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"L'uomo produce il male come le api producono il miele".
William Golding
"Questo non posso accettarlo! Le persone sono fondamentalmente buone ed oneste. Viviamo in una società civilizzata".
In un'America che sforna remake di film stranieri, in particolar modo delle pellicole orientali di genere horror, e che vomita nei cinema questa ridondante quanto inutile (ri)produzione, finalmente un autore decide di dirigere un film dell'orrore che non sia la deturpazione di una qualche pellicola sud-coreana o giapponese.
Frank Darabont, regista e sceneggiatore di origini ungheresi, porta sul grande schermo un racconto di Stephen King intitolato "La Nebbia" ("The Mist"), contenuto nella raccolta "Scheletri" ("Skeleton Crew"). Questa è la terza volta che Darabont realizza la trasposizione di un'opera di questo grande romanziere. "The Mist" è infatti stato preceduto da "Le Ali della Libertà" ("The Shawshank Redemption", 1994) e da "Il Miglio Verde" ("The Green Mile", 1999), entrambi ottimi film che hanno ottenuto una vasta serie di candidature ai premi oscar (sette il primo e quattro il secondo) e che hanno vinto numerosi altri premi. Tuttavia, questa è la prima volta che Darabont si cimenta con una pellicola squisitamente dell'orrore e il risultato non è solo soddisfacente, ma quasi ottimo.
Prima di procedere con l'analisi di "The Mist" si avverte il lettore che quanto segue rivela tutti i principali colpi di scena del film ed il suo finale, per cui se ne sconsiglia fortemente la lettura a chi ancora non lo avesse visto. Si avverte altresì il lettore che le citazioni di frasi pronunciate dai personaggi durante lo svolgimento del film, sono tradotte letteralmente dalla lingua originale, cui restano fedeli, al contrario della traduzione che è stata opzionata durante il doppiaggio. Il perché di questa scelta lo si spiegherà in uno dei paragrafi di chiusura di questa analisi.
"The Mist" è una fedelissima trasposizione dell'opera letteraria scritta da Stephen King e questo fatto è già uno dei suoi principali punti di forza. D'altro canto, come abbiamo detto, Frank Darabont ha già avuto modo di sperimentare il fatto che restare fedele alla trama scritta da King, senza lanciarsi in voli pindarici visionari e di dubbia creatività, è un'operazione che può dare ottimi frutti. Non a caso, infatti, alcuni anni fa il celebre scrittore disse, riferendosi a "Il Miglio Verde", che assistere ad uno dei film realizzati da questo regista gli dava la sensazione che qualcuno fosse riuscito ad entrare nella sua testa. Si potrebbe contestare che il finale è differente da quello narrato nell'omonimo racconto, ma questa sarebbe una inesattezza. È più corretto dire che il finale scritto da Frank Darabont va oltre e racconta un segmento di storia che King, per ovvie esigenze narrative, aveva omesso. Tuttavia, inserendo il racconto nel complesso dell'intera produzione narrativa di King questo finale non è poi così disatteso né insensato.
"La Nebbia", infatti, è un racconto da inserirsi in quella vasta serie di opere che fanno, direttamente o indirettamente, riferimento alla serie di romanzi più lunga scritta da Stephen King che porta il nome unico de "La Torre Nera" e che consta di sette tomi ufficiali ("L'Ultimo Cavaliere", "La Chiamata dei Tre", "Terre desolate", "La Sfera del Buio", "I Lupi della Calla", "La Canzone di Susannah", "La Torre Nera"), ma anche di tanti altri libri che vi accennano fra cui ricordiamo "L'Ombra dello Scorpione", "Insomnia", "Gli occhi del Drago", "Cuori in Atlantide".
Si noti che, all'inizio del film, David Drayton (Thomas Jane) sta terminando di dipingere una locandina raffigurante il pistolero Roland, il protagonista dell'intera serie "La Torre Nera". E si noti che accanto c'è anche la locandina del film "The Thing" (1982) di John Carpenter. Un dovuto omaggio al regista che ha diretto precedentemente il più celebre film horror dedicato alla nebbia: "The Fog" (1980).
Inoltre, è anche giusto ricordare che Stephen King, dopo aver visto "The Mist", ha affermato che quello di Darabont era il finale che lui stesso avrebbe desiderato scrivere. Ma su questo torneremo più avanti.
