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Allora, la prenderò un po' alla larga, spero mi perdonerete per questo. È che non è semplice introdurre l'argomento, e quindi credo sia buona cosa partire dalle basi: "Friends". "Friends" ha segnato il punto di svolta nelle sit-com americane, diventando il modello cui tendere di lì in avanti, grazie al suo immenso successo: se prima il modello era quello della famiglia burlona alla "I Robinson" & simili, da "Friends" in poi il modello è stato quello del gruppo di amici costretti a convivere tra alti e bassi, intrecci sentimentali e situazioni più o meno verosimili. La comicità passava da lieve e rassicurante a tagliente e spesso politically uncorrect, rivolta ad un pubblico più giovane.
Il cambiamento fu epocale: le sit-com "familiari" praticamente sparirono dalla circolazione, ed il fantasma del confronto con "Friends" ha sempre pesato su tutte le produzioni "giovanili" successive. Non sono comunque mancati gli esempi di successo: su tutti, i più celebri sono "How I met your mother" (il più simile concettualmente a "Friends", sia come impostazione che come modello di comicità) ed il geniale "The Big Bang Theory".
Tutto questo per dire che con esempi simili la concorrenza è agguerritissima, e produrre roba nuova e di qualità diventa una sfida sempre più difficile; eppure, eppure, c'è ancora chi riesce a stupire, chi ha qualcosa da dire e sa come dirla. C'è "New Girl".
"New Girl" racconta la storia di Jess (Zooey Deschanel), una maestra che, dopo essersi lasciata con il proprio ragazzo, va a vivere in un appartamento assieme ad altri tre ragazzi: Nick, un barista buono ma brontolone, Winston, un ex cestista di ritorno dal campionato lettone, e Schmidt, un (presunto) playboy assatanato di cui non si saprà mai il nome: per tutti lui è semplicemente Schmidt. In questo quadretto si inserisce CeCe, una modella di origini indiane molto amica di Jess che scombussola gli ormoni di Schmidt.
Ora, messa così non sembra niente di innovativo, l'impostazione è sempre quella classica di "Friends". Eppure la serie è scritta divinamente, battute e dialoghi velocissimi che non puntano ad una comicità forte ed immediata fatta di battute taglienti (come in "The Big Bang Theory") quanto più a situazioni comiche nascenti dal complesso dei comportamenti e delle caratterizzazioni (eccellenti) dei personaggi. Il sapore complessivo è quello di una commedia lieve e di qualità eccelsa, più che di una serie comica in senso stretto.
Grazie ad una sceneggiatura virtualmente perfetta, "New Girl" punta moltissimo sull'immedesimazione dello spettatore, e lo fa con un realismo assente sia in "How I met your mother" che in "The Big Bang Theory". Non dovendo necessariamente puntare tutto sulla comicità, "New Girl" non presenta alcuna forzatura; i personaggi sono credibili, e facilitano l'immedesimazione più di quanto non fosse possibile con un archeologo infantile divorziato da una moglie lesbica o con un fisico con la sindrome di Asperger patito di Star Treck e di trenini. Insomma, con "New Girl" non si guarda semplicemente una sit-com comica, ma un divertente spaccato di vita con dei protagonisti giovani, carini e (più o meno) disoccupati. E l'assenza di risate preregistrate aiuta il senso di realismo complessivo.
Ma il punto di forza vero di tutta la serie è la deliziosa
Zooey Deschanel, attrice poco sfruttata al cinema nonostante l'exploit di "
(500) giorni insieme" (ma forse su di lei ha pesato il tremendo "
E venne il giorno" dell'impronunciabile regista de "
Il sesto senso", in cui era tremendamente fuori ruolo). La Deschanel è semplicemente adorabile come Jess, probabilmente il miglior personaggio femminile di una sit-com che io ricordi, non teme rivali con nessuno. Jess è una ragazza goffa e stralunata, carina senza esserne consapevole, un po' maschiaccio e sempre tra le nuvole, dolce e spensierata. E con la sua mimica ed i suoi occhioni luccicanti la deschanel riesce a rendere ogni minima sfumatura del suo personaggio, caricandosi sulle spalle tutte le inquadrature: veramente straordinaria.
Insomma, fatevi un favore e guardatevelo: ne sono state prodotte due stagioni, ed è in programma la terza. Però guardatelo in lingua originale: la vocina della Deschanel e la rapidità delle battute si perderebbero nel doppiaggio, che peraltro è spesso di pessima qualità nelle serie USA: si pensi allo scandalo del doppiaggio di "The Big Bang Theory".
Insomma, vedetevelo. E se lo vedete e non vi piace siete delle brutte persone.
