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Il grande regista "Neorealista" Giapponese ci lascia con questo ennesimo ottimo lavoro che ricorda "Tarda Primavera", quasi un remake si puo' dire. Solo che in questo caso, unico per Ozu, abbiamo i colori. Cosa che si evince poco visto il grigiore dell'ottima fotografia che si concentra in interni chiusi e spogli. Un racconto semplice ma reso grande dalla maestria di Ozu che regala anche momento di ilarita' mai trovati nei suoi film precedenti. Addio maestro...
L'ultimo Ozu, ancora bellissimo. Ancora una variazione di "Tarda Primavera", ma con ritratti di donna moderna in grado di rompere le righe dei grandi film giapponesi anni '50. Perché sono i personaggi e le situazioni che li legano a rendere indimenticabili i film di Ozu. La prova che non è vera l'opinione tristemente comune che è la storia a fare un bel film.
Film "gemello" di Tarda Primavera, quasi una sua versione a colori. La vicenda principale, infatti, è essenzialmente la stessa: un padre di famiglia vedovo, sempre interpretato da Chishu Ryu, vive con la figlia e tenta di farla sposare per fare in modo che ella non sacrifichi la sua vita per lui. E, come in Tarda Primavera, anche se inizialmente la figlia non sembra volersi sposare per amore del padre, alla fine si fa convincere e giunge a nozze. La visione del mondo estremamente pessimistica e malinconica di Ozu non sembra cambiare: i suoi personaggi, soprattutto quelli più anziani, sono soli e tristi; e la loro unica consolazione sembra essere l'ebbrezza dell'alcol. Emblematica è la figura dell'ex-professore, talmente patetico da fungere da monito al protagonista e i suoi amici di come potrebbe essere il loro futuro; e questo è il motivo per cui Shuhei si convince a far sposare la figlia. Ma poi, come capita in Tarda Primavera, l'unica cosa che gli rimane è una triste e profonda solitudine.
Ozu a colori. Vorrei cominciare commentando proprio questo aspetto, forse non davvero fondamentale.
Sappiamo come, per molti altri grandi registi giapponesi del passato, l'approdo al colore sia stato felice, ed abbia offerto nuovi spunti e suggerito inediti veicoli espressivi. Se penso a Kurosawa, per esempio, e ai suoi cromatismi forti, incisivi, d'elevata visionarietà, in opere come "Sogni" e soprattutto "Ran"; se penso a Mizoguchi, che si riscoprì pittore raffinatissimo, e alle tinte incantevoli del suo "L’imperatrice Yang-Kwei-Fei"; se penso a "La ballata di Narayama" di Kinoshita, in cui i colori sono protagonisti al pari dei personaggi; constato come in Ozu le tinte non abbiamo aggiunto nulla; ed anzi come meglio s'adattava il bianco e nero alla pacatezza del suo cinema - e al grigiore degli ambienti, e ai suoi personaggi dimessi perché "normali", e alla sua prosa fatta d'inquadrature statiche, essenziali, rasoterra dagli angoli dei locali - allora quella al colore può apparire come un'ulteriore rinuncia. Rinuncia allo spettacolo, rinuncia al movimento, rinuncia alla felicità; e intanto conquista di un'umiltà e di un rigore senza pari.
Per il resto, è il solito grande amaro racconto alla Ozu. Una nuova pagina sui rapporti famigliari, pregna di quella rassegnazione alla quotidianità e alle leggi degli eventi che sta al centro di tutta la sua opera; all'appressarsi della vecchiaia, all'ampliarsi della solitudine, e alle difficili e mutevoli corrispondenze tra genitori e figli nella società moderna.
Bello, sempre profondamente sentimentale e sensibile, ma a mio parere non ai livelli dei suoi capolavori.