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Pubblicato il 22/05/2013 10:12:14 da
peucezia1998: sulla rete ammiraglia della RAI per la prima volta appare "Un medico in famiglia", simpatica fiction sulle avventure in chiave leggera di un medico quarantenne vedovo, dei suoi tre figli di fasce varie di età, del padre anziano ma agguerrito come tutti i "vecchi moderni" e di un corollario di personaggi comprimari tra cui la colf tuttofare.
Da allora, a parte qualche pausa che ci ha fatto incautamente pensare alla fine della serie, la fiction ha continuato a imperversare sulla rete tracimando in una versione comedy di soap operas alla Beautiful per il numero infinito di intrighi, matrimoni, divorzi e figli che si sono moltiplicati nel corso degli anni.
Il prodotto è accattivante perché mette insieme contemporaneamente tante fasce di età, secondo una prassi consolidata anche nella nostra cinematografia, in più ha un livello recitativo sicuramente più alto e realistico rispetto ad altre fiction che RAI e MEDIASET offrono assiduamente all'utenza (complici anche attori di scuola come Banfi, la Vukotich o lo stesso Scarpati), ma la sua riproduzione infinita comincia a diventare morbosa.
Pensiamo a quanti, di età inferiore o pari alla nascita della serie, non possono conoscere, per limiti anagrafici ovvi, i primordi della storia se non grazie alle repliche generosamente offerte anche su RAI PREMIUM.
Non credendo nell'infinito e nell'eterno si auspica una conclusione della produzione proprio quando il suo successo è ancora attivo, viceversa si propongano iniziative tipo "Boycott Medico in famiglia" o "Free Annuccia" (la povera bambina ormai maggiorenne praticamente sdoppiata tra vita reale e quella parallela della fiction).
E i fans capiranno, soprattutto quelli della prima ora: meglio che finisca la serie piuttosto che i suoi interpreti, vedasi il povero Larry Hagman ritornato a Dallas vent'anni dopo..
Pubblicato il 08/05/2013 11:03:49 da
peuceziaCome accade periodicamente dall'ormai lontanissimo 1998 il commissario Montalbano, nato dalla feconda penna di Andrea Camilleri, autore vetusto ma mai domo, fa irruzione sul piccolo schermo e fa incetta di ascolti e consensi.
Le ragioni di tanto successo sono senza dubbio molteplici: la bravura degli interpreti che ormai da più di tre lustri indossano i panni dei vari personaggi, i simpatici comprimari scelti in casting locali e tutti altrettanto validi e pittoreschi, il setting accattivante, la colonna sonora calzante, gli intrecci appassionanti.
Un unico neo però offusca le innumerevoli note positive: il sessismo soffocante e ottuso che dal 1998 continua ad abbattersi implacabile su tutte le donne che si confrontano con il commissario e con gli altri personaggi.
Camilleri non nutre grande simpatia verso il "gentil sesso" per essere così impietosamente critico nei suoi confronti anche se, per essere equi, non è che veda di buon occhio neanche i maschietti...
Genericamente le varie protagoniste che soprattutto nelle ultime serie dominano la puntata settimanale, tendono ad esprimere quasi immediatamente una simpatia un po' troppo eccessiva nei confronti dell'intrepido Salvo. Egli se nel primo decennio era abbastanza serio e fedele verso la fidanzata Livia (donna tra l'altro un po' ambigua in quanto più legata al suo lavoro, ai suoi amici e al suo luogo d'origine tanto da non provare nemmeno per un attimo a pensare che gli anni passano e che sarebbe opportuno interrompere le reciproche solitudini e accorciare le chilometriche distanze) da una decina d'anni a questa parte appare alquanto incline alla scappatella con donne di ogni ceto ed età.
Oltre alla categoria della cosiddetta "fimmina vastasa" Camilleri introduce la donna popolana non bella, di cultura bassa e decisamente comica anche se spesso utile alle indagini perché incline a rivelazioni di ogni tipo. Poi c'è la categoria della brava moglie solitamente abbigliata e pettinata stile anni Cinquanta, vive in case d'epoca e se ne sta al posto suo. Altre donne "al di sopra di ogni sospetto" sono le insegnanti, per le quali Camilleri nutre una sorta di venerazione essendo colte, serie e in genere in pensione quindi con abiti e atteggiamenti rigorosamente d'antan.
