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Jacques Audiard, dopo "Il profeta", si conferma cineasta di rara potenza espressiva e punto di fusione di tanto cinema contemporaneo. Nei suoi film egli ama indagare l'uomo per esplorare l'angolo buio che si nasconde nel cuore di ognuno di loro. Un angolo in cui albergano brutalità e rabbia, paura e tenerezza, erotismo e dolore, il vuoto della vita e la volontà pervicace di stare al mondo. Una indagine esplorativa appassionata e totale, che si addentra negli umori, nelle emozioni, negli istinti più profondi, e non ultimo nei volti e nei corpi, fino a sentirne l'odore e la concretezza, fino a verificarne la sessualità e l'inadeguatezza.
Audiard da sempre fa un cinema ricercato e altamente evocativo, in cui c'è sempre qualcosa, un fatto, un evento, un comportamento, una tragedia sul punto di implodere, schiacciato dalle avversità della vita. I suoi personaggi sono sempre alla ricerca di un mondo migliore, non tanto per una questione morale, ma solo per un tenace attaccamento alla vita. Il suo è un cinema più della carne che dell'anima, un cinema di struggimento e sangue, di lacrime e sudore, di inquietudini e polvere, di emozioni e sensualità; un cinema in cui si sentono "tutti i battiti del (suo) cuore".
Il nuovo film dell'autore di "Tutti i battiti del mio cuore" e "Il profeta" (due dei film più belli degli ultimi anni della cinematografia francese), tratto molto liberamente dalla raccolta di racconti brevi del canadese Craig Davidson, presentato in concorso al 65° Festival di Cannes e clamorosamente escluso dal palmares, ha il sapore non solo di ruggine e ossa, ma anche di sessualità e sofferenza, di brutalità e di carnalità, di solitudine e paura, ma soprattutto è un film, come dice Audiard, "di ricostruzione e di riconciliazione con la vita, innanzi tutto, e poi con l'amore".
Un film di sentimenti, dunque, nelle cui pieghe si può leggere una riflessione sull'handicap, sulla mancanza di lavoro, sulla difficoltà di imparare a fare il padre. "Un sapore di ruggine e ossa" mette a confronto due personaggi opposti e complementari allo stesso tempo, due personaggi che si completano e si respingono a vicenda; due disabilità, una esistenziale e l'altra fisica che, calati in una realtà dura e violenta, riescono a trovare, nonostante tutto, il senso della vita e persino la voglia di ricominciare.
Si avverte che nella parte che segue viene raccontata in dettaglio la trama.
Lui, Alain, detto Alì, (Matthias Schoenaerts) è un trentenne dal fisico possente, vagabondo, senza soldi e senza lavoro, che si circonda di donne occasionali per soddisfare la sua virile e insaziabile esuberanza. Da una di queste ha avuto un figlio, Sam, un bambino di 5 anni che conosce appena e di cui, molto probabilmente, non sa che farsene, ma di cui ora è costretto a prendersi cura, dopo che la madre glielo ha appioppato dopo essere finita in galera per traffico di droga.
Lei, Stéphanie, (Marion Cotillard), è una donna giovane e bella, sicura di sé e amante delle discoteche e della vita notturna; ha un lavoro che la soddisfa come addestratrice di orche in un parco acquatico di Antibes e una relazione sentimentale con un uomo che sembra arrivata al capolinea.
Lui lo vediamo subito quando, costretto a cercarsi un lavoro per provvedere al figlio, decide di lasciare il nord della Francia e recarsi verso sud, ad Antibes, dove vive la sorella, commessa in un supermercato, portando con sé il proprio figlio a cui è assolutamente incapace di badare. La donna accoglie il fratello non proprio entusiasticamente, ma si prende cura amorevolmente del bambino e gli offre il suo garage come sistemazione provvisoria, in attesa che si trovi una adeguata occupazione.
Forte del suo passato di boxeur (che ha dovuto lasciare dopo essersi rotto una mano), ben presto l'uomo trova lavoro come buttafuori in un locale notturno della Costa Azzurra. Ed è qui, nel locale dove lavora, che conosce Stéphanie. La donna sta subendo le pesanti molestie di un avventore e Alì per difenderla provoca una rissa a cui segue il suo immediato licenziamento.
Dopo averle evitato il pestaggio, Alì si offre di riaccompagnarla a casa, dove, incurante del convivente, le lascia il suo numero di cellulare, sperando, prima o poi, di portarsela a letto e includerla nella sua collezione di donne. Nel frattempo viene assunto come sorvegliante nel supermercato in cui lavora la sorella, dove arrotonda lo stipendio rubacchiando cibo scaduto e mettendosi in combutta con un tipo poco raccomandabile che piazza telecamere spie al servizio della proprietà, in cerca di pretesti per licenziare i dipendenti meno produttivi.
