Voto Visitatori: | 7,74 / 10 (17 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
Punto d'arrivo nella filmografia del regista e, al contempo, imprescindibile fonte di sviluppo per temi che verranno, "Il grido" (1957) di Michelangelo Antonioni rappresenta una sintesi pressoché perfetta degli esordi documentaristici con le future divagazioni sull'uomo disperso in una società alienante.
Poco amato in patria all'epoca, nonostante il Gran Premio della critica al X Festival di Locarno, ma acclamato all'estero (specie in Francia), il film segna una svolta verso le precedenti opere dell'autore ferrarese, portando a compimento un pensiero di inedito pessimismo nei confronti di una realtà umile ma ugualmente spietata.
In un entroterra padano fatto di lande desolate e di vegetazione rinsecchita, si consuma il calvario umano di Aldo (Steve Cochran), ex operaio in una raffineria di zucchero, in fuga senza meta dopo che la compagna (Alida Valli) l'ha lasciato per un altro uomo; solo con la figlioletta (Mirna Girardi), farà visita dapprima a una vecchia fiamma (Betsy Blair), poi cercherà sostegno in una benzinaia risoluta (Dorian Gray) e in una squillo sola e disperata (Lyn Shaw), ma nessuno sembra in grado di salvarlo dalla crisi intima che lo attanaglia.
Con "Il grido" Antonioni porta in scena, per la prima volta, l'incapacità dell'uomo di trovare un appiglio con la realtà che lo circonda. Partendo da un amore giunto al termine, il regista evolve la vicenda in un dramma itinerante dal sapore neorealista (impossibile non ricondurre i ricordi al girovagare di padre e figlio in "Ladri di biciclette" di De Sica), in cui il peregrinare del protagonista si fa specchio di un malessere insanabile che sembra inchiodarlo ad una precoce sconfitta.
Il dolore interiore di Aldo, la sua irrintracciabile voglia di vivere, si trasmuta in uno scenario vastissimo e crepuscolare, un paesaggio nebuloso e straniante, afflitto da un'atmosfera pesante e da una natura arresa, spoglia; al contrario, Antonioni suggerisce una vitalità insolita nelle iniziali sequenze ambientate allo zuccherificio, tra movimenti di braccia meccaniche e l'esagitazione dei personaggi in campo, come se il progresso avesse assimilato in sé ogni energia esterna.
La disumanità del paesaggio che circonda il protagonista viene accentuata dagli incontri femminili che egli compie nel corso della storia: la prima donna, Irma, è la modernità, l'insensibile scatenatrice di una irrimediabile caduta; c'è poi Elvia, la rassicurante eppur irremovibile materializzazione di un passato ormai perduto; quindi Virginia, un porto sicuro che, proprio perché tale, diventa motore di insicurezza e timore; infine Andreina, emblema di una società consumistica, che offre per avere sempre qualcosa in cambio.
Il film, tra i meno apprezzati del maestro, resta superbo anche a distanza di decenni, perfettamente agganciato alla sua epoca di produzione eppure universale per i concetti che riesce a veicolare e per le scelte estetiche attuate dal suo autore.
Rimangono nella memoria le interpretazioni degli attori, volti vissuti di un cinema senza tempo; inattesa l'aderenza al ruolo dello statunitense Steve Cochran, meteora del noir spentasi in fretta, che pur non si prese col regista; come sempre fatale la Valli, bellezza altera perfettamente in grado di reggere le fila di un personaggio con cui si fa fatica a simpatizzare; malinconica la prova della "malafemmina" Dorian Gray (doppiata dalla futura musa del regista, Monica Vitti), la benzinaia che sogna una vita di ordinaria normalità, così come toccante è Betsy Blair, la bruttina vista in "Marty" di Mann.
La fenomenologia dell'essere umano vittima di sé e dei tempi inizia da qui, in modo preciso, disteso, viscerale; le conseguenze, soprattutto con "Il deserto rosso" con cui condivide tipi e ambienti, saranno epocali.
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Recensione a cura di atticus - aggiornata al 06/12/2012 15.52.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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