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"Il sistema elettronico è molto stimolante. Lì per lì sembra un gioco. Si possono anche ottenere effetti proibiti al cinema normale. Insomma ti accorgi ben presto che non si tratta di un gioco, ma di un nuovo modo di fare cinema".
Michelangelo Antonioni
Avevamo lasciato il regista di Kapuskasing trionfante sul palco degli Academy Awards, con il mondo intero ai suoi piedi, quella lontana sera del 23 marzo del 1998. Era il trionfo di "Titanic", capace di portarsi a casa 11 premi Oscar su ben 14 nomination, un incasso mondiale di 1.835.300.000, con annesso record, e una certezza condivisa da molti, esperti e non del settore: l'impossibilità di ripetere un'impresa di tale portata, sotto tutti i punti di vista. Ebbene, undici anni dopo questo "poeta delle macchine" offre al "suo" mondo "Avatar" con il chiaro intento di offrire un'esperienza sensoriale ed emotiva senza precedenti.
Jake Sulley è un ex marine su sedia a rotelle chiamato a sostituire il fratello deceduto sull'avamposto umano di Pandora, dove una compagnia terrestre, la RDA, ha individuato in un minerale chiamato Unobtainium, la chiave necessaria per debellare la grave crisi energetica in atto sulla Terra. I due Pianeti si assomigliano per certi aspetti, se non fosse che l'atmosfera di Pandora è tossica per gli uomini. Per ovviare a questo ostacolo, gli scienziati dell'RDA hanno creato dei corpi chiamati "avatar", ottenuti mischiando DNA umano a quello degli indigeni locali, i Na'vi, le cui sembianze ricalcano quelle di questi ultimi. Questi ibridi vengono controllati a distanza dai "piloti" umani che collegano la loro coscienza ad essi. A Jake spetta la missione più difficile: infiltrarsi tra la popolazione dei Na'vi e guadagnarsi la loro fiducia con l'obiettivo di convincerli a spostarsi dal loro villaggio che, guarda caso, è situato proprio sopra il più ricco giacimento di Unobtainium del pianeta. In caso di fallimento sarebbe guerra civile, ma quando Jake conosce Neytiri si trova a dover decidere da che parte stare.
Molto si è ricamato sul fatto che James Cameron abbia cominciato a lavorare alla sceneggiatura di "Avatar" ancor prima di regalarci "Titanic". Quindici anni sono parecchi, e i maligni non hanno mancato di rimarcare come tutto questo tempo non sia comunque servito al regista canadese per realizzare uno script di ben altra caratura rispetto a quanto si è poi visto sullo schermo.
I riferimenti a pellicole celebri del passato si sprecano: "Balla coi lupi", "L'ultimo samurai" fino al più citato "Pocahontas". Tutti condividono il tema dell'invasore straniero "civilizzato" che tenta di sfruttare per un suo tornaconto una civiltà "sottosviluppata". Insomma, tutto sa di irrimediabilmente già visto. Per carità, la trama è si scontata, prevedibile, ma qui si rischia di commettere una fallacia bella e buona, dimenticandosi un punto fondamentale del lavoro di Cameron, il quale ha atteso tutto questo tempo non certo per lavorare allo script (chiunque conosca la storia di Cameron sa che la sceneggiatura venne scritta di getto in sole tre settimane), bensì per poter permettere alla tecnologia digitale di elevarsi ad un livello tale da poter rendere reale, vivo e concreto il proprio folle sogno, il che lascia sconvolti al solo pensiero perche ci da l'idea di quanto il regista canadese tenga, in maniera a dir poco maniacale, alla perfezione delle sue opere.
È proprio grazie alla maniacalità di Cameron ed a questa sua cura per i dettagli che lo spettatore può godere delle bellezze di Pandora, della sua fauna rigogliosa, visionaria e dalle forti tinte fluorescenti , ispirata da artisti come Francis Bacon e Leo Lionni, e ammirare le strane specie animali che la popolano come il terribile predatore Thanator, i docili Direhorse, i fedeli e nobili Bansheeray, creature alate che servono un solo padrone in tutta la loro vita, e gli Hammerhead Titanothere, a metà tra un rinoceronte e uno squalo martello. Ecco, ad un regista capace di inventare da zero un nuovo mondo, una nuova cultura, una nuova lingua, una nuova fauna ed una nuova flora, il tutto con anche la pretesa di rendere questo mondo il più plausibile possibile, non si può certo imputare la mancanza di originalità. Originalità che sta proprio qui, nel travasare ciò che già abbiamo imparato a conoscere in un mondo completamente nuovo e brillantemente poetico perché, a onor del vero, un pianeta in cui ogni specie è connessa mentalmente e fisicamente alle altre non si era ancora visto a memoria d'uomo.
