Dell’ultima edizione del festival di Roma si può tracciare un bilancio diverso a seconda dei punti di vista: qualità dei film, scelte istituzionali, organizzazione.
Dal punto di vista della qualità dei film il bilancio è largamente positivo. Ci sono piaciute, e molto, le scelte compiute da Müller in campo artistico.
Sulle scelte politiche e commerciali (in termini di visibilità, attenzione al pubblico, scelta dei componenti delle giurie, e – non da ultimo – film premiati) molte sono state le polemiche: qui il bilancio è meno roseo.
Il terzo punto di vista riguarda l’organizzazione (scelta degli spazi, prezzi, concomitanza di eventi, gestione delle sale e del pubblico). Sotto quest’ultima prospettiva, il festival è stato insoddisfacente.
Una rassegna di qualità.
Ricorderemo la settima edizione del festival di Roma come quella in cui il concorso è diventato finalmente un concorso di primo piano. Sino al 2011 gli autori erano semi-sconosciuti, i film mediamente sotto la sufficienza: invece, la selezione ufficiale del 2012 è paragonabile a un’edizione del festival di Berlino. Persino a un’edizione di Venezia, che fosse priva di quei due-tre registi di calibro che sempre sono presenti, in concorso, sul lido (insieme però a non poche pellicole scarse). La scelta, esplicita, di Roma 2012, è stata di orientarsi prevalentemente su autori giovani e opere seconde o terze di registi emergenti di riconosciuto talento. Una scelta che ci piace, così come ci piace l’intenzione di presentare tutte anteprime internazionali, affinché il festival passi, da vetrina per prodotti già in circolo, a trampolino di lancio per opere di qualità artistica. L’auspicio è che, a partire da questa edizione, autori e case di produzione guardino a Roma come a un festival in cui l'essere selezionati sia segno di prestigio.
Valérie Donzelli e Alexey Fedorchenko: due nomi di punta del cinema europeo del momento, già passati negli ultimi due anni per Cannes e Venezia, ciascuno con un film per cui si è gridato al capolavoro (rispettivamente "
La guerra è dichiarata" e “
Silent souls”). A Roma 2012 hanno presentato “
Main dans la main”, commedia raffinata di altissimo spessore (su cui si rimanda alla
recensione), e “Spose celestiali dei Mari di pianura”. Quest’ultima è una pellicola di raro valore: dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione situata negli Urali, il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo), su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini. Un film di fruizione difficile, ma di pregio altissimo.
Accanto a questi due talenti, tre autori con una brillante carriera alle spalle, nessuno dei quali ha deluso: Johnnie To, Jacques Doillon e Miike Takeshi.
Johnnie To continua imperterrito un cinema d’azione poliziesca geometrico e impietosamente asciutto. Il suo “Drug war” si segnala non solo per essere il primo film che parla di traffico di droga nella Cina contemporanea, ma anche per un’interessante commistione fra i codici del genere e uno spirito di denuncia che a tratti fa pensare a “
Gomorra”. E si chiude con un’esecuzione capitale: una scena forse eticamente discutibile (è a favore o contro la pena di morte?), ma assolutamente memorabile.
Jacques Doillon è un epigono della Nouvelle Vague, amatissimo in Francia anche se pressoché sconosciuto in Italia. Anche lui, con “Un enfant de toi”, resta fedelissimo al suo stile: fatto di dialoghi, recitazione
en plein air e capacità di restituire la vita colta in presa diretta. Il vino buono migliora con l’età.
Il regista di culto
Miike Takashi prosegue il suo percorso estremo, che attende ancora il riconoscimento che gli spetta per capacità di innovazione linguistica. “
Lessons of the evil” è un altissimo risultato e si colloca dalle parti di “
Audition” alle vette del suo cinema. Ed è colmo di sequenze irresistibili girate divinamente.
