crimini e misfatti regia di Woody Allen USA 1989
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crimini e misfatti (1989)

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locandina del film CRIMINI E MISFATTI

Titolo Originale: CRIMES AND MISDEMEANORS

RegiaWoody Allen

InterpretiWoody Allen, Alan Alda, Mia Farrow, Martin Landau, Claire Bloom, Anjelica Huston, Sam Waterston, Stephanie Roth, Nora Ephron

Durata: h 1.47
NazionalitàUSA 1989
Generecommedia
Al cinema nell'Agosto 1989

•  Altri film di Woody Allen

Trama del film Crimini e misfatti

Uno stimato oculista newyorchese, Judah Rosenthal, ha un problema: la sua amante, Dolores, un'attraente hostess, pretende che egli sveli alla moglie Miriam la relazione che ha con lei. Judah non sa decidersi e si consulta con il rabbino Ben, un suo paziente gravemente malato, che gli consiglia di confessare tutto.

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Voto Visitatori:   8,39 / 10 (93 voti)8,39Grafico
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Migliore sceneggiatura straniera
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
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Voti e commenti su Crimini e misfatti, 93 opinioni inserite

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kafka62  @  09/05/2018 15:38:32
   9 / 10
Schopenhauer sosteneva che la storia dell'umanità è una identica melodia suonata infinite volte. In altre parole, anche se l'uomo è stolidamente convinto di essere al centro dell'universo e che tutto quanto gli accade – gioie e tribolazioni – porta il segno dell'eccezionalità e dell'unicità, in realtà la vita va avanti secondo una logica indifferenziata e immutabile. Giunto all'apice della sua maturità artistica, Woody Allen ha definitivamente fatto sua questa consapevolezza e realizzato con "Crimini e misfatti" un'opera in cui l'illimitato pessimismo che la pervade deriva non tanto dalla tragicità degli avvenimenti narrati quanto dalla constatazione che all'uomo contemporaneo è stato definitivamente sottratto il diritto alla tragedia, non già quindi dalla infausta sorte di Cliff Stern, l'ennesimo schlemiel della sua lunga carriera di cineasta, bensì dalla coscienza che l'infelicità dell'individuo è perfettamente compatibile con la logica naturale delle cose, anzi è la logica stessa delle cose. Tutto questo è espresso con la glaciale ed impassibile obiettività di un entomologo, incrinata di quando in quando solo dallo sbigottimento di chi si ritrova per la prima volta di fronte alla nichilistica rivelazione che, per citare Jung, "non ci sono più dèi a cui si possa ricorrere per invocare aiuto… La nostra vita presente è dominata dalla dea Ragione, che costruisce la nostra maggiore e più tragica illusione". La latitanza di Dio da una parte ed il ridimensionamento del ruolo del destino dall'altra hanno inevitabilmente provocato il crollo degli abituali punti di riferimento, dalla fede religiosa al materialismo storico, lasciando l'uomo completamente in balia di se stesso e delle sue domande senza risposta. Mi torna in mente a questo proposito l'amaro sfogo di Pecorin nel lermontoviano "Un eroe del nostro tempo": "Quale forza di volontà ha infuso negli antichi la certezza che tutto il cielo con i suoi infiniti abitanti li guardasse con un interesse costante se pur muto? Noi, invece, loro miseri posteri, pellegrini sulla terra senza convinzioni e senza fierezza, senza speranza e senza paure, all'infuori di quell'istintiva angoscia che stringe il cuore al pensiero della fine inevitabile, noi non siamo più inclini ai grandi sacrifici né per il bene del genere umano né per la nostra personale felicità, giacché siamo certi che essa è impossibile; e passiamo con indifferenza da un dubbio a un dubbio, come i nostri antenati passavano da un'illusione a un'illusione, e non abbiamo, come essi avevano, né speranze né quel vago benché sincero piacere che l'animo incontra in ogni lotta con l'uomo o col destino".