Motivo per cui non reggono le critiche di chi taccia il film di banalità, così come non reggono le recenti critiche mosse da parte di certa critica italiana circa la mancanza di umanità nel film di Cameron, per via del massiccio utilizzo della "CG"; critiche, queste, dettate dalla più semplice delle equazioni, secondo la quale un film ricco di effetti speciali sicuramente farà fare tanta cassa, ma altrettanto sicuramente sarà un brutto film. Non vi è affermazione più sbagliata, perché Cameron si è sempre servito di tutta la tecnologia a sua disposizione solo ed esclusivamente per realizzare i suoi scopi di narratore e mai come fine a se stessa. Egli si serve della tecnologia per provare cose sempre differenti, per osare terreni mai esplorati prima, per dare alla gente un'eccitazione visiva sempre maggiore. Ma questa è sempre al servizio della storia. Merito soprattutto dell'esperienza alla New World del regista e produttore Roger Corman, che gli ha permesso di maturare un grande spirito di adattamento e uno spiccato protagonismo; Cameron ha fatto tesoro di quella esperienza e il risultato sta in ogni secondo di girato dei suoi film.
Se in "Titanic" Cameron si servì degli effetti visivi per far sentire il pubblico parte della storia, in "Avatar" se ne avvale per portarlo in un altro mondo e offrirgli un'esperienza unica, totale e travolgente. Paradossalmente poi la tecnologia è al servizio di un messaggio ecologista e pacifista, metafora del nostro mondo sul quale navighiamo ciechi verso la notte, in attesa di un impatto distruttivo ma, come ama ricordare Cameron, la tecnologia non è il male, tutto dipende da come la si usa. In un cinema come quello attuale, in cui la riproduzione del reale sembra passare sempre più attraverso la creazione del virtuale, un regista come lui appare indispensabile per indicare la possibilità di fare un cinema di altissimo livello tecnologico che non abdica, però, rispetto al coinvolgimento sentimentale, perché di fatto a questo dovrebbero servire gli effetti speciali, e cioè ad accrescere il realismo emotivo delle situazioni e non il meraviglioso tecnologico.
Abbiamo imparato, però, che "Avatar" fa rima con la tecnologia 3D. Le due cose formano un connubio pressoché inscindibile, un 3D concepito per valorizzare al meglio l'universo di Pandora che finalmente abbandona quegli intenti meramente impressionistici che fin qui lo avevano tristemente contraddistinto, elevandosi a vero e proprio linguaggio di rappresentazione capace di partecipare attivamente, e non pallidamente come in altri casi, alla narrazione della storia. Per ottenere il massimo da questa nuova ed affascinante tecnica Cameron, con l'aiuto di Vince Pace, ha addirittura sviluppato un sistema di ripresa stereoscopico chiamato Fusion Camera System.
Purtroppo va detto che il limite del 3D sta sempre nella valorizzazione della lucentezza dell'immagine, che anche qui risulta "sporca", opaca, il che è un enorme peccato considerata la palese bellezza dei paesaggi partoriti dalla mente di Cameron. Da questo punto di vista c'è ancora del lavoro da fare per meglio rendere la fruizione.
Ma ancor più che la tridimensionalità, colpisce l'evoluzione sbalorditiva della "Performance Capture" che qui viene spinta ad un livello decisamente superiore, mai raggiunto prima, restituendoci finalmente espressioni facciali umane credibili e non più finti bambolotti. Per ottenere la totale realtà dei personaggi Cameron e il suo staff hanno avuto la brillante intuizione di sostituire i marcatori collocati sul volto degli attori con una sorta di casco munito di una piccola telecamera, capace di catturare anche il più impercettibile movimento dei muscoli e, cosa ancor più rivoluzionaria, degli occhi. Badare bene che si tratta di vere e proprie interpretazioni; il lavoro degli attori non è stato in alcun modo alterato e i personaggi sono esclusivamente frutto di ciò che essi hanno creato, quindi questo dovrebbe bastare per zittire chi ancora si ostina (e sono tanti) ad annunciare come un'apocalisse la fine dell'arte recitativa. Motivo per cui va sottolineata la prestazione della bella quanto spietata Zoe Saldana nei panni di Neytiri, che per il ruolo in questione si è dovuta esercitare parecchio per poter meglio rappresentare la naturale grazia atletica del suo personaggio, con ottimi risultati.
Ancora una volta, quindi, Cameron conferma la sua predilezione per i ruoli femminili forti, dopo l'Ellen Ripley di "Aliens", la Sarah Connor di "Terminator", la Lindsey Brigman dello sfortunato "The Abyss" e l'Ellen Tasker di "True Lies".