“The motel life”, opera prima dei fratelli Polsky e vincitore del premio del pubblico, è un film indipendente, in stile Sundance, che si regge su una strepitosa interpretazione di Stephen Dorff, su un immaginifico ricorso a intermezzi animati, e su un finale meraviglioso per intensità che non contraddice il minimalismo carveriano della pellicola. Il film è stato premiato anche per la sceneggiatura, tratta da un apprezzato romanzo di Willy Vlautin.
“A glimpse inside the mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis e fratello di Sofia, è molto piaciuto. Sembra la versione divertente, e francamente più riuscita, di “
Somewhere” di Sofia Coppola (che pure vinse un Leone d’oro nel 2010). Roman Coppola parla di un adolescente fuori tempo massimo, che l’abbondanza in cui è cresciuto non soddisfa più, e che una delusione d'amore spinge a un riscatto e a una vita più autentica. Coppola ha uno stile vicino a Wes Anderson, con cui ha collaborato in passato, e a tratti ricorda anche il primo Allen. Cast importante (tra gli altri, spicca il solito Bill Murray), tempi comici perfetti, ritmo e invenzioni visive. Evidentemente autobiografico e irresistibilmente autoironico, l’
alter ego del regista è il protagonista Charlie Sheen (non per caso, anche lui figlio d'arte).
Altro film di figli d’arte è “Ixjana” dei fratelli Skolimowski, forse non riuscito ma intrigante: un’ambiziosa attualizzazione del mito di Faust, con espliciti rimandi a Bulgakov, in uno stile che risente persino troppo della lezione di David Lynch.
Fin qui i film che abbiamo potuto vedere. Si è parlato un gran bene, in termini artistici, anche di “Mai morire”, opera seconda del messicano Enrique Rivero. Notevole la presenza in concorso di un costoso
kolossal storico cinese, “1942” di Feng Xiaogang, che annovera nel cast Adrien Brody e Tim Robbins. “Eterno ritorno” è un esercizio di stile – alla maniera di Raymond Queneau – di Kira Muratova, regista ucraina davvero poco nota, ma molto stimata dai pochi che hanno il privilegio di conoscerla.
“Marfa girl” di Larry Clark, premiato con il Marc’Aurelio d’oro, pare porsi in linea di assoluta coerenza con i suoi precedenti e controversi “
Kids” e “
Ken park”. Persino nel conferirgli il premio, la giuria ha voluto precisare la linearità della sua poetica, che a chi ha visto il film è parsa ostinazione o limitatezza di sguardo. Larry Clark è logorroico: ha più di qualche sassolino nella scarpa da togliersi contro Hollywood (a suon di “fuck”) e una singolare teoria sul futuro ormai esclusivamente web del cinema sulla quale siamo oltremodo scettici. Sembra piuttosto un paravento per un settantenne pieno di sé, che sinora non aveva mai avuto riconoscimenti importanti.
Abbiamo lasciato per ultimi gli italiani in concorso. “
Alì ha gli occhi azzurri” (primo lungometraggio di Claudio Giovannesi), ispirato a Pasolini e ambientato sul litorale romano, è piaciuto molto, e ha vinto ben due premi importanti: il Premio speciale della giuria e il Premio "migliore opera prima o seconda". Se ne dice un gran bene. E’ nelle sale.
Pappi Corsicato, con “Il volto di un’altra”, ennesima commedia surreale nel suo stile scombiccherato, parla stavolta di chirurgia plastica: ha riscosso pareri tiepidi, tutt’al più benevoli.
