Voto Visitatori: | 7,40 / 10 (15 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,50 / 10 | ||
"Lisbon story" è un bellissimo film sul cinema uscito nelle sale nel 1995, che porta la firma del grande autore controcorrente Wim Wenders.
L'autore tedesco si tiene lontano dalle consuete forme di spettacolo cinematografico che utilizzano le capitali europee di grande prestigio al solo scopo di esibirle al pubblico; qui Lisbona viene offerta agli spettatori in una dimensione nuova: nello splendore di un significato remoto, a lungo ricercato, che riemerge da una storia in parte ancora in vita e capace di dare emozioni.
E' una Lisbona altra, che non si lascia ammirare solo per le sue bellezze paesaggistiche ed architettoniche ma anche per ciò che racchiude nel suo spirito più antico, costituito da enigmi profondi, ricchi di fascino ed a volte sconfinanti nel mistero.
La pellicola sembra voler richiamare i media ad una maggiore attenzione verso lo spirito antico delle capitali europee, come se in un certo senso questo fosse parte di noi e potesse in qualche modo contrastare l'invasione di una modernità non sempre rispettosa del passato.
"Lisbon story" è un film talmente ricco di modi espressivi ingegnosi, inusuali, di efficace comunicazione, da far credere che Wenders, all'epoca, fosse alla ricerca di un cinema diverso.
Il film si sofferma, con un intricato gioco di cineprese, sulla spiritualità più innocente e autentica dei quartieri antichi di Lisbona, indugiando su arcaiche vie in cui è ancora facile trovare artisti dediti alla musica, poeti, volti umili di artigiani disposti a conversare e personaggi illustri del vecchio cinema portoghese.
Con "Lisbon story" Wim Wenders lancia i Madredeus, un complesso di grande successo internazionale dedito alla musica fado (che deriva da fatum, destino), un gruppo nato nei vicoli di Lisbona. I Madredeus sono stati scoperti da Pedro Magalhaes e Rodrigo Leao che sono rimasti stupiti e incantati dalla voce dlla giovanissima Teresa.
Il fado, di origine popolare, rispecchia la fede nel destino, rappresenta la fatalità del vivere raffigurata da un'esistenza già segnata, posseduta da forze oscure da cui non si può sfuggire con la ragione.
I Madredeus nel film cantano il fado in un'atmosfera di luci soffuse e vestiti di abiti scuri; le canzoni narrano dei propri amori, dei sentimenti su Lisbona, delle difficoltà e tristezze della vita di tutti i giorni.
A Lisbona sono numerose le case del fado, dove si accolgono i turisti per far conoscere questa musica incantevole; il film si sofferma a lungo in una di esse, dove i Madredeus invitano Philip (Rudiger Vogler), il professionista dei suoni, ad ascoltare il loro canto.
Nel complesso il film mostra una Lisbona che appare lontana dalla sua immagine più esteriore e moderna. Il regista tedesco va al di là di ogni consuetudine narrativa, stregato dal desiderio di svelare cose mai viste o udite.
Le inquadrature ed i personaggi più significativi del film non nascono da un'abitudine a rappresentare e riprendere le cose secondo un calcolo letterario: Wenders evita tutto ciò che è artificioso, innaturale e prevedibile, finendo per mettere sotto accusa anche l'occhio umano quando riprende con la macchna da presa oggetti resi troppo familiari dall'uso, facili preda di sguardi refrattari all'arte. Il regista sembra voler criticare tutte quelle immagini di comodo smercio, divenute emblemi di un cinema stanco.
Wenders avverte la presenza nel cinema di un occhio ormai privo di vitalità, mero strumento ottico al servizio di pellicole sempre più ripetitive, incapaci di suscitare stupore.
Wenders è un regista di grande onestà intellettuale: nonostante i numerosi premi ricevuti in tutto il mondo ha continuato a mettersi in discussione ed a produrre film decisamente eterogenei sia nella forma che nei contenuti; è uno dei pochi registi che sia riuscito a resistere alla tentazione di fare film fotocopia, riproponendo con piccole variazioni le sue pellicole più riuscite.
Con "Lisbon story" l'autore tedesco rimane fedele ad un'idea di cinema molto più vicina all'arte e alla poesia che allo spettacolo. E' questa un'opera indubbiamente da considerare tra le più mature e coraggiose del suo repertorio; in questa pellicola egli osa criticare il cinema passando da una propria crisi d'ispirazione, prendendo spunto da un'inquietudine profonda che interpreta e riesce a trasporre con profitto nel film.
Come accaduto a Fellini in "Otto e 1/2", Wenders pensa e descrive il suo tormento di artista attraverso il film, e lo fa con molta chiarezza.
Con "Lisbon story" Wenders sembra voler trasmettere un messaggio critico a lungo sostenuto: quello secondo il quale uno dei principali problemi del cinema contemporaneo risieda nelle dissociazioni stilistiche che infettano i film, in quelle forme un po' artistiche, un po' spettacolari e un po' intellettuali che le caratterizzano e che sanno di compromesso tra i vari gusti del pubblico.
Wenders pare voler dire che solo chi sa cogliere il movimento vero della vita e tradurlo in racconto visivo può contribuire a far uscire il cinema dalle crisi d'idee che lo tormentano.