Se la Saldana sforna una prestazione assolutamente convincente, la sua controparte maschile, Sam Wortinghton non sfigura di certo: scelto quando ancora il suo nome era sconosciuto al pubblico (ricorda molto la stessa strategia adottata per "Titanic", quando Leonardo DiCaprio e Kate Winslet erano solo delle belle promesse), molto prima quindi di essere inserito nel cast di "Terminator Salvation" (guarda caso un franchise lanciato proprio da Cameron), l'attore australiano, ma di origini inglesi, si distingue per quel giusto mix di passione, forza e sentimento che riesce ad infondere al suo personaggio, risultando perfettamente credibile nel suo ruolo.
Ottimo Stephen Lang, capace di dar vita ad un personaggio sgradevole e al tempo stesso affascinante: sgradevole per la totale mancanza di compassione, di qualunque tipo di emotività che dovrebbe essere innata nella natura umana, ma nel contempo affascinante per il forte senso della missione e della disciplina. A tratti sembra di rivedere in lui la stessa sadica follia guerrafondaia del Robert Duvall di "Apocalypse Now", che al suono della Cavalcata delle Valchirie (il mezzo di Quaritch si chiama, forse non a caso, Valchiria) sganciava Napalm contro i Vietcong.
La scelta di Sigourney Weaver nei panni della dottoressa Grace Augustine sa, invece, di nostalgico; una specie di chicca rivolta ai cultori del genere che certo non possono non ricordare con affetto la Ripley di "Alien".
In tutto questo perfezionismo, in questa cura per il dettaglio c'è però una falla, il vero punto debole di "Avatar". Non si tratta della sceneggiatura, quanto della blanda colonna sonora, opera del premio Oscar James Horner, già autore, sempre per Cameron, della colonna sonora di "Titanic", per la quale ricevette la statuetta, ed "Aliens". Stupisce come un compositore navigato e quindi di grande esperienza, capace di regalarci una pietra miliare quale di fatto è la colonna sonora di "Titanic", non sia riuscito a infondere la giusta emotività, la giusta passione alle scene clou della pellicola, in modo da coinvolgere appieno il pubblico e rapirne le emozioni. Le storie non vengono, infatti, narrate solo attraverso i dialoghi o le immagini, ma anche attraverso le sonorità che regolano le corde dei sentimenti umani.
Buona parte della forza dell'ormai ex maggiore incasso della storia del cinema risiedeva proprio lì. Insomma, il contributo sonoro viene a mancare proprio quando è il momento di cambiare marcia, di "tramortire" emotivamente lo spettatore.
Tutto questo in "Avatar" è assente e impedisce di gridare al capolavoro. Solo "Jake's First Flight" e "Becoming One of the People" risultano particolarmente riuscite per quel giusto mix di strumenti acustici ed elettronici.
Curioso poi come i temi di Horner ricordino molto quelli di James Newton Howard per il cartoon Disney "Atlantis- The Lost Empire". Anche lì una civiltà tentava di prevalere su di un'altra, e anche lì l'amore cambiava le carte in tavole. Insomma, le analogie non mancano. A onor del merito va detto, però, che la traccia "I See You" , per interpretare la quale è stata chiamata la giovane e talentuosa Leona Lewis, risulta particolarmente riuscita, capace di esprimere ciò che i Na'vi intendono per "vedere", che non ha niente a che fare con l'accezione canonica del termine, ma intende una valutazione dettata dal cuore e dallo spirito.
Ex studente di fisica, camionista, tecnico degli effetti speciali per Roger Corman, grande appassionato di fumetti Marvel e anime giapponesi, con una compagnia di produzione (la "Lightstorm Entertainment") e una di effetti speciali (la "Digital Domain"), lo scrittore-regista-produttore è soprannominato "Iron Jim" per il carattere abrasivo e dittatoriale nonché per il perfezionismo ossessivo-compulsivo. Cameron è "autheur" completo e indipendente di un corpus filmico archetipico e dicotomico: il suo è un cinema millenarista e apocalittico, commerciale e autoriale, hi-tech e umanista, post-moderno e classico,dalle fortissime valenze etico-morali e pregnanti istanze proto-femministe, oltre che permeato da uno sperimentalismo tecnico-visivo d'avanguardia che non ha eguali nella Settima Arte. Non è un caso che a Hollywood circoli il seguente slogan: "Quando Cameron fa una cosa, nessuno al mondo può farla meglio di lui".
Con "Avatar" il regista ha dimostrato di avere idee molto innovative e realmente notevoli nelle acque stagnanti di una Hollywood a corto di idee. Fisica quantistica, pura immaginazione speculativa e surrealista, critica socio-politica si mescolano sagacemente nelle pagine di un copione stupefacente, sconcertante e sensibile: un'autentica meraviglia potenzialmente in grado di rivoluzionare radicalmente l'estetica dell'"entertainment" cinematografico. Questo "poeta delle macchine" si conferma, se mai ce ne fosse bisogno, un eccezionale creatore di mondi, ed in fondo la sua forza sta tutta qui.
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Recensione a cura di Luke07 - aggiornata al 26/01/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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