La perdita del posto di lavoro al supermercato, a seguito della protesta degli operai che hanno scoperto le telecamere e la successiva cacciata dalla casa della sorella, che lo ritiene responsabile del suo licenziamento, costringono Alì ad impegnarsi di più nei sanguinosi incontri clandestini di pugilato (più che incontri di boxe sono veri e propri massacri, in mezzo a spettatori maschi inferociti), dove lo ha introdotto lo stesso tizio delle telecamere, in cui può mettere a frutto tutta la forza dei muscoli che la natura gli ha donato.
Qualche tempo dopo, quando ormai ha quasi dimenticato la bellissima donna della discoteca, una telefonata nella notte gliela fa rincontrare: è lei che lo chiama, è impaurita, disperata ed ha bisogno di aiuto. Alì stranamente accorre, ma la donna che si ritrova davanti non è più la Stéphanie che ha conosciuto. Ora è ripiegata sopra una sedia a rotelle dopo che ha perso l'uso delle gambe in seguito ad un incidente sul lavoro, quando un'orca assassina l'ha spinta in acqua e le ha tranciato le gambe, dalle ginocchia in giù.
Precipitata nell'abisso dell'handicap, sola, abbandonata dal fidanzato e afflitta da un senso di insicurezza, spinta da suo ostinato bisogno di ritrovare uno straccio di vita, si lascerà trascinare dalla vitalità ferina dell'uomo e troverà un appiglio cui aggrapparsi nel corpo solido di Alì e nella sua ruvida schiettezza, priva di compassione, ma capace di inaspettate delicatezze e premure.
Inizia così una strana relazione, lui comincia a farle riassaporare il piacere della femminilità e le piccole gioie della vita: una passeggiata all'aria aperta, un bagno in mare (anche se per tornare a riva ha bisogno di sorreggersi sulle sue vigorose spalle) e non le fa mai sentire il peso dell'handicap; inoltre, quando lei gli confessa di non sapere più se è ancora capace di fare l'amore, lui semplicemente le propone di "scoparla", non tanto per amore o per pietà, ma solo per verificare se funziona ancora. Io sono "operativo" dice di sé, intendendo che lui è una macchina da sesso, pura performance fisica senza nessuna complicazione sentimentale.
La donna sta al gioco, accetta, quando vuole fare l'amore con lui gli manda un sms convenzionale: "oper", e lui capisce; poi non le basta più: "Ti chiedo delicatezza e tu sai cos'è, perché hai sempre usato delicatezza con me". Ma io sono opé, ripeterà spaurito più volte, non riuscendo a capire cosa esattamente voglia da lui.
Lui è Alì, un uomo ruvido, dal passato difficile, di indole primordiale, specificatamente maschile, proprio per questo anche delicato come sa esserlo solo chi è senza sovrastrutture e senza artifici, ma non sa amare le donne, le sa solo usare per soddisfare il suo incontenibile desiderio erotico.
Toccherà a lei prendersi cura di questo ragazzone, tanto forte quanto inadeguato come padre e come amante, al di là della sua propensione ad essere "operativo", di cui peraltro si riserva la totale decisione. Mentre a lui tocca con i suoi modi rozzi e primitivi, insensibili e privi di tatto, il compito di riportala alla vita, facendole ritornare la voglia di vivere e il piacere di fare ancora l'amore.
Sorprendente fin dalle prime immagini, con le bellissime inquadrature delle scene acquatiche dei titoli di testa, questa favola di Jacques Audiard, intrisa di tenerezze e di realtà crude e violente, come gli incontri di strada dove l'uomo sfoga tutta la sua rabbia di vita e mette a fuoco una fisicità che va dritta ai bisogni primari: toccare, annusare, il cibo, il sesso, un tetto, un po' di calore. "E' una storia di ricostruzione e di riconciliazione con la vita e poi anche con l'amore", dice il regista, che inscena un racconto che ruota attorno alla parte più istintiva della natura umana. Quella istintualità che trova la sua energia nelle pulsioni più profonde e insondabili che albergano nel cuore degli uomini.
Per questo quello di Audiard è un cinema che riesce a fondere, con rara sensibilità, l'universo forte e drammatico con quello violento e cupo e ad essere quasi brutale, quando racconta di uomini messi a dura prova dagli eventi della vita o dalle loro personali ossessioni. Una umanità che si sente esclusa, che lotta contro i limiti del proprio corpo o del proprio carattere, che si sforza di accettare i propri sentimenti.
Tuttavia "Un sapore di ruggine e ossa" non è solo il ritratto di una umanità che cerca di pararsi dai colpi della vita, il film di Audiard è soprattutto una storia d'amore, che purifica lo spettatore dal sapore di ruggine e ossa che travalica dallo schermo. Il sapore delle ossa maciullate di Stephanie e il gusto della ruggine che paralizza l'emotività di Alì, la ruggine e le ossa che il destino ha fatto incontrare; il sapore del sangue e delle ossa delle scene più intense e tragiche che non sfociano mai nel melodramma, perché il film insegna a schivare il dramma e a fare pace con la vita.
