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Uscito nel 1963, opera prima della regista Lina Wertmuller, il film si aggiudica subito il premio del festival di Locarno anche se non ottiene un uguale successo di pubblico.
Il titolo, riferito ai lucertoloni che amano pigramente crogiolarsi al sole potrebbe richiamare un film di Fellini di dieci anni prima "I vitelloni" costituendo idealmente il secondo capitolo "animalesco" di una storia della gioventù della provincia italiana. Apparentemente le due pellicole sembrano avere alcuni punti in comune: dei ragazzi che rifiutano le responsabilità e si crogiolano nel vuoto delle loro giornate ma in realtà se Fellini voleva denunciare un immobilismo "tout court", la Wertmuller si occupa invece di una tematica più seria: quella della cosiddetta "questione meridionale".
Prigionieri dell'accidia e di un immobilismo ancestrale i giovani di un paese pugliese non identificato rifiutano di cambiare lasciando trascorrere i giorni tutti uguali, vittime e carnefici delle loro esistenze. Il senso del film è presto detto: nei primi anni Sessanta, epoca in cui il film è stato realizzato, molti meridionali lasciavano i loro paesi inseguendo il miraggio di un cambiamento, di una vita migliore. I protagonisti del film restano ma non è detto che abbiano fatto la scelta migliore se non provano a cambiare dentro e a cambiare in meglio il loro paese.
Forse proprio perché la storia è stata realizzata e concepita da una donna, le donne del film costituiscono il nucleo "forte" del film anche se le si vede di sfuggita, passeggiare ancheggiando per farsi notare e decidere con chi e quando farsi dare l'appuntamento o intente a ricamarsi un corredo per un virtuale marito e contemporaneamente concepire idee nuove, alternative, impensabili per un paese dove gli echi delle riforme fondiarie e delle lotte contadine non sono ancora giunti.
Tra le altre protagoniste, la dottoressa di umili natali, intenta a studiare alacremente per mantenere una rispettabilità sempre in bilico; la bella forestiera sogno segreto dei frustrati maschi di paese, sposata da un debole figlio di mammà, altra figura forte, la contessa con il cavallo, pugno di ferro con i braccianti; la ragazzina figlia di contadini che osa leggere libri gialli e rivolgere la parola al figlio del notaio.
La donna prova ad emanciparsi silenziosamente tenuta ancora sottochiave da un maschio becero e corto di vedute, incapace di capire e guardare in avanti come il logorroico notaio animatore di uno stanco circolo culturale capace solo di ospitare giocatori di carte e parolai.
La narrazione scorre liscia nei suoi bozzetti accompagnata dalle musiche di Ennio Morricone (da notare la musica iniziale a sottolineare il sonno della controra, quasi da film western, da pueblo messicano con tutti gli abitanti a capo chino a sonnecchiare, per strada sui gradini, sulle poltrone della sala da barbiere). I protagonisti principali, tra i quali spicca un giovane Stefano Satta Flores di origine campana ma perfettamente credibile nel suo accento pugliese un tantino enfatizzato, (come quello di quasi tutti gli interpreti del resto) si muovono sempre in gruppo, retaggio teatrale del coro greco e le loro idee appartengono sempre a tutti indistintamente.
La voce narrante, non a caso femminile, sottolinea amaramente la sconfitta di ognuno, non lascia spazio alla speranza, ma lo spettatore sa, si accorge che larvatamente c'è che sta preparando una rivincita, sono i giovani che non vogliono partire per cambiare, sono le donne che fingono di assoggettarsi per decidere i destini di tutti; peccato però che la regista si rifiuti di seguire oltre le vite dei suoi personaggi lasciando a chi guarda la facoltà di immaginare che ne sarà di loro...
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 16/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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