"The Mist" ha un ritmo narrativo magnifico. Esso infatti parte con atmosfere rarefatte, preparando lentamente lo spettatore a quello che avverrà dopo. Non ci sono cali di tensione né pause narrative propriamente dette. È un crescendo continuo fino al raggiungimento dello strepitoso finale.
Quello che affascina e che seduce maggiormente di questa pellicola non è tanto la scaturigine di questa misteriosa nebbia, che si abbatte sui protagonisti, che sono uno specchio ridotto dell'intera umanità, né gli orrori che si celano al suo interno, quanto l'indagine sociologica che non è minimamente lontana né dissimile da quella svolta da William Golding nel suo capolavoro "Il Signore delle Mosche".
E il riferimento letterario non è casuale!
Forse è il caso ricordare che una delle città nate dalla fantasia di Stephen King e teatro di numerosissime vicende da questi narrate si chiama Castle Rock. Bene, questo non è un nome inventato da King, ma è tratto direttamente da "Il Signore delle Mosche". Inoltre, "The Mist" dovrebbe essere ambientato nella cittadina di Bridgton, eppure nel film si vede un giornale la cui testata riporta: The Castle Rock Times. Non sappiamo se questa sia una deliberata scelta di modificazione dell'ambientazione oppure un semplice omaggio dedicato alla cittadina inventata da King; infatti nulla vieterebbe che il Castle Rock Times fosse venduto anche nella vicina Bridgton.
La nebbia è un espediente narrativo. Infatti, quali sono le sue caratteristiche? Essa limita il senso della vista, uccide i colori, assorbe e riflette la luce, senza lasciarsi penetrare da essa (al contrario per esempio dell'oscurità), attutisce i suoni e i rumori, nasconde al proprio interno insidie spaventose. In essa si perdono anche le strade e i luoghi conosciuti, e con essi si perdono le proprie certezze e i propri valori, così come il proprio passato e la visione del proprio futuro.
Essa è rappresentazione dell'ignoto, dello sconosciuto, di una realtà impenetrabile e quindi inconoscibile.
È di fronte all'ignoto, dunque, che nascono le paure più recondite e profonde dell'essere umano.
Prima di argomentare meglio questa tematica occorre fare una digressione, che molti potrebbero trovare fine a se stessa, ma che è opportuno introdurre ad uso e consumo di tutti coloro che, a causa dell'odierna tendenza ed inclinazione di un cinema povero di idee, ma ricco di effetti speciali, non hanno mai potuto avere una corretta conoscenza del genere letterario e cinematografico cosiddetto dell'orrore. Le tendenze di cui sopra traggono in errore ed inducono il pubblico, in particolar modo quello composto dalle nuove generazioni, ad identificare il genere Horror con pellicole che sono un inutile quanto insulso susseguirsi di immagini truculente piuttosto slegate e senza una solida storia alle spalle. Questo genere di pellicole, si potrebbe obiettare, in realtà appartengono esclusivamente ad un sottogenere del più ampio genere Horror che prende il nome di genere Gore o Gore-Movie, ma anche questo non è corretto. Il Gore, infatti, nasce come un film dell'orrore casereccio, realizzato a basso costo e con effetti speciali quasi amatoriali. Un genere quindi ben lontano dai suoi odierni emuli che si avvalgono di effetti speciali visivi più che perfetti. Emuli ai quali si rimprovera l'assenza totale o parziale di storia e di approfondimento psicologico dei personaggi (qualcuno sta pensando al tanto osannato remake di "Le Colline hanno gli Occhi" diretto da Aja?), e ai quali si rinfacciano pretese autoriali e sociologiche in realtà assolutamente ingiustificate poiché i contenuti narrativi sono di una povertà sconcertante.
Ciò premesso andiamo a vedere che cos'è il genere Horror.
Come abbiamo già spiegato nella recensione al film "Il Nascondiglio" di Pupi Avati, il genere Horror è un sottogenere del genere Gotico.
In particolare è unanimemente riconosciuto che il padre del Racconto Gotico (si badi bene, non del Romanzo Gotico) sia Edgar Allan Poe, che è stato punto fisso di riferimento per autori del calibro di Sir Arthur Conan Doyle, di Edgar Wallace, di Agatha Christie, di Howard Phillips Lovecraft e anche di Stephen King.