"De ruille e d'os" (questo il titolo originale) è un film forte e crudo, di grande impatto visivo e di forte coinvolgimento emotivo, un cinema della carne, del sesso, della rabbia e del sangue, sporco come la vita di chi deve lottare per la propria dignità.
Visto così, il film risulta tutto incentrato sui contrasti, in primo luogo dei corpi (possente e vigoroso quello di Alì, fragile e menomato quello di lei) e successivamente degli animi (freddo e disincantato quello di lei, ruvido e scostante quello di lui), entrambi però sono dotati di una forza interiore che li rende indispensabili l'uno all'altra e viceversa. Indispensabile a lei per trovare la forza di superare gli evidenti limiti fisici e ritrovare un barlume di vita (si tatua i moncherini, mette i tacchi alle protesi); indispensabile a lui per imparare ad amare e ad essere padre, prima che uomo.
Alì e Stéphanie sono due naufraghi sopravvissuti, che, aiutandosi a vicenda, trovano la forza giusta per rialzarsi dall'abisso in cui la vita li ha precipitati. Ma Alì e Stephanie non sono eroi, ma neppure totalmente antieroi, sono due esseri umani ciascuno con la propria anima e con la propria sensibilità; ma via via che la storia procede si capisce benissimo che l'empatia tra loro è ormai totale e nasce dal fatto che lui non sembra farsi problemi dalla menomazione fisica di lei (le stringe i moncherini, li accarezza), e che lei intuisce che dietro ai modi rudi e schietti di lui si nasconde una persona speciale su cui poter contare.
Audiard, senza moralismi, ma anche senza la presunzione della verità assoluta, pone sullo stesso piano il voracissimo istinto sessuale di lui, di accoppiarsi con qualsiasi donna disponibile, con il piacere che prova lei nel tornare a fare l'amore (ma sarebbe il caso di dire scopare). Per questo, forse, c'è una profonda sessualità nelle scene d'amore tra i due, nelle quali i corpi nudi, sconnessi, così drammaticamente diversi, ci vengono mostrati in maniera schietta e quasi insolente, ma senza finalità morbose o, peggio, voyeuristiche.
Audiard ce lo mostra quel rapporto, ma non lo definisce in nessuna categoria che siamo abituati a considerare. E' la loro storia e basta, forse è amore, forse è solo sesso, forse è solo solidarietà tra due esseri marginali, forse è solo l'incontro di due mondi che casualmente finiscono per intersecarsi.
Ci voleva un regista come Audiard (definitivamente uno dei migliori cineasti europei della sua generazione), il quale, reinventando e modernizzando il melò, ha saputo infondere ai suoi film un'impronta peculiare inconfondibile per non cadere nella trappola della commozione facile, nonostante una serie di scene che in mano a qualunque altro sarebbero risultate strappalacrime.
Una buona dose di merito, però, va riconosciuta ai due interpreti. Marion Cotillard è semplicemente perfetta nell'interpretazione del personaggio di una donna bella, indipendente e molto sicura di sé, a cui la vita ha riservato il più tragico dei destini. Alle prese con un ruolo difficile e a tratti estremo, optando per uno stile recitativo sobrio, sommesso e mai gridato, fatto di silenzi e di sguardi, di slanci e di ritrosie, si esibisce in una prova di incommensurabili emozioni che mettono i brividi e toccano il cuore. Sofferente ma mai doma, offre alla macchina da presa il suo volto, bellissimo, senza un filo di trucco, segnato dalla rabbia e dalla disperazione, i capelli in disordine e spenti, le occhiaie profonde, il corpo oscenamente offeso.
Ma se la Cotillard è ormai una certezza, la vera rivelazione risulta il prestante Matthias Schoenaerts. L'attore belga, alla sua prima interpretazione importante, offre una performance davvero straordinaria nel ruolo del macho tutto muscoli, sesso e poco cervello, che fa sorridere con il suo essere grossolano, intenerisce con la sua immaturità, commuove con l'umanità che cova sotto la corazza del cinismo e dell'indifferenza con cui affronta quella vita che non gli ha dato altro che i suoi pugni, le cui nocche spesso sanguinano quando si trova a lottare contro le difficoltà, simboliche o reali, della sua quotidianità. I suoi combattimenti, le sue risse, il suo sudore, la sua sessualità producono un'energia devastante che costringe lo spettatore a sentirsi partecipe della sua vulnerabilità di uomo, che lo rende padrone della sua vita.
Capolavoro bellissimo, carico di eventi e di passione e di personaggi, che, come dice Audiard: "compiono assieme un percorso che va dall'egoismo alla scoperta della capacità di darsi. Non si redimono perché non hanno commesso nessun peccato, non sono cattivi, semmai lo è l'epoca in cui vivono".
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 16/10/2012 13.08.00
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