Lo spettatore medio ingoia tutto perché assorbito dalla trama, ma c'è da dire che nonostante la programmazione su Raiuno riesca a rendere il tutto sempre molto adatto alla presenza dei minori, il fatto che spesso si vada a parare sempre su un argomento riporta Camilleri alla stregua del pruriginoso Brancati.
Ci si attende quindi una protagonista meno incline alle avventure con il commissario o un qualsivoglia masculo della serie e più inserita nella vita moderna, sia come abbigliamento che come modo di rapportarsi, o altrimenti il Montalbano continuerà a rimanere attraente ma rassegnato a restare aleatoriamente nel mondo di quella finzione che non è nemmeno più verosimiglianza ma solo mondo di caratteri.
Allora, la prenderò un po' alla larga, spero mi perdonerete per questo. È che non è semplice introdurre l'argomento, e quindi credo sia buona cosa partire dalle basi: "Friends". "Friends" ha segnato il punto di svolta nelle sit-com americane, diventando il modello cui tendere di lì in avanti, grazie al suo immenso successo: se prima il modello era quello della famiglia burlona alla "I Robinson" & simili, da "Friends" in poi il modello è stato quello del gruppo di amici costretti a convivere tra alti e bassi, intrecci sentimentali e situazioni più o meno verosimili. La comicità passava da lieve e rassicurante a tagliente e spesso politically uncorrect, rivolta ad un pubblico più giovane.
Il cambiamento fu epocale: le sit-com "familiari" praticamente sparirono dalla circolazione, ed il fantasma del confronto con "Friends" ha sempre pesato su tutte le produzioni "giovanili" successive. Non sono comunque mancati gli esempi di successo: su tutti, i più celebri sono "How I met your mother" (il più simile concettualmente a "Friends", sia come impostazione che come modello di comicità) ed il geniale "The Big Bang Theory".
Tutto questo per dire che con esempi simili la concorrenza è agguerritissima, e produrre roba nuova e di qualità diventa una sfida sempre più difficile; eppure, eppure, c'è ancora chi riesce a stupire, chi ha qualcosa da dire e sa come dirla. C'è "New Girl".
"New Girl" racconta la storia di Jess (Zooey Deschanel), una maestra che, dopo essersi lasciata con il proprio ragazzo, va a vivere in un appartamento assieme ad altri tre ragazzi: Nick, un barista buono ma brontolone, Winston, un ex cestista di ritorno dal campionato lettone, e Schmidt, un (presunto) playboy assatanato di cui non si saprà mai il nome: per tutti lui è semplicemente Schmidt. In questo quadretto si inserisce CeCe, una modella di origini indiane molto amica di Jess che scombussola gli ormoni di Schmidt.
Ora, messa così non sembra niente di innovativo, l'impostazione è sempre quella classica di "Friends". Eppure la serie è scritta divinamente, battute e dialoghi velocissimi che non puntano ad una comicità forte ed immediata fatta di battute taglienti (come in "The Big Bang Theory") quanto più a situazioni comiche nascenti dal complesso dei comportamenti e delle caratterizzazioni (eccellenti) dei personaggi. Il sapore complessivo è quello di una commedia lieve e di qualità eccelsa, più che di una serie comica in senso stretto.
Grazie ad una sceneggiatura virtualmente perfetta, "New Girl" punta moltissimo sull'immedesimazione dello spettatore, e lo fa con un realismo assente sia in "How I met your mother" che in "The Big Bang Theory". Non dovendo necessariamente puntare tutto sulla comicità, "New Girl" non presenta alcuna forzatura; i personaggi sono credibili, e facilitano l'immedesimazione più di quanto non fosse possibile con un archeologo infantile divorziato da una moglie lesbica o con un fisico con la sindrome di Asperger patito di Star Treck e di trenini. Insomma, con "New Girl" non si guarda semplicemente una sit-com comica, ma un divertente spaccato di vita con dei protagonisti giovani, carini e (più o meno) disoccupati. E l'assenza di risate preregistrate aiuta il senso di realismo complessivo.
