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Viaggio nella mente e negli script di Felix Bonhoeffer, sceneggiatore al lavoro con problemi a distinguere la realtà dalle sue creazioni.
Facciamo così la conoscenza di Bette Lusting, vecchia signora che apre e chiude il film con la stessa frase, di cui capiremo il senso solo alla fine. Nel mentre incontreremo Ray, uno psicopatico, ma forse anche un attore, o magari un poliziotto e anche il più travolgente dei produttori: uno sfavillante John Turturro. Poi ancora la tenera Gina, la dolce Shelly, e persino un'investigatore che abita il computer dello sceneggiatore, il quale nel frattempo si addormenta...
Il cinema autoreferenziale non è mai passato di moda; rifugio di geni incompresi e di millantatori professionisti, ha sempre offerto la possibilità di raccontare anche senza un copione, e magari senza neanche un'idea. Le immagini fotografate con cura e il montaggio frenetico e a tratti confuso sono spesso indice di una certa volontà di saturare gli occhi prima ancora che il cervello dello spettatore, sperando che questi, abbagliato dalle luci, non si chieda dove lo si sta portando. Se poi si aggiungono un paio di citazioni dai classici, e qualche riferimento colto il gioco è fatto. Peccato che non basti la buona volontà e qualche trucchetto per creare dal nulla un Lynch. Qua siamo piuttosto dalle parti di un Tony Scott assai pretenzioso.
Purtroppo a mano a mano che i grandi artisti invecchiano sentono sempre il desiderio di lasciare un segno, e Anthony Hopkins non fa eccezione.
La buona volontà è evidente, come anche la cura che c'è dietro ogni frammento del film; quello che però finisce per soffocare il tutto è un certo controllo ossessivo delle inquadrature, e un uso smodato di meccanismi da videoclip.
Il plot un po' confuso non è il peccato mortale di questo lavoro, che per la verità risulta gradevole e assai curato, dal momento che non è sempre necessario capire tutto e dall'inizio, per definire riuscita un'opera. Ma semmai la rappresentazione fredda e volutamente complicata, che da subito urla tutti i limiti di chi non ha l'estro e l'esperienza di un Lynch e che, invece di intrigare lo spettatore ne provoca qualche sbadiglio. Al di là della tenerezza che può suscitare l'espressione dell'ormai invecchiato dottor Lecter, che però rimane la stessa per tutta la durata del film, non si trovano motivi per lasciarsi andare alla rappresentazione che, complice un gioco di montaggio e l'abuso del riavvolgimento di pellicola, annoia o irrita più che incuriosire lo spettatore.
Peccato davvero perché sparsi tra le piege della sceneggiatura ci sono frammenti molto ben riusciti, alcuni addirittura geniali, e curiosamente sempre quando Hopkins non è in scena. Il produttore interpretato da Turturro, ad esempio è il momento più divertente dell'intero film, solo esagerando le espressioni e semplicemente urlando ogni parola, Turturro rende vivo il suo personaggio assai più di tutti i comprimari che vediamo impegnati a recitare più parti senza diventare mai davvero nessuno dei personaggi. Le scene corali degli esterni nel deserto sono avvincenti e il regista, così come gli attori, hanno il fascino del caos che deve regnare spesso su un set cinematografico reale.
Christian Slater è un convincente psicopatico, mentre le donne sono tutte più o meno mamme preoccupate del tenero svagato sceneggiatore, che invece attraversa l'intero film a bocca aperta e con l'espressione sognante di chi ha preso qualcosa di chimico.
Le scene ripetute, sovrapposte e capovolte danno l'idea di un abuso della tecnica a totale discapito dell'emozione che dovrebbe guidarla.
E il tutto, seppur messo insieme con amore, non riesce a convincere fino in fondo lo spettatore il quale non può fare a meno di chiedersi per tutto il tempo come sarebbe stato questo film, se il regista si fosse nascosto di meno dietro la tecnica avesse osato un pò di più.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 04/06/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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