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"La religione è l'oppio dei popoli".
Pressappoco così scriveva un grande filosofo e pensatore tedesco del secolo scorso.
D'accordo, forse non sarà esattamente così, ma resta il fatto che quando la religione si somma all'ideologia, spesso il connubio si rivela una miscela esplosiva che condiziona la razionalità del pensiero umano e lo indirizza verso atti e atteggiamenti che non seguono più un andamento lineare, ma tendono a deviare verso percorsi che conducono a forme di comportamenti particolarmente esasperati, fino a giungere ad eccessi lesionistici o alla più rigida intolleranza verso chi sostiene credi diversi.
Le peggiori nefandezze umane, verso gli altri e verso se stessi, sono state compiute, spesso, proprio in nome di una presunta religiosità o di una malintesa ideologia, che hanno si una propria logica, ma risultano pur sempre un modo di vivere in base a leggi e idee dettate da altri o ispirate da divinità superiori.
Religiosità e ideologia sono le logiche che guidano le azioni di Daniel Balin, un giovane studente, ebreo per nascita, skinhead e antisemita per vocazione, moralmente confuso, in costante conflitto tra l'appartenenza culturale e religiosa alla razza ebraica e il suo opposto storico e drammatico, il nazismo.
Dotato di fervida e lucida intelligenza, ma anche di tantissima rabbia interiore, Danny non intraprende, come sarebbe logico, alcun viaggio attraverso il "sentiero della luce" ma, al contrario, si addentra nel labirinto oscuro della contraddizione più dolorosa: essere ebreo e odiare gli ebrei, studiare il testo sacro e disprezzare profondamente la debolezza e l'arrendevolezza con i quali si obbedisce ai dettami della dottrina ebraica.
Fin da fanciullo, infatti, Danny ha interiorizzato una profonda contraddizione, insita nella sua religione: e cioè che l'ebreo, in quanto apolide, è geneticamente destinato a soccombere e a vivere una sorta di schiavitù morale ed esistenziale nei confronti degli abitanti dei paesi in cui si ritrovano a risiedere. Una contraddizione, o almeno quella che la sua intelligenza ritiene una contraddizione, che scopre e rivela a maestri e compagni durante lo studio del Talmud (inteso come studio orale della Torah, la legge ebraica, in senso generale).
Tutto nasce quando, ancora ragazzo, durante lo studio del credo ebraico, comincia una lunga polemica con il maestro-rabbino sul peccato originale, sui problemi del "popolo eletto" e sulla rassegnazione di Abramo di fronte all'ordine del terribile Dio del Vecchio Testamento di uccidere il figlio Isacco.
Prova rabbia e vergogna di fronte a tanta passività. Si vergogna della sua fede e delle sue convinzioni. E scappa. Scappa dalla scuola e dal desiderio di annientarsi e annientare quelle che considera le forzature della sua fede e della sua storia. La storia di un popolo che si è fatto ricco, avaro, che si nutre di perversioni sessuali e si crogiola nel continuo vittimismo.
Un popolo odiato da tutti, che ha trovato nell'Olocausto il motivo per farsi compatire dal mondo intero e la terra d'Israele (Israele è nato grazie ad Auschwitz, ripete Daniel a se stesso, come dire "Israele è nato dalla privazione dell'esistenza").
Prende così avvio il distacco dalla realtà e dalla sua identità, e comincia a costruirsene un'altra, di segno opposto. La sua rabbia, il suo odio, non nascono dal fanatismo o dall'esaltazione quanto, piuttosto, da una sfida impossibile verso un Dio che Daniel reputa ingiusto e sordo ai bisogni di un popolo indicato come "eletto" ma di fatto dimenticato e condannato alla passività e all'inazione, che daranno inizio alla storia della sua persecuzione.
E così si rade la testa, si tatua il corpo, si irrobustisce i muscoli, poi entra in contatto con un gruppo di skinhead neonazisti che praticano la violenza più ottusa, devastano sinagoghe, pestano ebrei per strada e progettano di uccidere quelli che si sono arricchiti. Conosce così la ricca famiglia fascista Moebius e comincia a frequentare la loro villa, che è anche la fucina dove nascono le aberranti idee reazionarie e si gettano le basi per creare un vasto movimento contro gli ebrei.
Durante una discussione prende la parola e comincia ad illustrare le sue idee sul mondo ebraico, leggi razziali e superiorità della razza ariana. Dapprima quasi nessuno presta attenzione al suo discorso, ma poi la sua loquela colta e raffinata, la sua proprietà di linguaggio, la valenza delle sue argomentazioni cominciano a far presa sugli astanti e a suscitare l'interesse degli adepti tanto che, ben presto, assume un ruolo di spicco all'interno dell'organizzazione e degli ambienti neonazisti, frequentati da giovani che, al contrario di lui, dimostrano una gretta ignoranza in fatto di ebrei e di ebraismo e professano un unico credo, quello dell'odio e della cieca e gratuita violenza.
Odiano perchè amano odiare. Picchiano, distruggono, uccidono, perchè amano picchiare, distruggere, uccidere.
Anche Daniel è un violento, ma la sua violenza è cerebrale, ragionata: odia il suo popolo perché odia il suo essere ebreo e diventa nazista perchè è ebreo, combatte perché solo combattendo l'ebreo può affrancarsi dalla schiavitù della sottomissione e acquisire dignità di uomo.
Eminenza grigia della "with power", l'organizzazione di estrema destra di cui fa parte, è la ricca signora Lina Moebius che, su di lui, esercita il suo carisma con la stessa freddezza e la stessa glaciale disumanità con cui gli ufficiali donne delle SS infliggevano le peggiori sevizie ai prigionieri nei campi di concentramento.
