa.
Ryan si sente colpevole per le vite sacrificate per salvarlo. Questo senso di colpa per associazione si salda fortemente con la colpa edipica inconscia. Una fusione che eleva esponenzialmente la forza pulsionale regressiva. Fino al punto da assorbire come un buco nero ogni capacità critica di elaborazione. Ryan è doppiamente colpevole. Da una parte perché è ancora vivo dall'altra perché il complesso edipico si è imposto alla coscienza con tutta la sua forza. Forza liberata dal varco apertosi nella rimozione.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 24/08/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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