Recensione un condannato a morte e' fuggito regia di Robert Bresson Francia 1956
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Recensione un condannato a morte e' fuggito (1956)

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Miglior regia (Robert Bresson)
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Miglior regia (Robert Bresson)
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locandina del film UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO

Immagine tratta dal film UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO

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Immagine tratta dal film UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO
 

"Questa è una storia vera. Io ve la racconto così com'è, senza orpelli."

Una storia vera. Tratta da un racconto di André Devigny, narra i giorni di prigionia e l'evasione dal forte di Montluc a Lione di un membro della resistenza francese, durante la seconda guerra mondiale.
Ma dentro la cornice del suo cinema sobrio, intimo, e attraverso la rigorosità del suo verbo, Bresson ce la illustra più disadorna, fuori dallo spazio e dal tempo nei quali essa restava incarcerata, completamente depurata.

Le mani

Su esse s'apre la prima inquadratura, e nel silenzio.
Secondo la concezione filmica del regista, l'indugiare su certe parti del corpo, va innanzitutto inteso come il rinunciare alle espressività emotive e patetiche dei volti, e alla contaminazione che queste attuano nei confronti della vicenda narrata.
Ma l'inquadrare le mani ci presenta intanto lo sguardo di chi la storia ce la racconta: basso e sommesso, severo e contegnoso.
Esse saranno anche protagoniste, quando la loro azione precisa, operosa, sopravverrà alle divagazioni del pensiero e della parola.
Per ora, sono mani placide, raccolte, costrette sopra le cosce; seppure tentino già una timida azione, nell'aprire la portiera per dare il via a un tentativo di fuga.
Dopo le mani, ecco il volto, magro e inespressivo.
Bresson adopera attori non protagonisti, ma è con loro molto esigente. Non vuole la naturalezza: li educa a non recitare, e a spogliarsi di quelle maschere, di quelle gesticolazioni teatrali che sono utilizzate da chiunque anche nel corso della realtà quotidiana.
Mentre pronunciano le loro battute, contratti, gli interpreti abbassano spesso gli occhi, come se presi da una certa vergogna, come a destinare i loro sguardi sulle mani.

"Il cinema non è spettacolo"

Pochi altri registi sono rimasti talmente fedeli a una propria dichiarazione.
Oltre alla direzione degli attori, a cui si è già accennato, Bresson misura ogni singola immagine, ne accorda i rapporti con le altre, lascia fuori campo l'azione, rifiuta le scene di violenza, e tutto, dai dialoghi agli ambienti, è scarnito all'osso, ciò che sta intorno prosciugato, il sua cinema è ovunque estremamente essenziale.
Anzi nei successivi lavori vedremo man mano fortificarsi tale posizione, sino a divenire ostinata, intransigente nelle ultime opere.
Pochi sono i movimenti di macchina, e nessuna inquadratura è superflua. Mentre così sgombra, neutra l'immagine che quasi s'astrae, permette maggiore spazio alla sensibilità dello spettatore.
Proprio come avviene in una composizione musicale: non tanto è la semplice nota che deve restituire ricchezza all'ascolto, ma il suo inserirsi tra le altre; ciò che in linguaggio cinematografico si può tradurre con il termine montaggio.

In "Note sul cinematografo" Bresson scrive:
"Per creare non bisogna aggiungere ma togliere";
"L'emozione è prodotta attraverso la resistenza all'emozione";
"Costruisci il tuo film sul bianco, sul silenzio e sull'immobilità".

Ma non è la sua soltanto un'esigenza formale. Troviamo in questa astensione un'affermazione dignitosa dell'artista, dell'uomo al cospetto di una società e di una natura spesso maligne nei suoi confronti. I protagonisti bressoniani assorbono il male che li attornia. Non cedono all'istinto di restituire il dolore agli altri. Lo trattengono. Subiscono, ma con ritegno. Oppongo coscientemente la propria indifferenza all'indifferenza inconsapevole del tutto.

Tutta la sequenza iniziale si svolge all'interno di un abitacolo. Fontaine è già prigioniero. Delle strade, del mondo esterno, s'intravede qualche scorcio, s'intendono pochi rumori appena. Quando egli prova la sua fuga disperata, l'uomo che gli siede accanto non batte ciglio. Fontaine viene ricondotto all'interno dell'auto e fatto sedere. Sarà percosso, scortato sino al forte, percosso nuovamente. Ma ciò non è mostrato, è lasciato come compito alla nostra immaginazione.

