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Cile, 1978. Raul Peralta è ossessionato dal personaggio di Tony Manero.
Va continuamente a vedere "La febbre del sabato sera" e fa di tutto per comporre una pista da ballo come quella del film nel locale dove si esibisce con alcuni personaggi che tentano di emulare la coreografia originale.
L'America, oltre ad essere l'esportatore ufficiale della democrazia nel mondo, è anche la nazione dove pare davvero che tutto possa accadere. Nello specifico che il commesso di un negozio di vernici possa veramente essere una divinità per qualche ora il sabato notte.
Il commesso in questione è divenuta un'icona al punto tale che la febbre del sabato sera ha contagiato milioni di persone in tutto il mondo, nei lontani anni settanta. In paesi con problematiche meno evidenti tutto questo ha generato soltanto un certo numero di giovanotti imbrillantinati e vestiti di bianco, che il sabato sera si sfinivano sulle piste delle discoteche, col fine neanche tanto segreto di avere lo stesso successo di Travolta con le donne.
Ma nel Cile della dittatura è possibile che le icone positive, di un paese di cui sono evidenti soltanto i lati buoni e possibilisti, abbiano una presa a livello individuale tanto forte da annullare la personalità di chi sceglie di somigliare a un personaggio che in realtà non esiste.
Raul è un sociopatico della specie peggiore, quella che pare normale. Non è un semplice disadattato, dal momento che non si limita a sognare di essere Manero ma si definisce lui, e passa a vie di fatto in caso di qualsiasi tipo di ostacolo.
Deruba, aggredisce, usa le persone e alla fine intuiamo che farà anche di più. Ma tutto questo viene mostrato con un tale senso di rassegnazione da rendere marginali anche le peggiori derive.
La dittatura che si intuisce essere il motore delle illusioni di chi guarda troppa televisione - e troppe volte lo stesso film - prorompe con violenza di tanto in tanto, come gli eccessi di Raul, e come questi svanisce sullo sfondo quando non è utile rappresentarla.
In verità quello che vediamo è uno psicotico totalmente amorale, che si veste come Manero e va a concorrere per un frullatore ad una squallida trasmissione televisiva di imitatori.
Solo questo. E come ciò possa in realtà essere ascrivibile ai sogni televisivi, o alle fughe mentali dalla realtà devastante di una dittatura sanguinosa, è rimandato alla buona volontà dello spettatore.
Larrain ci lascia da soli col suo odioso protagonista. Lo guardiamo fare cose che non sono comprensibili, se non alla luce di un manuale di psichiatria, e contemporaneamente rifuggiamo ogni possibilità di identificazione e di comprensione.
Raul è pazzo, e quello che lo ha ridotto così può certo avere radici nello stato sociale del suo paese, ma noi ne vediamo solo gli effetti e non è la dittatura che rende pazzi, semmai è la pazzia che rende possibili le dittature.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 26/02/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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