"Crimini e misfatti" è, come si può intuire da questi pochi accenni, un film imbevuto di filosofia (vi si possono trovar tracce anche del Kierkegaard di "Timore e tremore" o del Kafka de "Il messaggio dell'imperatore", del Pascal della famosa "scommessa" o di Dostojevskij); anzi è esso stesso, prima di ogni altra cosa, un comte philosophique. L'ebraismo mai rimosso del regista viene fatto passare al vaglio di una coscienza che non avevamo mai visto così cinica e pessimistica, tanto da configurare una sorta di disperata saggezza "in negativo" acquisita con le disillusioni degli anni. Così uno dei principi cardine della religione ebraica ("Gli occhi di Dio vedono tutto -–ripete più volte il padre di Judah nei ricordi del figlio -. Non c'è assolutamente nulla che sfugge alla sua vista. Egli vede il virtuoso e vede il malvagio, e il virtuoso sarà ricompensato ma il malvagio sarà punito") verrà clamorosamente e ironicamente smentito nel corso del film. Non solo, ma questa frase è anche la premessa morale da cui Allen parte per operare un suo radicale, sistematico e baffardo rovesciamento in una verità di segno diametralmente opposto.
La vicenda del film è emblematica. Da una parte c'è Judah Rosenthal, ricco e stimato oculista, il quale non solo risolve con le spicce il suo scabroso problema facendo uccidere dal fratello la scomoda e nevrotica amante che lo tormenta, ma addirittura, superati i comprensibili sensi di colpa iniziali, ritorna indisturbato all'irreprensibile e serena vita borghese di prima; dall'altra parte c'è invece Cliff Stern, regista televisivo impegnato ma perennemente senza lavoro, uomo morale fino al midollo (molto simile in questo a un altro personaggio alleniano di qualche anno prima, Danny Rose), il quale, a forza di rifiutare qualsiasi compromesso con la propria coscienza (dalla sottomissione alle becere leggi dello show business all'egoistica leggerezza nei rapporti umani, impersonate ambedue dal cognato Lester), va incontro al più completo fallimento esistenziale. Le due storie procedono parallelamente, come due episodi distinti ed autosufficienti (l'unico tenue elemento che le collega è il fatto che Ben, cognato di Cliff, è anche paziente di Judah), ma risulta chiaro che l'una serve a rafforzare e giustificare l'altra, e viceversa. Allontanandosi dai modelli strutturali delle opere precedenti (cioè tanto dai film imperniati quasi esclusivamente su uno o due personaggi – "Io e Annie", "Zelig", "Un'altra donna", per fare solo alcuni esempi – quanto dalle pellicole corali e "polifoniche" – "Una commedia sexy", "Hannah e le sue sorelle", "Radio days"), Allen converte in una tipologia narrativa estremamente originale ed elaborata l'aspirazione a superare una volta per tutte i limiti di un racconto che, se circoscritto alla sola storia di Judah, ben difficilmente sarebbe potuto andare al di là dell'apologo o, peggio, dell'aneddoto. Per riuscire ad elaborare in modo più sistematico il proprio discorso, il regista sceglie perciò, molto opportunamente, di creare una storia (quella di Cliff), per molti versi complementare, sia nelle tematiche che nei toni, assegnando al montaggio contrappuntistico (basti pensare al ruolo di ironica interpunzione rivestito dai trailers dei vecchi film in bianco e nero) il compito di allacciare nessi, parallelismi e corrispondenze reciproche.