Un'ascetica stanza...

... di pareti spoglie, dall'arredo essenziale e poverissimo, angusta, accoglie il protagonista rinvenuto. E lo stile rigido di Bresson aggiunge nuova durezza alle mura, altre manette ai polsi.
A questo punto ci siamo quasi già dimenticati che trattasi di un episodio contenuto nella seconda guerra mondiale, e non per incoerenza storica. Diviene, la cella, paradigma di una condizione umana universale, indotta al ritiro e alla solitudine; un ambiente concreto e al contempo metafisico, non meno mistico.
Il quadro suggerito, sembra quello di una sequenza ininterrotta di medesime stanze attigue, chiuse ad abbracciare il globo intero.

Tuttavia non è ancora silenzio. Una sorta di candore irradia la penombra della cella spoglia. Si comunica col vicino di cella bussando sulla parete comune. Sotto la finestra, da dove mai si guarda al cielo, passeggiano compagni, quasi angeli, disponibili a offrire per quanto possibile un sostegno; là fuori non è ancora del tutto indifferenza.

La dieta forzata si fa digiuno voluto. Da quei pochi oggetti di prigionia di cui dispone, Fontaine ne ricaverà strumenti per la fuga. Per converso, l'uomo condannato può trovare fede nella sfiducia, ricchezza dalla privazione, forza attiva dalla passività, spaziosità in ciò che è ristretto, autonomia nella coercizione, rimedio all'irrimediabile, il proprio bene all'interno del male.
L'immobilità della cella si fa rampa per uno slancio verso la libertà, che si propone innanzitutto come conquista interiore.

Diario di un condannato a morte

Il film è composto perlopiù da corti periodi, dove Bresson ci fa vivere ogni apprensione, ogni straziante attesa, tutti i dubbi e tutte le esitazioni del protagonista. E se la rigidezza delle immagini terse sa funzionare come una cassa armonica in cui si accumula una forte tensione, la Messa in Do minore di Mozart interviene come plettro e, dove s'inserisce, allora una commozione ovunque si sprigiona; tutte vibrano quelle immagine tese; una sacralità sfiora il laicismo di Bresson.

Il commento verbale è invece affidato alla lettura di un diario postumo da parte del protagonista (espediente che il regista utilizzerà ancora), senza enfasi, lucida e attenta a non tralasciare un singolo particolare significativo.
A ogni fine brano, l'immagine sfuma in una breve pausa, come a rarefare i contorni della scena illustrata, e rendendo l'idea di una pagina che si volta, o di una bocca che nel frattempo prende fiato.

Il vicino di sinistra non risponde

La nuova cella in cui Fontaine viene trasferito pare del tutto identica alla precedente, ma non è così. Più che il silenzio della cella di destra, che è vuota, è lo zittio che proviene dalla cella occupata alla sua sinistra che lo turba. Gli provoca infinita angoscia. Quando Fontaine bussa alla parete, il vicino non risponde.
Egli, si vedrà presto, è un anziano tremendamente solo, misero, senza speranza e senza fede. La sua cella è più buia, più scabra, più scomoda, più sconsolante. In quel suo mutismo sembra lamentarsi tutto un popolo di rassegnati.
Ma se Fontaine non potrà persuaderlo a seguirlo nel suo tentativo di evasione, riuscirà pian piano a stabilire con lui perlomeno un dialogo, attraverso quelle finestre vicine che non si guardano mai. Diverrà il suo confidente, in quella sorta di laico confessionale. Ciò gli restituirà nuova spinta.
Ogni qual volta ha termine un loro colloquio, il capo di Fontaine tramonta sotto la finestra, e si ritira maggiormente sollevato.

Tuttavia non sono soltanto quelle con il vicino anziano le conversazioni che Bresson alterna al silenzio commentato della cella. I detenuti, sempre sorvegliati, trovano modo di scambiarsi qualche parola in quei momenti in cui sono riuniti per lavarsi. Tra loro c'è chi si affida alla preghiera, chi alla scrittura, chi medita anch'egli una fuga.
In cortile vanno in fila, lentamente muti, l'uno dietro e avanti lo sconforto dell'altro. Svuotano il secchio dei bisogni nella fossa. Finiscono spesso senza una parola le loro passeggiate deprimenti.