Inoltre, se è vero che il genere Horror trova le proprie origine nella letteratura gotica e in particolare proprio nel Romanzo Gotico, è ancor più vero che raggiunge la propria consacrazione con il Racconto Gotico e quindi nell'opera di Edgar Allan Poe (che, giova ricordarlo, è l'inventore dei sottogeneri che portano il nome di Giallo, di Thriller, di Noir, di Hard-Boiled).
E in che cosa consiste il genere Horror così come è stato sviluppato da Poe?
Esso si compone di un insieme di elementi volti a suscitare ansia, tensione, paura ed orrore (appunto) nel pubblico. In particolare quindi si necessita di una trama ricca e ben articolata che permetta di analizzare la psicologia dei personaggi di fronte ad eventi più o meno straordinari o extraordinari, scandagliando quelle paure ancestrali che appartengono all'essere umano da intendersi proprio come specie. A questo deve aggiungersi una buona ambientazione e una profonda analisi di tutte quelle istanze sociali, politiche e religiose, che permeano il contesto umano, cronologicamente individuato e geograficamente circoscritto, in cui la storia si svolge. La Psicologia e la Psicanalisi hanno svolto un ruolo determinate nella nascita e nel consolidamento del genere Gotico e maggiormente in quello Horror.
Non a caso Poe trasferiva nei propri racconti le sue fobie e le sue psicosi. Si ricordi ad esempio la tematica ricorrente dell'essere sepolto vivo o quella della scissione dell'Io.
"The Mist" è un film dell'orrore che rispetta tutte le regole e che presenta tutte le caratteristiche di questo genere. Infatti, Frank Darabont, grazie alla fedeltà mantenuta all'opera letteraria di King, realizza un film di genere Horror perfetto. E, per favore, non si vengano ad utilizzare termini inutili e vuoti come Sci-Fictiono Fanta-Horror.
Ritorniamo, dunque, alla nebbia con cui prende avvio la storia narrata in "The Mist".
Essa costituisce l'evento extraordinario in questione che si abbatte su un vasto numero di personaggi prigionieri all'interno di un supermercato. Perché sono prigionieri? In fin dei conti fuori dai vetri del negozio vedono soltanto una parete di nebbia, nient'altro. E allora perché restare chiusi nel supermercato? Soltanto perché qualcuno (Jeffrey DeMunn) si è presentato correndo, col naso sanguinate e affermando che all'interno della nebbia si cela qualche cosa? O forse soltanto perché hanno sentito delle urla umane provenire dalla nebbia?
Il tutto potrebbe apparire strano o irrazionale, forse insensato, eppure si tratta di una reazione giustificata e umanissima.
Come accennato la nebbia rappresenta l'ignoto e la paura dell'ignoto al contempo.
"Il sonno della ragione genera mostri!"
Goya
La nebbia limita il senso della vista, così come la paura obnubila l'intelletto.
I personaggi sono prigionieri nel supermercato per paura. Una paura che poi si rivela essere una cautela più che giustificata.
La nebbia, infatti, è solo il primo evento extraordinario che si verifica. Il secondo, invece è il manifestarsi delle creature che albergano questa nebbia. Esseri mostruosi e micidiali, il cui potere terrificante è aumentato dal fatto di non essere quasi mai completamente visibili.
Si noti che, quando i personaggi si trovano faccia a faccia con le creature, il confronto è immediato e diretto come accade in una qualsiasi battaglia per la sopravvivenza. In alcuni casi gli esseri umani hanno la meglio, in altri le creature. Poco cambia che l'uomo si trovi di fronte ad un leone, ad uno squalo o ad un essere mai visto prima. L'importante è vedere che cosa si ha di fronte.
In altre parole, resta l'ignoto la principale scaturigine delle paure umane.
L'essere umano si fa delle domande e, se non è capace di trovare risposte razionali, scivola nella irrazionalità più pura.
La nebbia quindi si identifica con la paura stessa. Quindi, parafrasando Goya, la paura genera mostri. E questa è una tematica assai cara a King e ricorrente in molte sue opere. Una per tutte si veda "IT" (il libro, naturalmente).
Le atmosfere, così come le tematiche, hanno una profonda matrice Lovecraftiana. E si ricordi che, dopo Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft è l'autore che più ha influenzato la produzione letteraria di Stephen King.
Forte di questa coscienza, Frank Darabont costruisce uno scenario apocalittico attraverso una struttura semplice, ma efficace.
In fin dei conti l'evento extraordinario narrato in "The Mist" altro non è che lo sconfinare di un ecosistema, quello che appartiene al mondo de "La Torre Nera", all'interno di un altro ecosistema, quello terrestre.
