Voto Visitatori: | 8,25 / 10 (91 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
C'era una volta... il film inizia come una fiaba e scorre leggero sui binari della commedia.
Scelta azzardata, quantomeno singolare, quella di scrivere una sorta di farsa sull'Olocausto, ma il risultato è sorprendente.
"Ridere è un altro modo di piangere" dice il regista, Radu Mihaileanu, la cui famiglia fu internata in un lager. Un dolore atavico il suo, un dolore che viene qua trasfigurato nella risata, ma non per questo sminuito. Nella vita è costante la compresenza di comico e tragico e l'invito pascoliano a cercare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima come due elementi inseparabili è poeticamente vero. Così il regista sceglie di raccontarci in altra forma la tragedia del suo popolo, in modo surreale e ironico, quasi a volerne dissacrare l'orrore. Lo fa ispirandosi all'universo onirico del concittadino Ionesco, al suo teatro dell'assurdo, i cui rimandi la critica ha intravisto, unanime, nel racconto di Mihaileanu, così come ha colto l'evidente richiamo al regista Ernest Lubitsch (ebreo dell'Est come lui) e al suo film "Vogliamo vivere", che nel '42 affrontava per primo in forma di commedia la tematica antinazista, irridendo la tragedia della Shoah.
Egli fu quindi il precursore di un'idea poco ortodossa ma di successo, seguita da altri artisti tra cui il nostro Benigni che, nello stesso anno d'uscita di "Train de vie" (1998), concepisce e dà vita ad un'altra commedia sullo stesso tema, "La vita è bella". Il lungometraggio italiano ebbe una distribuzione capillare e grazie alle operazioni di marketing per il suo lancio, ottenne maggiore popolarità, amplificata dalla vittoria dell'Oscar. "Train de vie" fu forse in parte oscurato dal film di Benigni, conquistò tuttavia il pieno consenso della critica e del pubblico e vinse il David di Donatello come miglior film straniero.
Tra le due opere esistono marcate differenze, denominatore comune lo stile narrativo "favolesco", ma risalta subito nel gioiello cinematografico di Mihaileanu, l'ironia grottesca e delicata insieme sui vizi e sulle virtù ebraici, tipica dell'umorismo Yiddish, sempre un po' malinconico e rassegnato, certamente privo dell'enfasi buonista del film di Benigni.
Il regista, ebreo franco rumeno, reduce da una dolorosa storia famigliare di continui abbandoni e di partenze improvvise, ci racconta il sogno della fuga di un villaggio ebraico dall'orrore dei campi di sterminio nazisti. Il soggetto è insolito e la sceneggiatura brillante.
Nel 1941 gli abitanti di uno shtetl dell'Est europeo vengono a sapere da Schlomo, il matto della piccola comunità, voce narrante del film, che i villaggi ebraici limitrofi sono stati distrutti e i loro abitanti deportati dall'esercito nazista. Lo stesso Schlomo suggerisce un'idea tanto geniale, quanto improbabile: organizzare una straordinaria messa in scena per sfuggire all'orrore, una falsa deportazione. Acquistano, pezzo per pezzo, un convoglio ferroviario, mimetizzandolo da treno nazista diretto ai lager, e partono. Meta: la Russia e infine la Palestina, terra promessa.
Un treno per vivere, appunto, immaginato dalla mente (insana?) dello scemo del villaggio, che sul tetto del convoglio in corsa urla la sua gioia con le braccia spalancate alla vita, un grido dell'anima, per il quale è difficile non commuoversi.
Ma è la rappresentazione collettiva ad offrirci spunti comici irresistibili e battute frizzanti, dall'esilarante interpretazione di nazista da parte di alcuni reietti, costretti dal pericolo incombente ad imparare velocemente un tedesco inappuntabile: "in fondo lo yiddish non è altro che la parodia del tedesco con dentro l'umorismo, basta togliere l'umorismo per parlare bene il tedesco"; all'organizzazione dei vagoni del treno in soviet, istituita da alcuni giovani convertiti al comunismo: "Ebrei-comunisti in un solo treno, un bel risparmio per il Reich".
Il racconto scivola via a ritmo veloce, le battute si susseguono concitate, tra bisticci di amori appena sbocciati e subito sfioriti e diatribe ideologiche fra i transfughi troppo immedesimati nei propri ruoli; superano indenni posti di blocco, inseguiti dai veri soldati tedeschi e da un commando partigiano comunista incaricato di far saltare il treno "nazista" in una situazione paradossalmente comica.
"I tedeschi di confessione israelitica sono da considerarsi nazisti o ebrei?" - si chiedono increduli i partigiani assistendo basiti alla cerimonia Yiddish in cui ariani e semiti pregano insieme. E ancora il paradosso del povero sarto che, prigioniero per una notte dei veri SS, liberato addirittura da un falso feldmaresciallo (l'ebreo Mordechai), racconta ai compagni ritrovati che i nazisti sono disumani e che "solo i nostri nazisti sono veri ebrei".
Impossibile compendiare in un commento le argute trovate dialettiche e gli strepitosi dialoghi del film (tradotti da Moni Ovadia,esperto di cultura yiddish).
Il tono irrisorio della parodia, si smorza nei momenti in cui il dramma, mai sopito, riaffiora: le due sequenze, quella triste dell'addio del rabbino alla propria sinagoga e il definitivo congedo degli abitanti dello shtelt dalle loro case; quella della distruzione del villaggio ebraico da parte di un vero reparto militare nazista, con il dettaglio sull'incenerimento della torah e delle suppellettili destinate al rito liturgico, identità della cultura yiddish, ci riportano alla realtà inaccettabile, mascherata dalla favola di un matto. Favola dove la musica modula l'intera narrazione e diventa motivo socializzante nella gioiosa scena dell'incontro dei nostri fuggiaschi con un gruppo di zingari ideatori della stessa farsa: si entra all'improvviso in un film di Kusturica con i gitani che danzano al ritmo frenetico delle splendide musiche di Bregovic.
La storia pare concludersi con una grande festa tra due culture lontane, ma unite da un unico destino di emarginazione e di morte. Tuttavia permane costante l'essenza tragica del momento storico, e sul sorriso aleggia per l'intero film una soffusa e struggente malinconia, che affiora dagli stessi personaggi. Dalla tenerezza con cui il rabbino, paziente mediatore, segue la sua gente, premuroso come un padre di famiglia, ma talvolta insofferente con il suo Dio (Dio, certe volte mi chiedo se sei un po' sadico); dalla paura e dal peso della responsabilità con cui il saggio Morderchai è costretto, suo malgrado, ad assumere il ruolo di capo-nazista, fino ad identificarvisi; dall'entusiasmo puerile e utopistico del simpatico ebreo marxista, bonariamente sovversivo. Infine, su tutto, emozionano i gesti, lo sguardo, le parole del matto Schlomo, che evoca il dramma imminente con poetica levità. A lui il regista affida l'osservazione più arguta: "Vi preoccupate se Dio esiste, vi siete mai chiesti se l'uomo esiste? L'uomo ha creato Dio solo per inventare se stesso, per non essere dimenticato".
E al suo volto, perfetta maschera tragico-comica, il regista affida la scena finale, dove la linea sottile di confine tra dramma e ironia, tra sogno e realtà, si assottiglia fino a svanire.
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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 04/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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