Ben altro scalpore ha suscitato l’autocompiaciuto Paolo Franchi, ennesima incarnazione della stirpe antonioniana del cinema italiano. L’autore, dopo il promettente esordio de “
La spettatrice”, aveva deluso critica e pubblico con “
Nessuna qualità agli eroi”, passato cinque anni fa in concorso al festival di Venezia. Ora torna, irredento, con un film - "E la chiamano estate" - apparso estremo nel linguaggio, nell'altezzosa osticità e nella deliberata provocatorietà di immagini e temi. Un film che, a quanto risulta, persegue sia l’intento di "trasgredire e scandalizzare" (?), sia quello di inimicarsi orgogliosamente pubblico e critica: contraddittorio? Ha vinto il Premio per la miglior regia e quello per la miglior interpretazione femminile (Isabella Ferrari). E ha scatenato un putiferio (roba da "vergogna!" urlati in mezzo ai fischi, durante la premiazione). La giuria (presieduta da Jeff Nichols, forse troppo giovane per essere autorevolmente indipendente) è stata influenzata dalla committenza (la direzione artistica)? E’ legittimo ipotizzarlo. Senz’altro, le arzigogolate motivazioni con cui i due premi sono stati assegnati sanno di giustificazione.
Excutatio non petita, accusatio manifesta.
Le scelte delle giurie sono spesso dettate da pressioni esterne: è una piaga che affligge i concorsi di ogni ordine e grado. Per Roma 2012, se non altro, gli evidenti motivi "istituzionali" dei due riconoscimenti più importanti sono stati esplicitamente rivendicati dai rispettivi autori: "Marfa girl" è anti-hollywoodiano e indipendente al 100% (sarà diffuso solo online); "E la chiamano estate" è un film prodotto "senza la televisione".
Miopia organizzativa e mancato riguardo per il pubblico.
Fuori concorso, o nelle sezioni parallele (CineMAXXI; Prospettive Italia; Alice nella città) è passato, rispetto agli anni scorsi, un numero minore di film di rilievo, e un numero davvero esiguo di film di appetibilità popolare. Poche le star all’Auditorium (tranne Sylvester Stallone protagonista del buon
action “Bullet to the head”, di Walter Hill); a parte
Placido praticamente nessun regista di richiamo per le masse.
E’ una scelta sbagliata: può andar bene in concorso, ma fuori concorso un festival che si rispetti deve avere qualche film di richiamo. E non deve limitarsi per orgoglio a film rigorosamente in anteprima. Soprattutto se si svolge in una metropoli, una capitale del cinema, con disponibilità di spazi adeguati come Roma.
Troppa austerità ha penalizzato l’immagine di un festival che veniva apprezzato, dai romani, in particolare per l’ampia proposta di incontri con autori ed attori, quest’anno drasticamente ridotta.
Incomprensibile tra l'altro la scelta del film di apertura, caduta su un'opera pure di dubbia caratura artistica: “
Aspettando il mare”, di un regista ignoto ai più e totalmente privo dell’
appeal che un film d’apertura dovrebbe possedere (vedi
recensione).
Tra i film potenzialmente interessanti delle sezioni secondarie abbiamo visto il bell’esordio di Francesco Amato con “Cosimo e Nicole”, che ha vinto la sezione Prospettive Italia, e “Il regno delle Carte”, trasposizione di un’opera teatrale di Tagore, del videoartista indiano Q. Occorre denunciare i preconcetti per cui film che parlano un linguaggio originale e innovativo, come il film indiano, debbano essere in qualche modo ghettizzati entro i limiti di una rassegna che furbescamente allude, nel nome, al cinema d'arte del XXI secolo (la sezione CineMAXXI è frutto di collaborazione fra Cinema per Roma e il MAXXI, museo romano delle "arti del XXI secolo"), e tenuti lontano dai riflettori proprio in una rassegna così attenta alla qualità artistica. I preconcetti purtroppo condizionano la percezione di ciò che è all’avanguardia, limitano la libertà di linguaggio, e orientano le “tendenze” in modo da renderne ardua la spontaneità.
Da CineMAXXI meritano una menzione anche opere sperimentali di metalinguaggio, firmate da autori come Mike Figgis (“Suspension of disbelief”) e Paul Verhoeven (“Steekspel”).