Non è un caso che anche le creature che compaiono all'interno delle nebbia abbiano a loro volta dei predatori. Esemplificativa in tal senso è tutta la sequenza dell'assedio condotto dalle zanzare giganti.
La domanda è: quale dei due ecosistemi sopravviverà?
La risposta però non è ciò che interessa agli autori di "The Mist".
Il film, infatti, analizza le differenti reazioni dell'eterogeneo gruppo di persone, specchio della società umana, prigioniere nel supermercato di fronte a ciò che sta accadendo al di fuori.
Tutti in un modo o in un altro cercano una spiegazione per quello che accade. Alcuni oltre alla spiegazione cercano un colpevole.
Darabont ci offre un vasto campionario di personaggi e di reazioni differenti.
La struttura narrativa ricalca fedelmente quella del racconto di King che a sua volta ricalca quella de "Il Signore delle Mosche".
Il gruppo campione di esseri umani si divide in due categorie di persone facilmente inquadrabili nella celebre distinzione fatta da Nietzsche fra il Tipo Forte, quindi individualista, e il Tipo Debole, quindi gregario.
E così il Tipo Gregario si riunisce intorno a un capo, che è al tempo stesso un punto di riferimento politico, sociale e religioso. Qualcuno che dice agli aggregati che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. In altre parole questi individui si spogliano del libero intendimento e si mettono in mano a qualcuno che decide per loro, deresponsabilizzandosi e decolpevolizzandosi da qualsiasi azione siano chiamati a commettere. Il file rouge che li lega al capo che hanno scelto è ancora una volta la paura, la ricerca di risposte semplici e di soluzioni facili.
Questo è quindi il gruppo che si riunisce intorno alla signora Carmody (Marcia Gay Harden), la proprietaria di un negozio d'antiquariato, conosciuta come donna instabile e squilibrata, ma timorata di Dio. Ella, facendo leva sulla bestia umana e sui suoi istinti primitivi, si erge a profeta e a intermediario fra l'uomo e la Divinità Creatrice. Da emarginata sociale, diventa il centro nevralgico di quella nuova società in via di formazione.
È semplicemente perfetto il progresso narrativo attraverso cui la Carmody raduna intorno a sé proseliti.
Sigmund Freud, anch'egli in un certo senso discepolo di Nietzsche, insegna che l'isteria di conversione fra persone riunite in un ambiente circoscritto si diffonde prevalentemente in via femminile (e questo Freud lo ha affermato nonostante fosse il primo a sostenere che l'isteria è un disturbo anche maschile e non esclusivamente femminile, come l'etimologia della parola stessa lascerebbe intendere). Sono manifestazione d'isteria di conversione il protagonismo, l'esibizionismo, la suggestionabilità, la teatralità e i disturbi della coscienza. Questi ultimi in particolare si identificano in una perdita di equilibrio fra le tre istanze psichiche (Io, Es, Super-Io) e ingenerano reazioni sociali anomale o, più semplicemente, comportamenti psicopatici.
Questa breve digressione per spiegare che Darabont, e Stephen King prima di lui, nel costruire la storia non ha lasciato niente al caso.
I primi seguaci della delirante signora Carmody sono donne. Solo in un secondo tempo anche alcuni uomini finiscono col seguirla. E si deve sottolineare che sono un numero esiguo rispetto alla componente femminile dei proseliti e che alcuni di essi precedentemente avevano prima deriso e poi osteggiato la signora Carmody. Il caso esemplificativo è quello di Jim (William Sadler), che da accanito oppositore si trasforma in devoto seguace.
È altrettanto perfetto lo sviluppo narrativo con cui la nuova congregazione pone in essere comportamenti devianti sotto un profilo etico, ma assolutamente sociali sotto il profilo dell'analisi sociologica.
I fanatici, infatti, prima canalizzano le loro paure nella ricerca di certezze affidandosi agli assiomi apocalittici della loro sacerdotessa, poi, quando da minoranza diventano una maggioranza, creano il loro status di societas composto da una scala gerarchica a da un insieme di regole, per quanto elementare primitivo e blando. Una volta forti del proprio essere sociale, decidono di esorcizzare le proprie paure cercando, come accadrebbe probabilmente in una qualsiasi società primitiva, un colpevole che abbia scatenato l'ira divina facendola abbattere su di loro. E la parola che tutti pronunciano in coro è appunto "espiazione".
