Ambientato durante la seconda guerra mondiale, la storia riguarda un gruppo di soldati ebrei prossimi all'esecuzione comandati dal tenente Aldo Raine (Brad Pitt), quando ottengono invece una chance per salvarsi: riportare con sè cento scalpi nazisti. Il gruppo sarà impegnato anche nell’operazione Kino, durante la quale dovranno attaccare il nemico mentre viene presentato, a Parigi, un film di propaganda, alla presenza di Joseph Goebbels, uno dei principali gerarchi nazisti.
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Ci troviamo nella prima metà del Novecento, quando Eliot e Pound elaborano il loro “metodo mitico”: una visione d’avanguardia che attinge direttamente dalle sterminate riserve della tradizione, che consente la continua citazione a vantaggio dell’opera finita, una sorta di collage del vecchio per approdare al nuovo. I punti di riferimento dei due poeti sono, ovviamente, di origine letteraria: Dante, Omero, le sacre scritture, i classici greci, la letteratura orientale, Baudelaire, i simbolisti francesi ed altri ancora. Nel 2009 Tarantino attua qualcosa del genere, trovando le sue fonti nei fumetti, nel western, nel cinema classico e in quello di serie-b. Tutto è già stato detto, e dunque non resta che riproporre.
Ma quello di Tarantino non è più nemmeno un citare, il suo diviene piuttosto un iper-citare, un mischiare e rimischiare gli elementi presi in prestito dai modelli più disparati, e modellarne l’impasto (e in ciò è bravissimo, non c’è dubbio). E il risultato: è di nuovo un cinema che discute se stesso (non a caso proprio una sala cinematografica sta al centro della storia), che s’implica perlopiù in questioni stilistiche e formali. La guerra di Tarantino è una guerra appresa unicamente dai film, una messinscena che non riesce neppure a lambire la realtà dei fatti e dei sentimenti. L’unica passione percepibile nella pellicola, è quella propria per il cinema, ironicamente celebrato; e attenta in primo luogo alla precisione di quei dialoghi, "leonianamente" tesi e carichi di tensione, che da sempre risultano essere una delle qualità migliori del regista, e all’effetto che raggiunge nel sensazionale finale. Dopo Chaplin, Lubitsch, Kusturica, Benigni, Quentin prova a dire la sua, a suo modo: ma la ricchezza degli strumenti non basta a rendere eccezionale una suite; mentre spesso, in altre occasioni, sono stati sufficienti un pianoforte, un violino, un flauto ben suonati, se con un’aria hanno saputo rievocare una realtà vissuta oppure sentita.