1998: sulla rete ammiraglia della RAI per la prima volta appare "Un medico in famiglia", simpatica fiction sulle avventure in chiave leggera di un medico quarantenne vedovo, dei suoi tre figli di fasce varie di età, del padre anziano ma agguerrito come tutti i "vecchi moderni" e di un corollario di personaggi comprimari tra cui la colf tuttofare.
Da allora, a parte qualche pausa che ci ha fatto incautamente pensare alla fine della serie, la fiction ha continuato a imperversare sulla rete tracimando in una versione comedy di soap operas alla Beautiful per il numero infinito di intrighi, matrimoni, divorzi e figli che si sono moltiplicati nel corso degli anni.
Il prodotto è accattivante perché mette insieme contemporaneamente tante fasce di età, secondo una prassi consolidata anche nella nostra cinematografia, in più ha un livello recitativo sicuramente più alto e realistico rispetto ad altre fiction che RAI e MEDIASET offrono assiduamente all'utenza (complici anche attori di scuola come Banfi, la Vukotich o lo stesso Scarpati), ma la sua riproduzione infinita comincia a diventare morbosa.
Pensiamo a quanti, di età inferiore o pari alla nascita della serie, non possono conoscere, per limiti anagrafici ovvi, i primordi della storia se non grazie alle repliche generosamente offerte anche su RAI PREMIUM.
Non credendo nell'infinito e nell'eterno si auspica una conclusione della produzione proprio quando il suo successo è ancora attivo, viceversa si propongano iniziative tipo "Boycott Medico in famiglia" o "Free Annuccia" (la povera bambina ormai maggiorenne praticamente sdoppiata tra vita reale e quella parallela della fiction).
E i fans capiranno, soprattutto quelli della prima ora: meglio che finisca la serie piuttosto che i suoi interpreti, vedasi il povero Larry Hagman ritornato a Dallas vent'anni dopo..
Come accade periodicamente dall'ormai lontanissimo 1998 il commissario Montalbano, nato dalla feconda penna di Andrea Camilleri, autore vetusto ma mai domo, fa irruzione sul piccolo schermo e fa incetta di ascolti e consensi.
Le ragioni di tanto successo sono senza dubbio molteplici: la bravura degli interpreti che ormai da più di tre lustri indossano i panni dei vari personaggi, i simpatici comprimari scelti in casting locali e tutti altrettanto validi e pittoreschi, il setting accattivante, la colonna sonora calzante, gli intrecci appassionanti.
Un unico neo però offusca le innumerevoli note positive: il sessismo soffocante e ottuso che dal 1998 continua ad abbattersi implacabile su tutte le donne che si confrontano con il commissario e con gli altri personaggi.
Camilleri non nutre grande simpatia verso il "gentil sesso" per essere così impietosamente critico nei suoi confronti anche se, per essere equi, non è che veda di buon occhio neanche i maschietti...
Genericamente le varie protagoniste che soprattutto nelle ultime serie dominano la puntata settimanale, tendono ad esprimere quasi immediatamente una simpatia un po' troppo eccessiva nei confronti dell'intrepido Salvo. Egli se nel primo decennio era abbastanza serio e fedele verso la fidanzata Livia (donna tra l'altro un po' ambigua in quanto più legata al suo lavoro, ai suoi amici e al suo luogo d'origine tanto da non provare nemmeno per un attimo a pensare che gli anni passano e che sarebbe opportuno interrompere le reciproche solitudini e accorciare le chilometriche distanze) da una decina d'anni a questa parte appare alquanto incline alla scappatella con donne di ogni ceto ed età.
Oltre alla categoria della cosiddetta "fimmina vastasa" Camilleri introduce la donna popolana non bella, di cultura bassa e decisamente comica anche se spesso utile alle indagini perché incline a rivelazioni di ogni tipo. Poi c'è la categoria della brava moglie solitamente abbigliata e pettinata stile anni Cinquanta, vive in case d'epoca e se ne sta al posto suo. Altre donne "al di sopra di ogni sospetto" sono le insegnanti, per le quali Camilleri nutre una sorta di venerazione essendo colte, serie e in genere in pensione quindi con abiti e atteggiamenti rigorosamente d'antan.
Lo spettatore medio ingoia tutto perché assorbito dalla trama, ma c'è da dire che nonostante la programmazione su Raiuno riesca a rendere il tutto sempre molto adatto alla presenza dei minori, il fatto che spesso si vada a parare sempre su un argomento riporta Camilleri alla stregua del pruriginoso Brancati.
Ci si attende quindi una protagonista meno incline alle avventure con il commissario o un qualsivoglia masculo della serie e più inserita nella vita moderna, sia come abbigliamento che come modo di rapportarsi, o altrimenti il Montalbano continuerà a rimanere attraente ma rassegnato a restare aleatoriamente nel mondo di quella finzione che non è nemmeno più verosimiglianza ma solo mondo di caratteri.