Ma il punto di forza vero di tutta la serie è la deliziosa
Zooey Deschanel, attrice poco sfruttata al cinema nonostante l'exploit di "
(500) giorni insieme" (ma forse su di lei ha pesato il tremendo "
E venne il giorno" dell'impronunciabile regista de "
Il sesto senso", in cui era tremendamente fuori ruolo). La Deschanel è semplicemente adorabile come Jess, probabilmente il miglior personaggio femminile di una sit-com che io ricordi, non teme rivali con nessuno. Jess è una ragazza goffa e stralunata, carina senza esserne consapevole, un po' maschiaccio e sempre tra le nuvole, dolce e spensierata. E con la sua mimica ed i suoi occhioni luccicanti la deschanel riesce a rendere ogni minima sfumatura del suo personaggio, caricandosi sulle spalle tutte le inquadrature: veramente straordinaria.
Insomma, fatevi un favore e guardatevelo: ne sono state prodotte due stagioni, ed è in programma la terza. Però guardatelo in lingua originale: la vocina della Deschanel e la rapidità delle battute si perderebbero nel doppiaggio, che peraltro è spesso di pessima qualità nelle serie USA: si pensi allo scandalo del doppiaggio di "The Big Bang Theory".
Insomma, vedetevelo. E se lo vedete e non vi piace siete delle brutte persone.
Interessante, “
House of Cards”, non solo per il prodotto in sé ma anche per la scelta da parte di Netflix – società statunitense che da qualche anno propone un servizio streaming dietro abbonamento – di lanciare un prodotto seriale senza costringere lo spettatore ad attendere i tempi di programmazione. Sì, strano a dirsi, la Netflix ha pubblicato in rete l'intera prima stagione di
HoC in una sola volta. Molti saranno entusiasti di questa scelta, io personalmente ne farei l'ottava meraviglia del creato. Da appassionato di serie televisive ho sempre odiato e ritenuto davvero troppo riduttiva la programmazione settimanale. Non aiuta a godere del prodotto completo, si guardano circa 40 minuti ogni settimana, ossia il tempo di entrare all'interno di quanto raccontato che già ci si trova ad uscirne e a dover aspettare altri sette giorni. Non è un caso che abbia sempre optato per l'attesa della fine della stagione, e per la visione della stessa solo successivamente, secondo tempi scelti unicamente da me.
Si potrebbe pensare, abituati alla normale programmazione, che una scelta simile nasconda un prodotto magari non in grado di competere con i grandi. Non si butta lì una gallina dalle uova d'oro come se niente fosse. E in realtà, invece, è proprio così, perché
HoC si rivela già dopo la prima puntata un prodotto che non solo ai grandi non ha nulla da invidiare, ma che è capace di farne vacillare più d'uno.
La narrazione segue le vicende di un classico politico senza scrupoli, Frank Underwood. Si è costruito giorno dopo giorno il suo posto al fianco del presidente degli Stati Uniti neoeletto, sì da ottenere l'ambito posto di Segretario di Stato. Dopo la vittoria gli viene comunicato che si è scelto di dare quella poltrona ad un'altra persona, e questo ad Underwood non piacerà affatto, né tanto meno ci passerà su come se nulla fosse. Lo si legge in una maniera alquanto chiara nello sguardo di
Kevin Spacey
, che smette per l'occasione di essere Kevin Spacey e diviene Underwood. Chiariamo immediatamente, infatti, che la sua prova è straordinaria. Certo, la bravura dell'attore è nota, ma ciò non vieta di meravigliarsene ogni volta. Il personaggio è suo dopo poco più di 60 secondi, ossia quando rivolgendosi allo spettatore dice: “
I have no patience for useless things”. Già,
HoC tra le altre cose si distingue anche per le esternazioni che il protagonista rivolge a chi guarda (senza che vi sia alcun cambiamento nell'ambientazione), spesso spiegando in maniera tagliente cosa sta accadendo, cosa accadrà e perché. E diciamocelo francamente, in un intreccio politico non del tutto semplice, e anche abbastanza veloce, serve abbastanza, altro che critiche sulle varie forme di spiegone. Qui è decisamente utile. E poi Spacey, enorme, lo fa in modo magnetico, quindi va benissimo così.