Interessante, “
House of Cards”, non solo per il prodotto in sé ma anche per la scelta da parte di Netflix – società statunitense che da qualche anno propone un servizio streaming dietro abbonamento – di lanciare un prodotto seriale senza costringere lo spettatore ad attendere i tempi di programmazione. Sì, strano a dirsi, la Netflix ha pubblicato in rete l'intera prima stagione di
HoC in una sola volta. Molti saranno entusiasti di questa scelta, io personalmente ne farei l'ottava meraviglia del creato. Da appassionato di serie televisive ho sempre odiato e ritenuto davvero troppo riduttiva la programmazione settimanale. Non aiuta a godere del prodotto completo, si guardano circa 40 minuti ogni settimana, ossia il tempo di entrare all'interno di quanto raccontato che già ci si trova ad uscirne e a dover aspettare altri sette giorni. Non è un caso che abbia sempre optato per l'attesa della fine della stagione, e per la visione della stessa solo successivamente, secondo tempi scelti unicamente da me.
Si potrebbe pensare, abituati alla normale programmazione, che una scelta simile nasconda un prodotto magari non in grado di competere con i grandi. Non si butta lì una gallina dalle uova d'oro come se niente fosse. E in realtà, invece, è proprio così, perché
HoC si rivela già dopo la prima puntata un prodotto che non solo ai grandi non ha nulla da invidiare, ma che è capace di farne vacillare più d'uno.
La narrazione segue le vicende di un classico politico senza scrupoli, Frank Underwood. Si è costruito giorno dopo giorno il suo posto al fianco del presidente degli Stati Uniti neoeletto, sì da ottenere l'ambito posto di Segretario di Stato. Dopo la vittoria gli viene comunicato che si è scelto di dare quella poltrona ad un'altra persona, e questo ad Underwood non piacerà affatto, né tanto meno ci passerà su come se nulla fosse. Lo si legge in una maniera alquanto chiara nello sguardo di
Kevin Spacey
, che smette per l'occasione di essere Kevin Spacey e diviene Underwood. Chiariamo immediatamente, infatti, che la sua prova è straordinaria. Certo, la bravura dell'attore è nota, ma ciò non vieta di meravigliarsene ogni volta. Il personaggio è suo dopo poco più di 60 secondi, ossia quando rivolgendosi allo spettatore dice: “
I have no patience for useless things”. Già,
HoC tra le altre cose si distingue anche per le esternazioni che il protagonista rivolge a chi guarda (senza che vi sia alcun cambiamento nell'ambientazione), spesso spiegando in maniera tagliente cosa sta accadendo, cosa accadrà e perché. E diciamocelo francamente, in un intreccio politico non del tutto semplice, e anche abbastanza veloce, serve abbastanza, altro che critiche sulle varie forme di spiegone. Qui è decisamente utile. E poi Spacey, enorme, lo fa in modo magnetico, quindi va benissimo così.
Altro nome interessante: Beau Willimon. Co-sceneggiatore de “Le Idi di Marzo”, anch'esso un thriller politico, è colui che si è occupato di concretizzare l'intenzione della Netflix di proporre questo rifacimento della serie originale. Dà al prodotto lo stesso volto del film diretto da
Clooney, quell'espressione disillusa, quella fotografia livida e quel portamento assai elegante. Se nel caso de “
Le idi di Marzo”, tuttavia, qualcosa nella sceneggiatura zoppicava, qui invece la velocità di crociera si assesta su valori ben più alti, senza intenzione alcuna di discostarsene, se non verso l'alto. Ancora:
David Fincher. Produttore esecutivo, tra gli altri, e regista dei primi due episodi. Ora, basta tenere a mente cosa ha combinato in “
The Social Network”, rendendo una storia che minacciava le palle a km di distanza, una storia al contrario quanto mai scorrevole e dal ritmo insospettabile. Qui propone grosso modo la stessa regia, dettando tempi e modi ai quali si adatterà la regia degli episodi successivi. Chiara, supportata da un montaggio fluido, veloce quanto basta, pulita e concentrata sui personaggi, sì da non farsi sfuggire espressione alcuna. Del resto sono loro la serie, in questo caso più che in altri; loro e il loro pantano di dinamiche melmose e maleodoranti, ma vestite di tutto punto.
Tra modi attenti, immagine curata e fascino di facciata, infatti, si nascondono ragnatele intessute in maniera non semplicemente cinica, ma spregevole, solo apparentemente magnetica ma realmente nauseante, illuminate da una luce fredda minacciata solo a tratti da sorgenti calde in grado di resistere giusto il tempo di spegnersi sotto i colpi del gelo circostante. Massima espressione di ciò è il rapporto tra Frank e sua moglie, che non a causa mostra a tratti segni di cedimento più o meno contenuto, conseguenza di un malessere che minaccia di esplodere alla minima crepa, serpeggiando tra gli innumerevoli e spesso velenosi scambi. Colonne portanti, quest'ultimi, di dialoghi onnipresenti, attributo principale dell'intero prodotto. Ad essi il compito, anche, di calpestare ogni aspetto umano che cerca di farsi strada durante il racconto, seppur, è ovvio, non riusciranno a farlo a lungo. Non è possibile nella vita reale, né qui. Ed è questo che suggerirà la direzione da seguire alla seconda stagione.