Allora, la prenderò un po' alla larga, spero mi perdonerete per questo. È che non è semplice introdurre l'argomento, e quindi credo sia buona cosa partire dalle basi: "Friends". "Friends" ha segnato il punto di svolta nelle sit-com americane, diventando il modello cui tendere di lì in avanti, grazie al suo immenso successo: se prima il modello era quello della famiglia burlona alla "I Robinson" & simili, da "Friends" in poi il modello è stato quello del gruppo di amici costretti a convivere tra alti e bassi, intrecci sentimentali e situazioni più o meno verosimili. La comicità passava da lieve e rassicurante a tagliente e spesso politically uncorrect, rivolta ad un pubblico più giovane.
Il cambiamento fu epocale: le sit-com "familiari" praticamente sparirono dalla circolazione, ed il fantasma del confronto con "Friends" ha sempre pesato su tutte le produzioni "giovanili" successive. Non sono comunque mancati gli esempi di successo: su tutti, i più celebri sono "How I met your mother" (il più simile concettualmente a "Friends", sia come impostazione che come modello di comicità) ed il geniale "The Big Bang Theory".
Tutto questo per dire che con esempi simili la concorrenza è agguerritissima, e produrre roba nuova e di qualità diventa una sfida sempre più difficile; eppure, eppure, c'è ancora chi riesce a stupire, chi ha qualcosa da dire e sa come dirla. C'è "New Girl".
"New Girl" racconta la storia di Jess (Zooey Deschanel), una maestra che, dopo essersi lasciata con il proprio ragazzo, va a vivere in un appartamento assieme ad altri tre ragazzi: Nick, un barista buono ma brontolone, Winston, un ex cestista di ritorno dal campionato lettone, e Schmidt, un (presunto) playboy assatanato di cui non si saprà mai il nome: per tutti lui è semplicemente Schmidt. In questo quadretto si inserisce CeCe, una modella di origini indiane molto amica di Jess che scombussola gli ormoni di Schmidt.
Ora, messa così non sembra niente di innovativo, l'impostazione è sempre quella classica di "Friends". Eppure la serie è scritta divinamente, battute e dialoghi velocissimi che non puntano ad una comicità forte ed immediata fatta di battute taglienti (come in "The Big Bang Theory") quanto più a situazioni comiche nascenti dal complesso dei comportamenti e delle caratterizzazioni (eccellenti) dei personaggi. Il sapore complessivo è quello di una commedia lieve e di qualità eccelsa, più che di una serie comica in senso stretto.
Grazie ad una sceneggiatura virtualmente perfetta, "New Girl" punta moltissimo sull'immedesimazione dello spettatore, e lo fa con un realismo assente sia in "How I met your mother" che in "The Big Bang Theory". Non dovendo necessariamente puntare tutto sulla comicità, "New Girl" non presenta alcuna forzatura; i personaggi sono credibili, e facilitano l'immedesimazione più di quanto non fosse possibile con un archeologo infantile divorziato da una moglie lesbica o con un fisico con la sindrome di Asperger patito di Star Treck e di trenini. Insomma, con "New Girl" non si guarda semplicemente una sit-com comica, ma un divertente spaccato di vita con dei protagonisti giovani, carini e (più o meno) disoccupati. E l'assenza di risate preregistrate aiuta il senso di realismo complessivo.
Ma il punto di forza vero di tutta la serie è la deliziosa Zooey Deschanel, attrice poco sfruttata al cinema nonostante l'exploit di "(500) giorni insieme" (ma forse su di lei ha pesato il tremendo "E venne il giorno" dell'impronunciabile regista de "Il sesto senso", in cui era tremendamente fuori ruolo). La Deschanel è semplicemente adorabile come Jess, probabilmente il miglior personaggio femminile di una sit-com che io ricordi, non teme rivali con nessuno. Jess è una ragazza goffa e stralunata, carina senza esserne consapevole, un po' maschiaccio e sempre tra le nuvole, dolce e spensierata. E con la sua mimica ed i suoi occhioni luccicanti la deschanel riesce a rendere ogni minima sfumatura del suo personaggio, caricandosi sulle spalle tutte le inquadrature: veramente straordinaria.
Insomma, fatevi un favore e guardatevelo: ne sono state prodotte due stagioni, ed è in programma la terza. Però guardatelo in lingua originale: la vocina della Deschanel e la rapidità delle battute si perderebbero nel doppiaggio, che peraltro è spesso di pessima qualità nelle serie USA: si pensi allo scandalo del doppiaggio di "The Big Bang Theory".
Insomma, vedetevelo. E se lo vedete e non vi piace siete delle brutte persone.