Intorno a Judah e a Cliff si muovono tanti personaggi. Alcuni di esse, a conferma del fatto che "Crimini e misfatti" è un film a tesi, persino didascalico (nell'accezione migliore del termine, naturalmente), sono figure fortemente simboliche, come il rabbino Ben (la cui progressiva cecità ribalta l'affermazione già citata che "gli occhi di Dio vedono tutto") o come il professor Levy (il quale, al di là di una possibile identificazione con Primo Levi, anch'egli morto suicida dopo essere sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, è l'impietosa ammissione che, per quanto ci si voglia convincere – ed esprimere questa convinzione in una teoria filosofica – che la vita è meravigliosa, l'universo resta freddo, ostile, o al più indifferente). Gli altri personaggi secondari, come Halley, Lester o Jack, sono soprattutto funzionali alla messa a fuoco, come in un dramma shakespeariano o in un romanzo dostojevskijano, delle problematiche etiche dei due protagonisti. Anche se bisogna riconoscere all'Allen sceneggiatore il grande merito di aver conferito loro una profondità psicologica inusitata (persino quando la loro presenza nel film si limita a un paio di scene al massimo), e quindi una incontestabile autosufficienza narrativa, tali personaggi rappresentano nel disegno globale dell'opera altrettante ipostatizzazioni di un concetto astratto: vale a dire, che la virtù, l'onestà e la fede nei propri ideali sono destinate ineluttabilmente a soccombere alla cinica brutalità delle leggi della vita.
Con una fiducia candida e direi quasi adolescenziale, il professor Levy si è costruito un sistema filosofico su misura per lanciare all'umanità un ottimistico appello alla vita. Ma, come dice Lester (non senza qualche ragione) alla sorella, "la vita è un'altra cosa". E difatti, di fronte agli insostenibili conflitti interiori causati dalle disarmonie del mondo, gli spiriti come il professor Levy non riescono a sopravvivere. "Non potrei più vivere se non credessi con tutto il mio cuore in una struttura morale… in una sorta di ente supremo", confessa Ben a Judah. Il suicidio di Levy rappresenta appunto la logica, coerente e direi quasi inevitabile conseguenza di questo ragionamento, nel momento in cui viene definitivamente meno la fede in una regola etica certa e indubitabile che governa l'universo e le azioni degli uomini. I valori trionfanti nel mondo non sono perciò quelli di Cliff, di Ben o di Levy, ma al contrario quelli incarnati da Lester: il successo, il denaro, il sesso; e le doti per accaparrarli non sono né l'intelligenza, né la sensibilità, né la rettitudine morale, bensì una istintiva, egoistica e animalesca vitalità che traduce nell'apparente liberismo dei rapporti sociali nientemeno che la legge della giungla.
All'inizio del film, Judah, sdegnato di fronte alle criminali proposte del fratello, esclama: "Dico, qui si parla di un essere umano! Lei non è un insetto, non la schiacci e amen!"; ma poi, quando giunge il momento della verità, accondiscende senza esitazioni ad eliminare Dolores, rendendosi perfino conto che, tutto sommato, la cosa è meno mostruosa di quello che poteva sembrare a prima vista. Lo stesso Lester, nonostante che nel montaggio "blobbato" del film di Cliff venga accostato irriverentemente a Mussolini prima e a un asino poi, non è un mostro di scelleratezza, ma un essere umano che ha compreso appieno le crude e prosaiche leggi della realtà, adeguandovisi con cinico opportunismo. La scelta di Halley di diventare la fidanzata di Lester anziché di Cliff, pur crudele e dolorosa, non può sorprendere più di tanto, anzi appare, alla luce di quel che si è detto, tanto ineluttabile quanto la legge matematica per cui la somma dei quadrati dei cateti è uguale al quadrato dell'ipotenusa. E questo atteggiamento amorale nei confronti di principi e valori è confermato anche da tutta una serie di notazioni marginali, come quell'invitata al party che cerca di convincere la sorella di Cliff sulla appetibilità di un possibile pretendente ("E' in prigione, è vero, ma niente di terribile. Vendeva informazioni in Borsa. Ha fatto una fortuna! Verrà fuori presto").