La Netflix si presenta quindi in grande stile, con un prodotto che come si scriveva poc'anzi non ha nulla da invidiare a nessuno – salvo forse qualche caduta di stile, piccola ma evidente se confrontata con la gestione impeccabile di tutto il resto. Mostra inoltre, la Netflix, gusto ulteriore ufficializzando l'intenzione di sviluppare, dopo 7 anni, una quarta stagione di “
Arrested Development”, sit-com inspiegabilmente sottovalutata. Ed è anche il caso a questo punto di tener d'occhio la nuova serie televisiva che proporrà ad Aprile, “
Hemlock Grove”, horror/thriller con
Eli Roth come produttore esecutivo.
Allora, sabato 22 settembre 2012 ero all’Ippodromo delle Capannelle a Roma per assistere, tutto emozionato, al concerto dei Radiohead. Che detta così sembra una cosa facile, e invece arrivarci è stata un’impresa, con mezza Roma stipata sull’Appia, scene di panico perché si avvicinava l’inizio del concerto e non c’era un buco libero dove lasciare la macchina per chilometri e chilometri, stazioni dell’Agip prese d’assalto perché quell’ampio spiazzale in effetti è un parcheggio perfetto, e ‘sticazzi se la gente protesta, c’è il concerto dei Radiohead, sta per cominciare, la benzina la metti al Tamoil.
E poi, una volta parcheggiata la macchina, giù a correre a rotta di collo per raggiungere l’Ippodromo, maledicendo tutti i morti del malnato organizzatore dell’evento che ha preferito l’ignobile Ippodromo ad un più comodo Palasport, finché non ho raggiunto i varchi e non sono entrato, sudato e felice, a metà secondo brano in scaletta (“
Bloom”,
for the records). A quel punto mi giro alla mia sinistra, tutto affannato, e vedo affianco a me una ragazzina piccoletta, biondina, con la treccia ed uno zainetto in spalla che ancheggia tutta convinta sulle note dei Radiohead. “Questa l’ho già vista”, penso. Dopo una seconda occhiata mi rendo conto che è Carolina Crescentini.
Carolina Crescentini! L’unica attrice al mondo che se le dici “Come cagna maledetta sei perfetta” le stai facendo un pertinente complimento sulle sue capacità recitative! Carolina Crescentini. Lì per lì ci sono in realtà rimasto un po’ male: uno la Crescentini se la immagina slanciata torreggiante dal suo metro e settantacinque di vamp del tubo catodico (dalla mia prospettiva chiunque sia alto almeno 1,75 torreggia (forse la mia prospettiva non è granché attendibile (ma mia madre dice che sono bello lo stesso))), e invece ha le dimensioni di una statuetta del presepe un po’ troppo cresciutella.
Dopo questo iniziale attimo di smarrimento, mentre Thom Yorke si lamentava sulle note di “
Weird fishes”, la mia mente è stata invasa da ameni ricordi sulla carriera di Carolina Crescentini (che intanto continuava a dimenare la propria capoccetta a ritmo di musica, ma neanche tanto). E così ho ripensato al suo esordio cinematografico con “
H2Odio” di
Alex Infascelli, il film più brutto della storia del cinema italiano, in cui un gruppo di mentecatte si rifugiava in un’isola deserta per sottoporsi ad una dieta a base di sola acqua salvo poi essere trucidate da una di loro che si incazza abbestia perché le scopre a mangiarsi i buondì invece della Sangemini. Ma non era colpa sua, è che aveva la sindrome del gemello evanescente, diagnosticatale dallo psicanalista Platinette.
Insomma dopo un esordio del genere una avrebbe pure il diritto di deprimersi, e invece Carolina ha perseverato ed ha inanellato un altro paio di cacate tipo “
Notte prima degli esami - Oggi” e “
Cemento armato”, prima di essere chiamata ad interpretare il ruolo che la consacrerà ad icona: quello di Corinna Negri, la protagonista della meravigliosa prima stagione della serie TV “Boris”.
E’ la svolta della sua carriera: da allora, Carolina Crescentini per tutto il pubblico italiano diventerà la cagna maledetta, etichetta che, va detto, lei non farà nulla per scrollarsi di dosso, perseverando con filmacci orrendi in cui recita in modo approssimativo (a volerle bene), tipo “
Generazione 1000 euro” o “
Parlami d'amore”.
Epperò che ci volete fare, a me la Crescentini è sempre stata simpatica, e dopo aver visto che le piacciono i Radiohead mi sta ancora più simpatica, ed avendo constatato che è alta un metro e molto entusiasmo la mia simpatia nei suoi confronti è cresciuta ancora di più, perché non dev’essere facile fare la vamp figona se madre natura t’ha fatta piccoletta, eppoi perlomeno lei un bel personaggio è riuscito a regalarcelo, che di questi tempi non è mica poco, dando peraltro prova di una certa dose di autoironia (come peraltro Pietro Sermonti/Stanis La Rochelle, altro cane pazzesco).
E allora viva la Crescentini, che se la ribecco pure da Morrissey a ‘sto giro le chiedo l’autografo.