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Con quest'ultimo suo film (il dodicesimo, come ci viene ricordato nei titoli di coda) Kim Ki Duk è stato oggetto di critiche per essersi ripetuto, ed effettivamente i punti di incontro con i suoi ultimi film sono parecchi e spesso il regista finisce per citare se stesso. Partendo dal presupposto che "Ferro 3" resta una cima forse troppo alta da raggiungere nuovamente, quest'ultimo film merita comunque una certa considerazione.
La sceneggiatura lascia senza dialoghi i personaggi principali, ed è chiaro che la rinuncia alla componente verbale implichi un uso impeccabile della componente più puramente cinematografica, ossia l'immagine, pena il totale insuccesso del film. E così ogni inquadratura diviene un quadro, ogni gesto quasi un rituale sacro da riprendere con immacolato e reverenziale stile; per chi conosce il regista sa quanto il suo cinema diventi fortemente simbolico e quanto il sistema di immagini divenga parte integrante della narrazione.
L'acqua diventa qualcosa di perennemente presente: vivono su una barca (la barca, simile ad un'isola, è un luogo separato dal mondo, dove ogni evento concreto assume una valenza simbolica e trascendentale), il pesce è l'unico alimento che si vede, lei fa continuamente il bagno caldo nella tinozza, succhia due ami agganciati a un filo per trarne una melodia che risuona nel vuoto azzurro del mare. L'acqua che comunemente si accosta alla purezza, alla lavanda battesimale, qui in un primo tempo viene usata come rafforzativo di tale concetto, mentre successivamente diventa sinonimo di prigionia e di malessere.
E sta proprio in questa ambivalenza che il film riesce ad avere il suo punto di forza.
Anche l'arco evocato dal titolo, è un'arma, ma nella prima parte del film viene usato come strumento musicale, come mezzo per leggere il futuro, ed è usato a mezzo di arma solo per difesa; tutto questo viene ribaltato nel secondo tempo quando l'arco torna ad essere arma e i dardi sono scagliati per colpire o avvertire, non più per difesa bensì per repressione.
Allo stesso modo quel gesto quasi paterno che è il ricercare la mano della fanciulla nel sonno diventa nella seconda parte del film un gesto di violenza e di oppressione.
Questo doppio sentimento che aleggia nel film è narrato con grande maestria.
D'altronde i concetti di bene e male nella poetica del regista coreano non possiedono effettivamente coordinate precise. Scrive bene Pier Maria Bocchi : "Non c'è odio per nessuno, e neanche rancore: l'amore vince in un'universalità che è anche, se non soprattutto, misericordia, il che non esclude la morte o il dolore."
Un ulteriore elemento di fascino nel film è la sensazione del tempo: i personaggi si svegliano, vivono, tornano a dormire, il giorno si alterna alla notte, ma sono giorni e notti tutti uguali. Il tempo scorre solo sulla carta, ma è tutto finto, infatti il vecchio con il suo gesto di accelerare i giorni o addirittura i mesi sembra un Dio che sa di avere poco tempo per completare la sua opera e quindi cerca di andare avanti più velocemente. Tutto ciò sembra una via di mezzo tra Sartre e Kierkegaard.
Infatti sulla scorta della concezione agostiniana di tempo (tempo come conseguenza della perdita dell'eternità, e dunque come pena per il primo peccato), Kierkegaard elaborò una concezione del tempo tutta tesa a capire quei tre momenti primigeni del prima, durante e dopo il peccato.
E così nella prima parte vi è la beatitudine a cui corrisponde l'uomo perfetto e la calma serafica che si respira all'inizio del film, poi l'incontro con il giovane desta in lei la conoscenza e quindi la terza parte, ossia la cacciata dal paradiso, in questo caso la fuga da quello che sembrava essere all'inizio un paradiso e a ciò corrisponde per Kierkegaard l'inizio del tempo, che nel film si tramuta in un nuovo corso del tempo, sempre che quello precedente fosse reale.
Per Sartre invece la questione del tempo è connessa alla dimensione dell'essere uomo come essere incompleto, la sua incompletezza è trascendente, cioè nostalgia del divino, il tempo funge da possibilità, ovvero l'uomo potrebbe realizzare la sua incompletezza utilizzando il tempo che ha a disposizione, e ciò è evidente soprattutto nella terza parte quando l'uomo modifica appunto il tempo per accelerare il compimento del suo scopo.
Il film purtroppo si perde proprio in un finale un po' scollegato e si impantana in una retorica simbolista, nella quale la narrazione perde di logica rigirandosi su se stessa.
E vista in questo senso la mutazione, o meglio, la trasfigurazione di un personaggio che diviene invisibile (si suicida?), si tramuta in fantasma, perde parte del fascino che aveva in "Ferro 3" nel quale questa componente onirica era frutto di un trucco escogitato dal protagonista, qui invece il personaggio maschile sembra diventare puro spirito con un significato allegorico evidentemente non più legato alla realtà.
Ma il simbolismo troppo evidente non ha mai giovato alla visione: il film perde di fascino diventando troppo didascalico.
Così verso la fine la sceneggiatura langue un po' e si inizia a pensare all'impossibilità di questa o di quell'altra azione fino ad arrivare proprio al finale quando il regista incastona un simbolo dietro l'altro: la trasformazione > simbolo, il dardo scagliato > simbolo, la nave che riparte e affonda > simbolo.
Si deve però tener conto che tutto il film è girato su di una barca, e per questo non possono non farsi i complimenti alla attenta regia di Kim Ki Duk, sempre alla ricerca di soluzioni registiche e fotografiche estremamente interessanti. Anche la messa in scena è rigorosa quanto geniale e l'opera non cede mai all'eccessivo estetismo.
Resta perciò un buon film, e Kim Ki Duk conferma di essere un eccellente narratore dimostrando come "Ferro 3" non sia stato un caso isolato. Sicuramente piacerà molto a chi non conosce bene l'opera di questo regista, probabilmente meno a chi ha avuto modo di godere della visione dei suoi precedenti lavori.
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Recensione a cura di fidelio.78 - aggiornata al 14/11/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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