Altro nome interessante: Beau Willimon. Co-sceneggiatore de “Le Idi di Marzo”, anch'esso un thriller politico, è colui che si è occupato di concretizzare l'intenzione della Netflix di proporre questo rifacimento della serie originale. Dà al prodotto lo stesso volto del film diretto da
Clooney, quell'espressione disillusa, quella fotografia livida e quel portamento assai elegante. Se nel caso de “
Le idi di Marzo”, tuttavia, qualcosa nella sceneggiatura zoppicava, qui invece la velocità di crociera si assesta su valori ben più alti, senza intenzione alcuna di discostarsene, se non verso l'alto. Ancora:
David Fincher. Produttore esecutivo, tra gli altri, e regista dei primi due episodi. Ora, basta tenere a mente cosa ha combinato in “
The Social Network”, rendendo una storia che minacciava le palle a km di distanza, una storia al contrario quanto mai scorrevole e dal ritmo insospettabile. Qui propone grosso modo la stessa regia, dettando tempi e modi ai quali si adatterà la regia degli episodi successivi. Chiara, supportata da un montaggio fluido, veloce quanto basta, pulita e concentrata sui personaggi, sì da non farsi sfuggire espressione alcuna. Del resto sono loro la serie, in questo caso più che in altri; loro e il loro pantano di dinamiche melmose e maleodoranti, ma vestite di tutto punto.
Tra modi attenti, immagine curata e fascino di facciata, infatti, si nascondono ragnatele intessute in maniera non semplicemente cinica, ma spregevole, solo apparentemente magnetica ma realmente nauseante, illuminate da una luce fredda minacciata solo a tratti da sorgenti calde in grado di resistere giusto il tempo di spegnersi sotto i colpi del gelo circostante. Massima espressione di ciò è il rapporto tra Frank e sua moglie, che non a causa mostra a tratti segni di cedimento più o meno contenuto, conseguenza di un malessere che minaccia di esplodere alla minima crepa, serpeggiando tra gli innumerevoli e spesso velenosi scambi. Colonne portanti, quest'ultimi, di dialoghi onnipresenti, attributo principale dell'intero prodotto. Ad essi il compito, anche, di calpestare ogni aspetto umano che cerca di farsi strada durante il racconto, seppur, è ovvio, non riusciranno a farlo a lungo. Non è possibile nella vita reale, né qui. Ed è questo che suggerirà la direzione da seguire alla seconda stagione.
La Netflix si presenta quindi in grande stile, con un prodotto che come si scriveva poc'anzi non ha nulla da invidiare a nessuno – salvo forse qualche caduta di stile, piccola ma evidente se confrontata con la gestione impeccabile di tutto il resto. Mostra inoltre, la Netflix, gusto ulteriore ufficializzando l'intenzione di sviluppare, dopo 7 anni, una quarta stagione di “
Arrested Development”, sit-com inspiegabilmente sottovalutata. Ed è anche il caso a questo punto di tener d'occhio la nuova serie televisiva che proporrà ad Aprile, “
Hemlock Grove”, horror/thriller con
Eli Roth come produttore esecutivo.
"Banshee", secondo la mitologia irlandese e scozzese, è uno spirito femminile che si palesa agli occhi di colui/colei che da essa viene toccato. I suoi occhi sono sempre arrossati dal pianto, si dice, e la sua apparizione è accompagnata da urla e lamenti. La persona che è stata toccata, infatti, è destinata a morire di lì a breve.
"Banshee", è anche il titolo della nuova serie HBO. "Banshee", nello specifico, è il nome della cittadina che ospita un intreccio invero molto adatto ad una scelta simile. E' la storia di uno dei migliori ladri in circolazione, Lucas Hood, che dopo essere stato in galera per 15 anni, decide di sistemarsi nella cittadina di cui sopra, spacciandosi per il nuovo sceriffo. La cittadina, ovvio, non è propriamente pulita, ed è anzi governata ufficiosamente da Kai Proctor, gangster psicotico non abituato a non avere qualcosa sotto controllo. Se si considera, poi, che il passato di Hood non si è certo dimenticato di lui, si capisce bene che il nome dato e alla serie e alla cittadina sia quanto meno indicato. Ed effettivamente dopo appena qualche puntata, ma diciamo anche dopo i primi minuti della prima, se ne ha chiara conferma.