Ed anche la sesta stagione di “Californication” è andata. I soliti 12 episodi da poco meno di mezz'ora ciascuno che lasciano sempre quel sapore amaro del troppo poco. Ogni stagione va via come niente, con una leggerezza tale che si potrebbe tranquillamente vedersela d'un fiato. Ammetto di averla criticata all'inizio, con un fare anche po' idiota, per un protagonista che al netto del contesto generale appare poco credibile e troppo costruito. Peccato però che tutto il resto, il contesto appunto, sia esattamente identico, puntando su un'esagerazione continua che non si preoccupa mai di rendersi credibile. E, anzi, se sto spendendo queste due righe è proprio per quel carattere fuori di testa che non viene mai meno, e non nell'arco di un'intera stagione ma anche nell'arco della singola puntata. Non è un capolavoro, o una roba che verrà ricordata, né vuole esserlo, tuttavia gli sceneggiatori meritano più di qualche elogio per la capacità di scrivere situazioni sempre allucinanti e provocatorie, proporre dialoghi serrati e ricercati ma sempre indecenti, dare un ritmo alla narrazione che non conosce mai momenti di stanca. Certo, al ritmo contribuiscono fortemente, come è giusto che sia, anche regia e montaggio, di stampo chiaramente videoclipparo, ed hanno quindi i loro meriti, ma ciò che merita più di quanto possa sembrare resta l'inventiva nella scrittura del prodotto. Potrebbe infatti apparire semplice o comunque non meritevole quanto realmente è, perdendosi nel tutto durante la visione e dando per scontata la realtà un po' fuori dagli schemi, tuttavia a mente fredda non si può fare a meno di riflettere sul fatto che ogni singolo personaggio, ogni singola parentesi, ogni singola dinamica è per l'appunto fuori di testa, ma mai esagerata fino ad apparire banale o forzata. Giusto il tempo di abituarsi un attimo alla dimensione proposta, che scorre tutto via così, come se fosse normale. Ideatore della serie e principale sceneggiatore è Tom Kapinos, che ha lavorato incredibilmente come produttore esecutivo e sceneggiatore di “Dawson's Creek”, cosa che se per certi versi, considerata la quantità di indecenza, sesso, droghe ed esagerazioni varie in “Californication”, sembra quanto meno strana, per altri appare giustificata dagli anni di clausura e correttezza adolescenziale nella quale Kapinos sarà stato costretto per anni, dietro i pianti di Dawson sul pontile (e diciamocelo, pure dei nostri)
Bravissimi gli attori, ottime le musiche, funzionali come si scriveva regia e montaggio, ma non ho sinceramente alcuna voglia di parlare di questi aspetti, volevo scrivere giusto queste due stronzate per complimentarmi con l'ideatore della serie e gli sceneggiatori che gli girano attorno. Speriamo duri il più possibile, riesce ad alleggerire 30 minuti della tua giornata come pochi prodotti sanno fare.
Innanzitutto un trailer (spiacente, ma è solo in nippo senza sub):
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è "Si vedrà mai questo miniserial in Italia?". Alquanto improbabile a meno di miracoli dell'ultima ora causati da improvviso impazzimento di qualche canale digitale che di punto in bianco vuole rischiare con un prodotto simile. Qui non siamo di fronte a personaggi famosi come Lynch (Twin Peaks) o Von Trier (The Kingdom), che solo con il loro nome unito alla qualità del prodotto possono garantire il cosidetto "rientro" da tale investimento.
Kyoshi Kurosawa non è certo un esimio sconosciuto, ma se usciamo dall'ambito prettamente cinefilo e in fondo neanche da quello, se si conosce poco o nulla del cinema orientale, ci troviamo un lavoro che avrà una distribuzione pressoché nulla a livello televisivo.
Di cinema non se ne parla proprio, considerata la durata considerevole di quattro ore e mezza (cinque ore circa quella televisiva) e decisamente anticommerciale a livello distributivo. Rischiare per un prodotto con una durata simile e spettacoli giornalieri ovviamente molto limitati, perdipiù per una pellicola orientale, è impensabile.
In vita mia ho imparato che non bisogna mai stupirsi di nulla, quindi sarei piacevolmente sorpreso se un distributore rischiasse i propri soldi per Shokuzai aka Penance (titolo internazionale per aiutare gli utenti). Non stupitevi però se al tizio in questione verrà applicato successivamente un TSO seduta stante.
Kyoshi Kurosawa con Shokuzai dimostra che se un regista ha talento e qualità lo può dimostrare anche in campo televisivo. La televisione non corrompe un bravo regista, anzi riesce ad essere ugualmente malleabile allo scopo prefissato senza snaturare le caratteristiche o le tematiche a lui collegate. Ed è questo anche il caso di Shokuzai.
Kurosawa è noto in Italia soprattutto per i J-horror come Kairo o lavori molto raffinati come Cure o Tokyo sonata. Shokuzai non si mostra come un lavoro a sè stante della carriera di questo regista, bensì molto coerente con la sua filmografia.
Shokuzai è il dramma esistenziale di cinque vite, cinque donne segnate da una tragedia, un peso opprimente che viene perpetrato nel tempo che annulla la vita di ciascuna di esse e le condanna ad una solitudine in cui lo squilibrio fra la colpa e il castigo rende l'espiazione un percorso doloroso ed angosciante. Kurosawa depura dalla componente horror questo suo lavoro televisivo arrivando all'essenza stessa del suo cinema, ai lati oscuri e nascosti dell'animo umano.
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