La conclusione cui Allen sembra pervenire è che è il mondo ad essere sbagliato, non gli uomini che vi vivono. Judah non è una persona malvagia, ma uccide per salvaguardare la sua vita familiare, e quasi quasi siamo con lui anziché con l'isterica e possessiva Dolores. La genialità del regista consiste nell'aver sospeso il proprio giudizio morale e creato personaggi che, pur essendo figure eminentemente simboliche, non rappresentano dei casi-limite, anzi tutti vi si possono riconoscere senza fatica. Ma non è tutto: Allen non esita infatti ad affrontare di petto, brutalmente, lo scabroso problema del Male, quel Male che Judah, prima di compierlo, si immagina così insopportabile. Il delitto avviene fuori campo, e, come tutto ciò che i nostri occhi non vedono, ci sembra distante e quasi irreale. Ma Allen non ama le scorciatoie e le semplificazioni, e, per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, fa compiere al suo protagonista un'azione perfettamente inutile dal punto di vista narrativo: egli fa andare Judah (e, insieme a lui, noi spettatori) nientemeno che sul luogo del misfatto. Di fronte allo spettacolo di Dolores che giace per terra, inanimata e spenta, Judah è colpito non dall'enormità, dalla gravità di quanto è accaduto, ma solo dal Vuoto, dal Nulla che trapela da quel corpo esanime. Egli cioè percepisce – e in questo consiste la grande intuizione alleniana – da una parte l'assurdità, la gratuità, peggio la normalità del male, dall'altra la mancanza di una qualsivoglia struttura trascendente (religiosa o semplicemente etica) che giustifichi ontologicamente l'importanza assoluta e irrinunciabile della vita umana. "Che orrore, non c'è nulla se non c'è Dio", sosteneva François Mauriac, e, quasi a suggellare questa nichilistica epifania del Nulla, al dostojevskijano Ivan viene fatto dire ne "I fratelli Karamazov" che senza Dio "tutto è permesso". Una volta accettato come presupposto che Dio non c'è (che non esista o invece non intervenga nelle cose terrene è un altro discorso, come vedremo più avanti), anche Allen non può fare a meno di convenire con il grande scrittore russo e giungere alla sconvolgente conclusione che in queste condizioni uccidere un essere umano può apparire poco più importante che schiacciare un insetto.
Woody Allen si porta appresso tutti i retaggi della cultura ebraica in cui è cresciuto. In primo luogo, il concetto di Dio: così come è compendiato dalle parole del professor Levy ("A dispetto dei millenni di sforzi, noi ebrei non siamo riusciti a creare l'immagine di un Dio che fosse veramente mite ed amoroso, questo ha trasceso la nostra capacità d'immaginazione"), tale concetto è quello di un Dio severo ed implacabile, incomprensibile e a tratti ingiusto (capace perfino di chiedere ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco al solo scopo di mettere alla prova la sua fede). Quella ebraica non è quindi una fede gioiosa, spontanea, e tantomeno si culla nella gratificante attesa di una vita ultraterrena. In essa è invece centrale il ruolo della colpa. "La colpa – scriveva Kafka ne "La colonia penale" – è sempre fuori discussione", e opere come "La condanna", "Il processo" e la stessa "America" possono essere lette come metaforiche oggettivazioni di un gigantesco, divorante senso di colpa. Molto kafkianamente, Danny Rose ribadiva a sua volta che "il rimorso è importante, è tutto il senso di colpa, altrimenti l'uomo potrebbe fare cose tremende". Il senso di colpa è perciò l'unico meccanismo inibitore extra-sociale (che non sia quindi la paura meramente indotta di infrangere una norma di legge e di incorrere nella relativa punizione) in grado di impedire all'uomo di comportarsi immoralmente. Ma in "Crimini e misfatti", come si è detto, Dio non c'è più: egli forse non è morto, ma – analogamente a colui che nel film è il suo rappresentante in terra, ossia Ben – è un testimone impassibile e impotente delle tragedie dell'umanità, un malinconico deus otiosus, un semplice orpello buono solo per i presepi e le sacre funzioni. E se Dio è assente, ne consegue, logicamente e ineluttabilmente, che l'uomo, lasciato in balia di se stesso e della propria balbettante coscienza, non è più in grado di adottare a fondamento della propria esistenza una condotta improntata ai valori spirituali e trascendenti di una volta.