Ecco allora che Wenders ritorna con "Lisbon story", umilmente, ad occuparsi dei grandi artisti, quelli fedeli da sempre alle verità umane più nobili e che non accettano compromessi tra le loro idee e il mondo.
Con questo film Wenders rende omaggio a diversi grandiosi personaggi e poeti, ponendosi per un istanteaccanto a loro, spoglio di ogni interesse di protagonismo.
E' con grande commozione che Wenders nel film ricorda Fellini, il maestro della regia: all'inizio ed alla fine della pellicola appaiono in un giornale e su un vecchio muro richiami al suo film capolavoro "Otto e 1/2" ed al glorioso nome "Federico".
Wenders mette in scena anche il regista contemporaneo Manoel De Oliveira, massimo poeta cinematografico portoghese, autore di capolavori come "La Divina commedia"; De Oliveira nel film appare in un vecchio filmato d'epoca mentre recita in alcune scene mute in chiave di mimica comica.
Infine Wenders si cala nella lettura di Fernando Pessoa, poeta degli anni '30: vengono lette parti di alcune sue poesie esistenziali, pertinenti al tema della crisi trattato da Wenders.
Il regista tedesco con "Lisbon story" rimane fedele al suo spirito fortemente polemico, visionario, avente spesso per oggetto di studio il linguaggio del cinema d'oggi, finendo per disapprovare tutto un modo moderno di intendere il cinema; la sua è una polemica a volte un po' avventurosa nei contenuti, ma molto avvincente perché animata da una forte passione e perchè forte di tematiche sempre selezionate con cura e intelligenza.
I temi sollevati da Wenders sono in genere tenuti in grande considerazione dai critici, suscitando fertili discussioni e apparendo sempre pertinenti alla ricerca teorica e storica del linguaggio del cinema; l'animosità del regista tedesco non si trasforma mai in una ripulsa totale e generale del complesso mondo cinematografico.
Wenders ha espresso costantemente e senza alcun riserbo grosse perplessità nei confronti di quel cinema contemporaneo costruito a tavolino, che si avvale di una garanzia di successo grazie alle efficaci indagini di mercato svolte sui gusti ed i desideri di un pubblico semre più inerte; un cinema che secondo lui non può che essere mediocre perché non sorprende più gli spettatori con l'incanto.
In questo film Wenders, tramite il racconto, offre al giudizio del pubblico la propria sofferenza di artista angosciato, preda di un malessere oscuro, che costella di paure la sua psiche, un male che lo destina a dure forme di solitudine.
"Lisbon story" è l'angoscia di un autore cinematografico che non riesce più a trovare la lucidità creativa necessaria per inventare storie che rispecchino il valore esistenziale di una vita e l'etica che la sostiene.
Il regista tedesco non ha una storia vera da narrare, è costretto a descrivere il suo stato di artista depresso. Uno stato che finisce però per dire qualcosa di più vero di una normale storia cinematografica, regalando al cinema una preziosa riflessione sulla crisi delle immagini filmiche.
Wenders riesce, nonostante la depressione (o forse grazie ad essa), a comunicare al mondo la sua idea su un cinema mancato, irrealizzato, che non è riuscito a entrare, nonostante tutte le sue potenzialità tecniche, nell'arte vera.
Wenders è sincero, prova a interpretare i pensieri più ossessivi che si presentano alla sua coscienza, un po' come fece Fellini con il suo "Otto e 1/2".
Il regista tedesco analizza e scompone in varie forme l'anima di Lisbona, in piena solitudine, senza trascurare l'incantevole musica del luogo ben espressa dai Madredeus.
Si sofferma sui personaggi più immediatamente veri della città, lo fa a volte con una mente protesa alla conservazione cinematografica di quel mondo altre volte con una rassegnazione a perderne per sempre la vitalità e ritornare alla poesia pura legata al ricordo.
Solo con questo film autobiografico Wenders riesce a sentire un momentaneo sollievo dal peso della sua depressione.
Il personaggio chiave del film è Fritz, regista tormentato, che gira per le vie di Lisbona con una telecamera posta dietro la schiena, al riparo dall'occhio schiavo del mercato dell'immagine; solo così Fritz sembra di rimanere fedele a un'idea di fotogramma puro e nuovo, vicino ad un'innocenza ormai perduta.
Fritz pensa che in questo modo si possa liberare l'immagine da un oggetto interno precostituito. La cinepresa, fissando aspetti casuali della città, fa entrare nelle immagini oggetti freschi, assemblabili prevalentemente lungo un gioco poetico.
A distanza di cento anni dalla proiezione della prima pellicola francese, un grande autore come Wenders ha avuto il coraggio di fermarsi a riflettere sul senso dell'immagine contemporanea e sulla sua deformazione affaristica in un tempo (1995) molto vicino ad un'importante vigilia, quella del terzo millennio. Una vigilia densa di paure, di ansie di ogni genere.
Questo film rappresenta la crisi del cinema alla vigilia del nuovo millennio: la sua caduta inesorabile negli abissi dello spettacolo controllato e diretto sempre più dai media.
"Lisbon Story" è in ultima analisi un invito a tutti gli artisti dediti al cinema a ricreare un tempo dell'innocenza delle immagini, sottraendole allo sguardo felino di chi le riprende, a quell'occhio privo di sensibilità artistica che punta la macchina da presa verso un oggetto confortevole, familiare, appetibile, trascurando tutto ciò che stupisce e istruisce.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 03/12/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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