Ed è attraverso gli occhi dell'altro gruppo, quello composto da individui e non dai gregari, che si scoprono gli obbrobri e l'intima stupidità di questa struttura sociale.
"Come specie siamo fondamentalmente insana! Metti più di due di noi in una stanza, ci fronteggiamo ed escogitiamo un modo per ammazzarci. È per questo che abbiamo inventato la politica e la religione".
Il giudizio che emerge sulla razza umana non è dissimile da quello espresso da Golding ne "Il Signore delle Mosche".
La paura individuale offusca la ragione, la iattanza esorcizza la paura. La formazione sociale combatte le paure collettive al prezzo del sacrificio dell'individualismo. L'individuo deve essere sacrificato in nome di un presunto bene collettivo. Questo bene collettivo viene scelto dalla maggioranza, che infatti detta le regole della formazione sociale.
Nel caso specifico si arriva fino al sacrificio umano per sedare la Bestia. Ma la Bestia che alberga nella nebbia è assolutamente meno feroce della bestia umana. La sintesi è la celeberrima frase di Plauto "Homo homini lupus!" da intendersi nella duplice accezione contrapposta nelle rispettive convinzioni filosofiche di Locke e di Hobbes.
Ossia, in parole molto semplici, la situazione delle persone all'interno del supermercato inglobato dalla nebbia (e in questo contesto è bellissimo notare come la nebbia segni il confine del mondo conosciuto come se oltre non vi fosse null'altro che la morte) rappresenta il ritorno al cosiddetto Stato di Natura. Ma se per Hobbes questo stato è inaccettabile poiché scatena la guerra di tutti contro tutti, per Locke è una condizione perfetta dove ciascuno gode della massima libertà.
Quindi è vero che nello stato di natura di questo campione umano si scatena una lotta per la sopravvivenza degli uni contro gli altri, ma è anche vero che il male maggiore scaturisce da quelle persone sprovviste di una forte individualità, che necessitano di raggrupparsi intorno ad un nugolo di ideali comuni che consenta loro di esorcizzare la paura collettiva. E non ha nessuna importanza se questi ideali abbiano un forte valore etico, oppure, come nel caso specifico, costituiscano una profonda abiezione.
Precedentemente abbiamo affermato che un film dell'orrore deve far leva su quelle che sono le paure ancestrali dell'essere umano e sulle reazioni psicologiche, sulle nevrosi e sulle fobie umane.
Abbiamo anche chiarito come la situazione apocalittica in cui si trovano i personaggi non sia niente di diverso da quello che avviene quando un ecosistema sconfina in una altro ecosistema.
Nella nebbia non ci sono creature cattive, ma semplici predatori, che possono rivoluzionare la catena alimentare conosciuta.
"The Mist", dunque, fa leva sulla più primitiva delle paure umane: quella di essere mangiato vivo o anche più semplicemente quella essere soltanto materia utile alla sopravvivenza di un'altra forma di vita.
In tal senso è fortemente simbolica ed esemplificativa la scena del soldato della Military Police il cui corpo è divenuto nido di ragni. E si consideri che la scena è ancora più forte poiché in natura, senza scomodare nessuna forma di fantasia creatrice, esistono ragni che costruiscono il proprio nido all'interno di altri esseri viventi, fra cui anche l'uomo.
Anche la scelta del teatro dell'azione è fortemente simbolica.
Un supermercato dove degli esseri umani, spaventati dalla tempesta e quindi dalla paura di una carestia, si precipitano a fare provviste alimentari, diventa la riserva alimentare di altre creature. E l'uomo diventa la più prelibata, anche se non la sola (si pensi al tentacolo che s'impossessa del sacco di mangime), fonte di nutrizione.
In altre parole il supermercato si trasforma in un vivaio umano.
Situazione già vista in altri film, come ad esempio quelli di George Romero? Sicuramente sì, ma non per questo meno pregevole.
Inoltre, "The Mist", attraverso moltissime citazioni, rende omaggio alla filmografia di Romero, che è amico di Stephen King e dello stesso Darabont.
Allo stesso modo omaggia il cinema di John Carpenter e quello di alcuni altri autori di genere.
In modo più superficiale si analizza anche il rapporto fra scienza e superstizione, ma questo è al più un escamotage narrativo volto a creare la situazione ideale al ritorno allo stato di natura e alla successiva indagine sulle pochezze del genere umano.