"Amaro e noia"

Prendiamo liberamente in prestito questa espressione dalla lirica "A se stesso" di Leopardi, che è a suo modo un'altra opera profondamente asciutta e severa, per accennare alla concezione non felice del mondo secondo il regista francese.
A questo proposito si pensi ai protagonisti delle sue opere, come siano spesso soggetti molto riservati, magri d'aspetto e apatici, se non addirittura depressi. Tale era ad esempio il curato; e tali saranno il ladro, Marie, Mouchette, gli altri, forse lo stesso autore.
Si veda, inoltre, come la loro vicenda sia sempre solitaria, e vessata da un male diffuso che assume modi e forme diverse.
Non altro possono questi personaggi - che mai ridono, mai piangono davvero - che non mantenere un umile decoro, che non mostrare una propria frigidità di fronte a esso, e intanto una stoica sopportazione.

Non meno critica, in questo che è il quarto lungometraggio di Bresson, è la situazione di Fontaine; il cui male è certamente rappresentato dalla presenza assillante dei soldati tedeschi; i quali molto spesso restano invisibili, quasi sempre senza volto, sì crudeli ma mai veramente rabbiosi.
C'è in loro più che altro una ferma indifferenza, di chi non è pietoso, di chi obbedisce a un ordine superiore.
E sul volto di Fontaine - in egli che non è un "buono" ma un uomo soltanto, così semplificato - non è mai leggibile per loro un autentico risentimento.
Nondimeno, vi è ancora la convinzione, forse più il bisogno disperato, di volervi fuggire.
Vi è ancora una chiara reazione, ancora è residua una fede.

"Io lavoro"

Proprio da uno dei momenti di profonda noia, in cui Fontaine è assorto nella contemplazione inerte della porta, e da un atteggiamento che è tipico di uno stato d'animo depresso, s'innesca l'idea di una possibilità di fuga; dove Bresson comincia a descrivere, sempre servendosi dell'aiuto del commento puntuale della voce fuori campo, non solo ogni singolo passaggio di una preparazione meticolosa, ma anche quei "passi indietro" necessari alla riuscita; come il riassestare le assi della porta, o il ripulire i trucioli lasciati dal suo lavoro.

Questa nuova fede, laica, non priva del dubbio, che fa utensile l'oggetto impassibile, alleato ogni elemento della prigione; non vuole impetrazione, mentre necessita l'intervento irreprensibile e ingegnoso delle mani.

E allora l'inerzia diventa attività laboriosa; in cui l'azione dovrà essere soprattutto accorta e paziente.
Del resto, Fontaine trova davanti a sé, nella cella di fronte alla sua, un doloroso monito - non del tutto vano - nel fallimento del compagno che ha rischiato un'evasione avventata.

In una scena in cui i prigionieri sono riuniti per lavarsi, egli non risponde all'invito a pregare. Poco dopo dona il suo lapis a un altro, quale rinuncia allo strumento artistico.
Abdica a tutte le distrazioni meramente spirituali.
Mentre il lapis che serba gli resta utile proprio come utensile di lavoro: "Io lavoro", asserisce; e si fa fede in se stesso quell'affermazione, fede nell'abnegazione pratica delle mani.

Le vent souffle où il veut

L'altro titolo dell'opera fa vago accenno al caso o al mistero.
A tal proposito si noti quanto il racconto del prigioniero sottolinei come certe circostanze fortuite, anche qualora si fossero presentate avverse, abbiano contribuito in maniera decisiva alla propria salvezza.

Le coincidenze di questi effetti casuali (com'è lampante nella sequenza in cui Fontaine trova un cucchiaio in concomitanza alla presenza di una bibbia) fanno pensare che questa fatalità, o fortuna, sia ancora provvidenza.
Ciononostante, crediamo che Bresson rimandi tutto a una dimensione metafisica, e preferiamo perciò continuare a chiamarlo un mistero; consci anche del fatto di come la riflessione bressoniana della vita si stia man mano allontanando da quella prettamente cristiana.

Le vent souffle où il veut.

L'autore d'altronde non abbandona mai la solitudine oppressa del suo condannato, e al di fuori della sua cella tutto rimane incerto, oscurato, tutto origlia e sorveglia.
Un compagno viene a trovarlo davanti alla cella - Come avrà fatto a giungere sin lì? Qual era il suo volto? Che fine ha poi fatto?
Qualche giorno più tardi, riuscito a rimuovere le assi della porta, sarà lo stesso Fontaine a fare altrettanto.
S'ode dalla finestra il rumore delle fucilazioni. L'ombra dei soldati ottura lo spioncino a intervalli regolari. - Ci saranno nuove perquisizioni?
Giunge un pacco - Chi l'ha mandato?