La donna ha una figlia, Carla, che immediatamente si sente attratta da Daniel, ne condivide le idee e lo seguirà nel suo percorso di sofferta e contraddittoria riappropriazione dei valori della cultura e della religione ebraica.
Il giovane, infatti, pur nutrendo un profondo odio verso gli ebrei, non può fare a meno di sentirsi attratto dalle parole della Torah e, il giorno in cui ne salva una dalla violenza dei suoi camerati, ricomincia a leggerla e ad analizzarla.
Di giorno compie violenze e di notte legge la Torah. E pur trovandola ancora ambigua e menzognera, si lascia nuovamente avvicinare dalle parole del Dio che prima aveva rinnegato.
Questo dualismo si fa sempre più strada nel suo animo tormentato, stretto tra antisemitismo e riscoperta dei valori delle sue radici ebraiche, (terribile e drammatica la scena in cui, indossati i paramenti sacri, si guarda allo specchio e fa il saluto nazista accompagnato da frasi e citazioni in lingua ebraica) e culmina nel momento in cui incontra vecchi compagni di scuola, ormai adulti, che frequentano la Sinagoga e discutono il libro sacro della religione ebraica.
Ma soprattutto quando Carla, la ragazza invaghita di lui, resasi conto che legge e parla l'ebraico, gli chiede di insegnarle la lingua, apparentemente per una maggiore conoscenza del nemico, e insieme leggono passi della Torah e partecipano ad alcune funzioni in Sinagoga.
L'atto conclusivo, il proposito di uccidere un ebreo, conclude questo percorso di ricerca dell'io, che è anche un percorso di ricerca esistenziale ed ideologico.
Mette una bomba nella Sinagoga frequentata dai suoi amici, proprio sotto l'altare, programmata per l'ora in cui si svolgerà la preghiera del sabato. Ma un attimo prima dell'esplosione, si sostituisce al lettore della preghiera e avverte tutti del pericolo esortandoli ad abbandonare la chiesa. Solo lui rimane in attesa del momento della tragedia. Il percorso è concluso, la missione è compiuta. Ha ucciso un ebreo.
La scena finale vede Daniel salire velocemente le scale della sua vecchia scuola in cerca dell'hebel, il nulla, lo spazio infinito, di cui ha sempre vagheggiato mentre una luce lo avvolge e lo accompagna verso quella verità per cui ha vissuto, lottato e perso.
Henry Bean per il suo esordio come regista sceglie un argomento difficile (ma anche abusato) qual è l'ebraismo visto nell'ottica tristemente nota della Shoah, dove spesso il senso di colpa e la punizione vengono visti come un percorso quasi ineluttabile.
Bean invece, per bocca del suo protagonista, contesta questa ineluttabilità e contesta l'immobilità dell'ebreo di fronte all'assoluta impossibilità di sottrarsi al destino che ha segnato profondamente la storia del suo popolo.
Ma Bean (ebreo egli stesso) non si limita al solo tema dell'ebreo incapace di reagire, di ribellarsi, di difendersi e, pur non prendendo una posizione netta, si spinge sul terreno del fanatismo ideologico e religioso, e sulla pericolosità di certi atteggiamenti che tendono ad escludere, a discriminare, ad annientare.
Due sono i momenti che contraddistinguono il film: nel primo, nettamente più vivace e convincente, si evidenzia il percorso tutto interiore di Daniel che, partendo dai numerosi interrogativi che lo studio della religione ebraica gli innesca, lo conduce (e insieme a lui i suoi amici naziskin) nella spirale della violenza e dell'odio, rabbioso e disumano.
Nel secondo invece, più esteriorizzato e più riflessivo, assistiamo al contraddittorio e schizofrenico dualismo, che consapevolezza e tormento interiore procurano al suo animo tormentato e devastato, perchè le lotte che Daniel conduce alla ricerca del significato delle proprie origini e del suo giudaismo in realtà sono lotte condotte contro se stesso, contro le contraddizioni che lo tormentano, contro le forzature della sua cultura e della sua religione.
Ecco, appunto, è la religione (più che l'ideologia) il nesso di tutto, perchè è la religiosità che spinge il ragazzo a intraprendere una crociata contro le sue origini e contro le sue idee, a spingerlo tra le braccia del fanatismo ideologico.
L'odio razziale è una conseguenza, una sfida, la nullità che reagisce, la punizione verso i suoi simili per il loro lassismo verso l'Olocausto prima, e per la progressiva perdita della loro identità dopo.
Un popolo che non merita rispetto, secondo la folle logica di Daniel, un padre abbruttito che non merita rispetto, i vecchi amici che non meritano rispetto, il suo passato che non merita rispetto, il suo presente è solo quello che conta. Il suo violento presente. E lui è lì, sospeso tra la vecchia e la nuova condizione, alla ricerca, se c'è, della verità, che si fa ossessiva, almeno quanto l'odio di chi la rifiuta.
"The Believer" mescola così realismo narrativo e verità documentaristica, domande contraddittorie e risposte disturbanti in una storia difficile, aspra e irrazionale, che abbraccia tanto il piano individuale quanto quello sociale; un esame psicologico che disturba e non lascia margine di conciliazione allo spettatore (che ricorda come quella stessa razza che fu perseguitata e annientata nei forni dei campi di concentramento, oggi, a sua volta, opprime e perseguita un'altra popolazione a lei vicina) come solo l'irrazionalità sa fare.
L'eccellente e misurata interpretazione di uno straordinario Ryan Gosling conferisce al film di Henry Bean quella forza drammatica e quella commozione sconvolgente che ne fanno un'opera unica e indimenticabile, in un'epoca in cui si gioca al revisionismo e non ci si pone remore a dimenticare.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 05/03/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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