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"Improvvisamente l'estate scorsa", uscito nel 1959 e diretto da Joseph L. Mankiewicz, uno dei grandi della Hollywood anni Cinquanta, è tratto dall'omonimo dramma di Tennessee Williams, autore americano all'epoca rappresentatissimo sugli schermi.
Alla sceneggiatura collaborò Gore Vidal, già sceneggiatore di "Ben Hur", che però, a causa delle restrizioni ancora vigenti del famigerato e moralista codice Hayes, fu costretto a sfrondare dalla vicenda i riferimenti più diretti all'omosessualità, che invece sono significativi nella pièce teatrale originaria.
Mankiewicz si avvale di un gruppo di validi interpreti che vedono in prima fila le due prime donne Katherine Hepburn e Elizabeth Taylor, l'attore protagonista Montgomery Clift e l'ottima caratterista Mercedes Mc Cambridge.
Di stampo teatrale e quindi giocata molto sui dialoghi, la pellicola si affida pressoché totalmente al trio di attori protagonisti e alla contrapposizione tra la protagonista più matura, apparentemente mater dolorosa, e la giovane e misteriosa nipote, testimone di una vicenda che viene rivelata solo in parte e che, a causa delle limitazioni imposte dalla morale dell'epoca, risulta comunque poco chiara.
La Taylor, non ancora trentenne e già famosissima da oltre un decennio, non è più la ragazza dall'elegante silhouette, ma con qualche chilo in più è diventata la fascinosa maliarda che ben incarna il suo ambiguo personaggio; mentre l'altra coprotagonista, Katherine Hepburn, è qui al suo primo ruolo di madre di figlio adulto.
Ambiguità e mistero sono le principali caratteristiche del film a metà tra un thriller (stando alle linee interpretative di Mankiewicz) e il dramma psicologico. Tutto giocato sulla conflittualità tra l'austera zia e la più disinibita quanto apparentemente mentalmente disturbata nipote e sulla scomparsa misteriosa di Sebastian, figlio e cugino delle due donne, il film affida un ruolo super partes a Clift, il neurochirurgo incaricato di lobotomizzare la giovane Catherine.
La furbizia del regista, a cui si deve un altro film basato su di un conflitto fra donne ("Eva contro Eva"), sta nel tenere lo spettatore fino alla fine all'oscuro dei segreti che ruotano attorno al defunto Sebastian e nella tecnica utilizzata dal "dottor" Clift per rimuovere dalla "paziente" Taylor il trauma che la adombra. La relazione psicanalisi-cinema hollywoodiano ha radici già dall'immediato dopoguerra con Hitchcock e il suo "Io ti salverò", gran dramma psicologico travestito da film giallo.
Mankiewicz va oltre Hitchcock però: se nel film del regista inglese tutto si basava sull'intreccio medico-amoroso tra i due protagonisti, in questo film si tenta di dissacrare, sia pure indirettamente, la figura materna ritenuta fino ad allora infallibile. Sebastian, (vero protagonista maschile della vicenda anche se mai mostrato in volto) colpevolizzato e punito con un'atroce morte per aver sfruttato l'ingenua cugina e per essere "diverso", è anche a sua volta vittima di un assurdo codice sociale che rifiuta e che lo porta all'autodistruzione. Allegorico anche il nome, il quale evoca il santo cristiano Sebastiano che subì un doloroso martirio trapassato da frecce.
Lo spettatore "sa" di Sebastian dalle parole delle sue "donne", intuisce il rapporto simbiotico con sua madre, Violet, donna ruvida, impegnata a difendere e a santificare suo figlio; come pure intuisce il rapporto quasi da "vittima - carnefice" con la cugina, forse innamorata di lui, forse desiderosa di "salvarlo" dalla sua omosessualità. La cugina stessa viene scelta da Sebastian come accompagnatrice-esca nell'ultimo viaggio, grazie alla sua avvenenza, perché Violet, ormai sfiorita, ha perso la sua attrattiva.
Afflitto da stereotipi (l'estetismo in puro stile wildiano di Sebastian si evince dalla sua elegante casa, dalla lussureggiante serra un po' kitsch e dalla sua mania di scrivere, la cugina bella e sciocca, la madre rigida, la figura del padre del tutto assente) e troppo cupo per clima, colonna sonora e ambientazioni, il film resta nella memoria collettiva per le interpretazioni asciutte e per il tocco registico cinico e freddo tipico di Mankiewicz.
L'omosessualità di Sebastian (mai chiaramente evocata) è vista come "malattia", da nascondere o da correggere, giustificata dalle morbose attenzioni materne, dall'assenza totale paterna "uomo buono ma di una noia mortale", sempre vista come "colpa".
Trascinante la scena finale, rivelatrice del dramma, con la voce narrante di Catherine che in un tormentoso crescendo descrive gli ultimi momenti del cugino, tra realtà e allegoria (spiazzanti le inquadrature dei teschi, rapide e in primo piano ad anticiparne la fine espiatoria).
Da vedere senz'altro confrontandolo con il testo originale.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 12/04/2011 14.58.00
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