Non si deve cadere neppure nell'impasse di credere che gli autori si scatenino contro la religione in quanto tale. Essi attaccano il fanatismo e la strumentalizzazione della religione per fini sociali.
Le istituzioni messe in discussione, come accade in altre opere di Stephen King, sono il principio democratico, nella cui esasperazione una maggioranza tiranneggia su una minoranza. E tutte quelle istituzioni collegiali e collettive che sopprimono l'individualità e la libertà individuale.
Le medesime accuse Stephen King le aveva già ben esplicitate in "La Tempesta del Secolo", che per struttura narrativa, ambientazione e tematiche trattate è assai simile a "The Mist".
Il film si lancia anche con una certa chiarezza contro tutte quelle ipocrisie secondo cui la Natura è buona ed è bella.
Durante lo svolgimento del film, le creature si dimostrano essere semplicemente dei predatori che si scannano a vicenda. Si noti che anche la gigantesca creatura che attraversa la strada dei protagonisti alla fine del film, ha addosso molti parassiti che si nutrono di lei ( probabilmente le zanzare giganti piantate nel suo corpo gargantuesco e quegli altri volatili che a loro volta si nutrono delle zanzare). Quindi niente di diverso dai parassiti che infestano ad esempio i grandi felini.
Scrive Michel Houellebecq:
"Considerata nel suo insieme la natura selvaggia non è altro che una rivoltante schifezza; considerata nel suo insieme, la natura selvaggia giustifica una distruzione totale, un olocausto universale – e probabilmente la missione dell'uomo sulla Terra è proprio quella di eseguire tale olocausto".
E infatti, le scene conclusive della pellicola mostrano l'essere umano che ha ripreso il controllo del proprio ecosistema, distruggendo quella natura selvaggia che lo aveva invaso. Fortemente simbolico in tal senso è l'uso dei lanciafiamme.
In "The Mist", dunque, non c'è niente di lasciato al caso. Tutti gli elementi, tutti i comportamenti presentano una fortissima coerenza ed una costruzione logico-narrativa quasi ineccepibile.
Arriviamo dunque al finale del film.
Questo viene preparato con sapienza: si assiste prima alla donna che domanda aiuto a tutti i presenti, per essere scortata all'interno della nebbia alla ricerca dei suoi figli, aiuto che viene prontamente negato; una donna si suicida; l'uomo ustionato domanda di essere ucciso; il bambino fa promettere al padre che, qualsiasi cosa accada, non permetterà mai che le bestie lo divorino, un ragazzo viene dato in pasto alle bestie placare la collera divina attraverso l'espiazione delle sue colpe.
E così si arriva al suicidio.
Non si tratta di una scelta improvvisa, né affrettata.
La progressione narrativa ha uno schema ineluttabile. I protagonisti sono costretti ad affrontare la nebbia per riuscire a sopravvivere a quella società umana che si è creata all'interno del supermercato.
Non è un caso, ma una scelta deliberata, quella compiuta da David Drayton di passare il più vicino possibile alla vetrata del supermercato, quando finalmente riesce a prendere la macchina e a fuggire. Egli passa davanti a quelli che volevano uccidere suo figlio per darlo in pasto alle bestie. Passa davanti a quelle persone che non hanno il coraggio di rischiare. Passa davanti a quelli che, avendo perduto il loro capo, sono come un gregge di pecore vigliacche ed impaurite che ha perso il proprio pastore.
Sono l'istinto di sopravvivenza e la speranza che inducono Drayton a lasciare il supermercato. Ma quando la morte ormai sembra essere ovunque, quando l'ecosistema invasore sembra ormai vincitore e la razza umana sembra essersi estinta, quando si trova di fronte a creature di dimensioni ciclopiche che trasmettono all'uomo tutta la sua piccolezza e tutta la sua impotenza, quando la benzina finisce, allora David Drayton perde la speranza e con esse perde anche l'istinto di sopravvivenza.
"Nessuno potrà dire che almeno non ci abbiamo provato", dice Dan Miller, prima di dare il proprio consenso al proposito suicida.
Ed è ancora una volta la nebbia, con la sua impenetrabilità, col suo occludere la vista e col conseguente ottenebramento della ragione, ad inghiottire qualsiasi rimasuglio di speranza.
David, inoltre, ha promesso la figlio che non avrebbe mai permesso che fosse divorato da quelle bestiacce.