Il pilota si apre con un brano che definire sporco sarebbe un eufemismo. “
Fifth of Whiskey” di Verse and Bishop traccia fin da subito le linee guida di un'atmosfera assai rarefatta, tratto principale della serie. Un'atmosfera, per certi versi, anche esasperata, così come alcune scelte di sceneggiatura, che potrebbero in verità far storcere il naso. Un eccesso che però, parere di scrive, può farsi rientrare tranquillamente in quell'aria quasi fumettosa, come suggerisce anche la locandina, capace di imporsi fin dall'inizio. Spesso, infatti, la serie sembra spingere verso espressioni che potrebbero tranquillamente definirsi pulp, con quel suo non evitare ma anzi cercare una violenza anche spettacolare (nel senso proprio del termine), quel non disdegnare affatto l'aspetto sessuale, non centellinandone assolutamente la presenza, e con quell'atteggiamento generale chiaramente autocompiaciuto. Non è un caso che l'intreccio sia popolato di hacker drag-queen a cui sembrerebbe il caso di non dare troppe rogne, di gangster ben al di là di quella che si definirebbe sanità mentale, di scopate occasionali che non ci si preoccupa troppo di non far sembrare messe lì giusto perché in quel momento un paio di tette sballottate qua e là ci stavano bene (con il montaggio che sembra preoccuparsene anche meno), di un protagonista che non sembra farsi troppi problemi a rispondere alla violenza con un livello di violenza ancora maggiore. La terza puntata, a tal proposito, riserva nella parte finale parentesi meravigliose, che scoprono definitivamente il volto del prodotto e dichiarano senza troppe storie che quanto visto fino a quel momento non era solo un modo per aprire col botto ma il preludio, al contrario, alla reale violenza che sarebbe venuta (e che verrà, si spera) in seguito.
Il ritmo, lo si intuisce facilmente, è quanto meno elevato. Non che non ci si preoccupi di approfondire in maniera particolare i personaggi, è solo che l'introspezione è misurata al fine di non intralciare mai troppo l'aspetto più pulp del racconto. Non sia mai che qualche discorso di troppo sull'aspetto umano dei personaggi precluda allo spettatore la possibilità di vedere discrete quantità di sangue e cazzotti. Non sarebbe carino, in effetti. E se Alan Ball non l'ha fatto in “True Blood”, giustamente, non v'è motivo per cui dovrebbe proporlo al contrario in questo caso. Sì, perché Alan Ball è tra i produttori esecutivi della serie, creata invece da due volti abbastanza nuovi nell'ambiente, Jonathan Tropper e David Schickler.
Anche i dialoghi, che potrebbero facilmente scadere in ogni sorta di banalità con un simile soggetto ed un simile sviluppo, tengono bene il passo. Non eccezionali, ma forse neanche necessitano di esserlo, dovendo semplicemente restare fedeli a personaggi che, come si scriveva poc'anzi, non possono vantare chissà quale spessore. L'importante è che non siano un ammasso di frasette idiote anelanti all'essere d'effetto. E fortunatamente non lo sono. Tutt'al più lo sono il giusto.
Quanto appena scritto peraltro, con i dovuti adattamenti, è quanto si potrebbe scrivere delle interpretazioni (grazie a Dio di attori quasi sconosciuti), in particolar modo di quella di Antony Starr, nella parte del protagonista.
Ulteriore prodotto per cervelli spenti, quindi. Ha tutti gli elementi perché continui su livelli assai discreti, benché ne abbia altri, per ora pochi e veniali, come l'inizio del quarto episodio, l'ultimo andato in onda, che laddove dovessero prendere il sopravvento rischierebbero di buttare un po' tutto alle ortiche. E viste le premesse sarebbe davvero un peccato ancor prima che uno spreco, considerato anche il fatto che è già stata ordinata, dopo appena tre episodi, una seconda stagione.
Date un'occhiata al trailer qui sopra, se non altro per ascoltare la fantastica “
F.E.A.R.” dei Various Cruelties, e laddove dovesse convincervi, nel guardare le puntate ricordatevi di aspettare la fine dei titoli di coda.