Segnaliamo la presenza (sempre in CinemaXXI...) del grande Peter Greenaway con il suo ultimo lavoro (“Goltzius and the pelican company”), dell’ultracentenario De Oliveira, presente con due corti in opere collettive (“Centro Historico” e “Mundo invisivel”, entrambe interessanti), e dell’affermata Marjane Satrapi con la divertente commedia nera “
La bande de Jotas”.
A riguardo, va denunciata la scelta, delirante – miope anche dal punto di vista commerciale – di confinare in sale assolutamente secondarie le pellicole di Greenaway e della Satrapi (entrambe di grande richiamo, per i cinefili, che sono molti più di quanti si creda): con il risultato di creare scomodissimi “tutto esaurito” e grande scontento da parte degli accreditati, rimasti esclusi dalle proiezioni perché i biglietti erano stati venduti venendo vergognosamente meno al rispetto della garanzia – assicurata su programmi e regolamenti – di un numero di posti riservati agli accreditati in tutte le proiezioni.
E, ciò, mentre pellicole evidentemente “raccomandate” andavano disertate in sale grandi come la Sinopoli (è il caso di “Photo”, pur non disprezzabile, di un esordiente portoghese)!
Incondivisibile la scelta, dettata da presumibili ragioni di bilancio, di escludere dagli spazi dedicati al festival la sala più nobile e grande dell’Auditorium, la Santa Cecilia.
Scandalosa la scelta di alzare i prezzi delle proiezioni serali a 25 e 30 euro, laddove sino allo scorso anno le proiezioni più care erano quelle della Santa Cecilia, i cui 23 euro sembravano già una cifra improponibile.
In conclusione, mentre andiamo fieri della qualità artistica del concorso, come si accennava in apertura dal punto di vista dell’attenzione al pubblico e delle scelte organizzative, il festival di Roma del 2012 merita invece una sonora bocciatura.
Ed anche quest’anno ci siamo: dal 9 al 17 novembre avrà luogo il Festival Internazionale del Film di Roma, il più amato dai Veltroni di tutta Italia.
Quest’edizione si presentava densa di rinnovamento: finalmente si è deciso di svecchiare il Festival, e quindi via Gianluigi Rondi, l’uomo bicentenario, e via Piera Detassis, più attenta all’aspetto patinato che alla sostanza delle cose! Vogliamo volti giovani per un festival giovane, gente fresca, carina e brillante, perché il cinema è anche questo, eppoi in tempi di rottamazione meglio stare al passo.
Spazio ai giovani, dicevamo: giusto quindi che a rimpiazzare Rondi sia quel giovincello di Paolo Ferrari (che era già anziano quando stalkerava giovani casalinghe a colpi di
fustini Dash) e che il posto di Direttore Artistico passi dalla Detassis a quel novellino esordiente di Marco Müller. Ora, io non lo so se questo tizio è lo stesso che quando era Direttore Artistico del Festival di Venezia diceva peste e corna del Festival di Roma perché gli pestava i piedi (magari mi confondo e invece si tratta di un centromediano del Bayern Monaco), ma a sentire le sue ultime dichiarazioni pare che si sia ricreduto e adesso il festival di Roma gli piaccia un casino.
“
Sono andato a ripetere in giro per il mondo che a Roma può nascere un Festival collocato a metà strada tra i grandi eventi di fine estate e gli appuntamenti di metà inverno. Un Festival che si apra anche al mercato e che esista senza intralciare la strada agli altri grandi eventi internazionali”.
Chissà le reazioni in giro per il mondo, quando hanno sentito ‘sta fregnaccia.
Ma dicevamo del programma del Festival. Uno dei Cavalli di battaglia di Müller, quando gli fu affidata la direzione artistica del Festival, era la sicura presenza di
Tarantino e del suo “
Django unchained”. Ovviamente la sua assenza dal programma del Festival ha quindi deluso molto: vuoi vedere che niente niente quella di Müller era la classica sparata a effetto per accalappiare sponsor?