Le vent souffle où il veut - il vento soffia dove vuole.

L'ultimo dubbio

E' simboleggiato dall'arrivo del nuovo prigioniero con il quale Fontaine, negli ultimi giorni, dovrà dividere la sua cella; uno sporco ragazzo vestito per metà da soldato francese e per metà da tedesco.
E' una spia? E' un compagno? E' il bene o il male?
A Bresson non interessa forzare questo tipo di suspense: l'agnizione temuta non avverrà. Egli non è il bene, ma un bene sicuramente sì, e anzi si rivelerà un aiuto indispensabile. Un fatto apparentemente avverso si trasforma ancora in fortuna.
La sua giovane età porta intanto nuova freschezza alla speranza. Dopo la sua entrata in scena, dentro la cella, è già meno silenzio, un po' meno solitudine.

Nelle ore della fuga, descritte sopra i tetti e le mura del carcere, sotto il buio spalancato della notte spoglia, il film tocca poi il suo apice di tensione, senza spettacolo.
Di nuovo le cose inanimate, adesso proprie del mondo esterno e non ancora visibili, non già vicine ma nemmeno più tanto distanti, intervengono in soccorso ai due fuggitivi.
Il transitare dei treni copre i rumori provocati dai loro movimenti. Il suono delle campane li avverte del tempo trascorso.

Il tempo immobile trascorre rapidamente.
Ci sono infiniti attimi di titubanza, lunghi periodi di paralisi. Ma i ganci e le funi, preparati con tanta diligenza, reggono a dovere.
Una sentinella è tramortita o uccisa; l'aggressione avviene fuori campo.
Di sotto, ce n'è dopo un'altra, sempre incurante, ultima, che gira in bicicletta costeggiando all'interno le mura perimetrali della prigione, imitando quasi la rotazione monotona della lancetta di un grande orologio.
I due scavalcano l'ultimo ostacolo. Non ci sono stati grandi intoppi. Un condannato a morte è fuggito, assieme a un ragazzo. Di là il male non se n'è avveduto.

Ma c'è davvero liberazione al di là del muro?

Oggi, per chi avesse seguito l'intera produzione di questo austero e sensibile artista, si può azzardare una qualche risposta.

L'estrema coerenza della cifra stilistica, inaridita ma mai impoetica, atta a ridurre ogni componente del racconto e a smagrire l'opera, inchioderà sempre di più i suoi personaggi a una croce esile e inflessibile, ferma nel centro di un paesaggio brullo.

In campo artistico, il gergo di Bresson, sempre compassato e illuminato di un raro pudore, si porrà come uno dei più significativi e influenti del cinema mondiale; mentre "Un condannato a morte è fuggito", ribaltando i canoni di genere comunemente "violento" come quello carcerario, ma non soltanto, ispirerà notevolmente diverse opere a venire, e soprattutto un altro film francese molto bello, "Il buco" di Becker, o più in là il celebre "Fuga da Alcatraz" di Siegel.

Uguale fortuna non si può dire che incontreranno i suoi personaggi, sempre inibiti nelle loro astinenze e mai veramente liberati.
Ci saranno nuovi calvari. L'oggetto si farà maggiormente protagonista. Dilagherà il male, di mano in mano, e la piattezza e il suo grigiore, come il denaro. Lo stesso contegno che dimostra l'umile uomo bressoniano, prenderà sempre più le tinte di una mera apatia, della passività, di una profondo supplizio. Perderà colore la vita, una volta spenta la lampada della fede.
E quell'elevazione spirituale che prometteva l'ascetismo, allora forse diverrà assenteismo, e in tal modo adesione al materialismo del mondo e alle sue colpe.

Il film si chiude con i due evasi che accelerano il passo, allontanandosi dal luogo carcerario, mentre il regista, con la consueta discrezione che ovunque gli riconosciamo, fa scivolare un sipario di vapore sopra la scena.
Cosa accadrà dopo non lo sa ancora Fontaine, non lo sappiamo noi, non lo sa Bresson.

Nel film successivo, "Pickpocket", il protagonista sembrerà già rifare il percorso all'inverso. La liberazione avverrà solo nel finale, dietro le sbarre.

Anche in "L'argent", ultimo lavoro di Bresson, la vicenda si concluderà in prigione. Ma là il costituirsi non avrà il sapore di una redenzione, e piuttosto di un estremo castigo e di un auto-annullamento, decoro ultimo in quella "infinita vanità del tutto".

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 06/07/2010 14.59.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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