Il suicidio, o meglio l'omicidio di persone consenzienti, resta la sola via percorribile, proprio perché si ha ancora qualcosa da perdere: vedere morire in modo atroce i propri cari.
Questa sequenza finale rappresenta anche chiaramente il rifiuto di una società (si pensi che le persone all'interno della macchina rappresentano un perfetto nucleo familiare, la prima e fondante forma di società) a farsi fagocitare da una società nuova e di tipo differente.
Meglio l'autodistruzione!
Il messaggio conclusivo di Darabont, poi, è chiarissimo ed è perfettamente espresso dall'incrocio fra lo sguardo forte, altero, ma compassionevole della madre che è riuscita a salvarsi e a salvare i propri figli, e lo sguardo disperato e derelitto di Drayton: mai deporre le armi e mai smettere di lottare.
Sotto un profilo tecnico "The Mist" è un film molto ben realizzato.
Si consideri che il budget utilizzato è di circa 17 milioni dollari (appare superfluo ricordare i budget di film come "Indipendence Day" e come "La Guerra dei Mondi").
La regia di Frank Darabont è funzionale alla storia narrata. Tuttavia, essa risulta un po' troppo semplice senza l'effettiva necessità di esserlo. Darabont, che tanto osa nel raccontare le storie, non osa mai sotto un profilo tecnico, estetico e visivo.
Qualche virtuosismo registico non avrebbe certo penalizzato la storia e avrebbe ancor più nobilitato quello che è già di per sé un ottimo film. Forse, se Darabont avesse osato osare, "The Mist" avrebbe potuto essere un capolavoro assoluto.
Ottime, invece, la fotografia e la scenografia che contribuiscono e non poco alla creazione di un'atmosfera inquietante ed opprimente, capace di trasmettere al pubblico un forte senso di ineluttabilità e di disperazione.
Il cast artistico è buono, ma complessivamente sine infamia et sine lodo, ad eccezione di Marcia Gay Harden che regala al pubblico un'incarnazione della signora Carmody così perfetta e così sontuosa che non può davvero lasciare indifferenti.
Il ritmo narrativo è in un continuo crescendo, carico di ansia e di tensione, senza vuoti e senza cali di tono.
Tutta la sequenza finale della fuga, con l'accompagnamento musicale dalla bellissima "The Host of Seraphim" dei Dead Can Dance, è semplicemente sublime.
Non si può non criticare ancora una volta la subdola mediocrità della Distribuzione Cinematografica nel nostro Paese e delle sue scelte.
"The Mist" è un film che è uscito negli Stati Uniti un anno fa e non si spiega perché abbia tardato così tanto ad uscire in Italia. Inoltre almeno una scena del film è stata tagliata, e non si tratta di scena sconveniente sotto nessun profilo. Chi scrive ignora se vi siano stati altri tagli, ma, nel caso vi fossero stati, sono indubbiamente minimi.
Inoltre i dialoghi, che peraltro in gran parte sono gli stessi dialoghi del racconto di King, sono stati tradotti in un modo sottilmente fuorviante. Ad esempio c'è una grande differenza fra dire: "Per questo abbiamo bisogno della politica e della religione" e "Per questo sabbiamo inventato la politica e la religione".
"The Mist", come ha scritto anche buona parte della critica americana, è assolutamente il miglior film dell'orrore degli ultimi anni. A spaventare non sono tanto le creature che si celano nella nebbia, quanto il ritratto psicologico e sociologico dell'essere umano. Un ritratto così duro da far quasi auspicare la scomparsa dall'ecosistema terrestre di questa specie intimamente abietta e corrotta.
A nobilitare la pellicola sono proprio i suoi contenuti, forti e coraggiosi, in completa controtendenza ai soliti messaggini edificanti ed ipocriti spesso troppo amati dal cinema hollywoodiano. Una delle poche pellicole in cui l'omicidio non solo è giustificabile, ma addirittura auspicabile e in cui viene condannata la ricerca del bene collettivo a discapito di quello individuale.
Uno dei rari film in cui lo stesso sistema democratico, come principio fondante di ogni società umana, viene messo in discussione poiché può condurre a scelte mostruose e terribilmente inique.
Come non ricordare le parole del marchese De Sade:
"Tra tutte le stravaganze a cui l'orgoglio ha condotto l'uomo, la più assurda senza dubbio fu che egli osò ritenersi qualche cosa di prezioso e di unico".
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 17/10/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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