“
In qualche modo Django calcherà il palco dell'Auditorium”, ha dichiarato Müller. “
Tarantino sta organizzando una cosa fantastica. Lo saprete tra dieci giorni”. Mhm, anche questa mi puzza. Io il dialogo Müller-Tarantino me lo immagino così:
“Pronto Quentin, sono Marco!”*
“Marco chi?”
“Marco Müller!”
“Il centromediano?”
“No, quello è mio cugino. Io sono il Direttore Artistico del Festival Internazionale del Film di Roma, e vengo qui ad offrirti l’opportunità di presentarci in anteprima mondiale “Django unchained”!”
“Eli, se è un altro dei tuoi scherzi del cazzo guarda che non è aria, mi stavo ammazzando di risate con “
W la foca” e m’hai interrotto. Ah, a proposito, nel prossimo film ci piazziamo un tricheco”.
“No Quentin, non sono Eli Roth, sono proprio Marco Müller ed io ero serio…Cioè, no, scherzavo, non pretendo proprio proprio che tu presenti a Roma il tuo ultimo film in anteprima, basterebbe anche solo che tu ce lo facessi proiettare…Anche solo il trailer…Insomma un pezzettino…”
“Ma voi non siete quelli che ogni anno proiettano un’anteprima del nuovo film di “
Twilight”?
“Ehm, sì.”
“No.”
“Quentin ti prego, in nome della nostra lunga amicizia, io ‘sta cosa già me la so’ venduta, e poi guarda che io sono mezzo tedesco ma non me la sono mica presa per “
Bastardi senza gloria”, eddai, fammi ‘sto favore!”
“Senti, se ti levi dalle palle in fretta ti mando un cartonato ed una locandina autografata da Franco Nero”.
“Oh grazie sei gentilissimo come al solito!!! Sei sempre un mito per me, pensa che io c’ho la suoneria del cellulare col fischiettio di
Kill Bill! Ciao eh, grandissimo! Grandissimo!”
“Ciao, sì, ciao”.
Ah, dimenticavo. Müller ha avuto un’altra grandissima pensata: da quest’anno in concorso a Roma solo anteprime internazionali. Ora, magari Al Bano si rifiuta di portare a Sanremo un pezzo inedito e secondo Müller
Spielberg o Tarantino dovrebbero portare ad un Festival periferico, nuovo e di rilevanza internazionale pari a zero il loro nuovo film in anteprima internazionale? Ovviamente no. Ed ecco infatti che il programma del Festival è prevalentemente popolato da film di autori sconosciuti o dati per scomparsi, che il film di apertura sia affidato a Bakhtyar Khudojnazarov, autore del pur pregevole “
Luna Papa” datato 1999, e quello di chiusura al regista catalano
Cesc Gay, il cui film più noto è il mediocre “
Krampack”.
Certo qualche motivo d’interesse non manca (ma su 59 film sarebbe abominevole il contrario): ad incuriosire sono soprattutto il ritorno di
Walter Hill con “Bullet to the head”, con
Sylvester Stallone,
Jason Momoa e
Christian Slater, “The Gang of the Jotas”, di Marjane Satrapi (già autrice dell’incantevole
Persepolis) e l’ultimo film di
Takashi Miike (in concorso), “Lesson of the evil”. Poi vabbe’, c’è un film di Roman Coppola, c’è il nuovo
Michele Placido che s’è già beccato bordate di fischi a Taormina, c’è
Larry Clark e c’è
Pappi Corsicato, cui incomprensibilmente qualcuno continua a dare soldi per girare film dopo quella vaccata inguardabile de “
Il seme della discordia”.
Ora, magari mi sbaglio, magari il coraggio di Müller sarà premiato e da questo Festival usciranno fior fior di capolavori che faranno la fortuna del cinema italiano ed internazionale: è possibile, e spero francamente di ricredermi. Però poi se la cosa migliore del Festival rimarrà il cartonato di Tarantino non prendetevela con me: io vi avevo avvisato.