L'altro polo morale, questa volta laico, di "Crimini e misfatti", è Cliff, il quale, in mancanza di Dio, decide di eleggere la responsabilità individuale a principio di vita. L'uomo insomma sarebbe pienamente responsabile delle sue azioni e delle sue scelte, e, ergendosi a Dio di se stesso, ad artefice del proprio destino, verrebbe contemporaneamente ad assumere proporzioni tragiche. Ma, come abbiamo visto all'inizio di questo saggio, egli non è adeguato alle dimensioni della tragedia, ed il suo atteggiamento, lungi dall'essere tragico, finisce per diventare semplicemente patetico. Affermare come fa lo zio Sol (in quella vera e propria citazione bergmaniana che è la riunione familiare rievocata da Judah) che "da ciò che è originato da una azione malvagia sboccerà un fiore immondo" è talmente ingenuo da apparire quasi anacronistico di fronte agli impietosi esempi offerti dalla storia. E' invece la posizione, cinica e amorale, di zia Mel (per cui "se uno commette un crimine, e la fa franca, e se decide di non farsi affliggere dalla morale, è in un ventre di vacca") ad avere facilmente la meglio, e lo stesso Allen è costretto suo malgrado a darle ragione.
L'esistenza di una "struttura morale", di un "ente supremo" in cui credere (per riprendere ancora una volta le parole di Ben), si rivela quindi una invenzione tutta umana, grazie alla quale l'uomo riesce a darsi "le basi per sapere come vivere". Ma egli ha ormai sostituito a questi valori assoluti altri valori di gran lunga più prosaici: il sesso, la fama e il benessere materiale. E per questi valori Dio – per dirla con Judah – diventa un lusso che non ci si può più permettere, ed il senso di colpa perde la sua funzione originaria, anzi risulta francamente d'impaccio per continuare a vivere. L'uomo torna quindi ad essere homo homini lupus e, con questi presupposti, come kieslowskianamente ammette Levy, vero portavoce di Allen, "l'universo è un luogo assolutamente freddo. Noi investiamo in esso i nostri sentimenti, e in determinate condizioni sentiamo che il gioco non vale la candela". Il mondo, crudelmente ma imperturbabilmente, va avanti per la sua strada, fagocitando coloro che, come Levy, Cliff e Ben, sono incapaci di adeguarsi ad esso, e lasciando lungo la strada i pietosi resti dei loro fallimenti esistenziali.
Rifiutata una concezione religiosa o etica della vita, non c'è più nulla che venga in soccorso. L'amore, che in altre occasioni salvava i personaggi alleniani (basti pensare al Mickey di "Hannah e le sue sorelle" o allo stesso Danny Rose), in "Crimini e misfatti" è sopraffatto dalla soverchieria, dalla meschinità morale e dall'opportunismo. Le parole di Levy poste al termine del film e pronunciate fuori campo mentre assistiamo al ballo di Ben con la figlia ("Gli avvenimenti si snodano così imprevedibilmente, così ingiustamente, che la felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della Creazione. Siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all'universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembrano avere la forza di insistere, e persino di trovare gioia nelle cose semplici, nel loro lavoro, nelle loro famiglie, e nella speranza che le generazioni future possano capire di più"), sembrerebbero invero aprire uno spiraglio alla speranza. Ma, a parte l'impressione che questa altro non sia che l'ennesima, caustica beffa del regista (se si esamina attentamente la sequenza si comprende infatti come ciò che Allen fa dire al filosofo viene ironicamente contraddetto, parola per parola, dalle immagini che simultaneamente scorrono sullo schermo e che sintetizzano la vicenda in un incongruo e straniante montaggio parallelo immagine-sonoro), e anche volendo ammettere l'esistenza di questa speranza, non si può nascondere che essa assomiglia moltissimo a ciò di cui parlava Franz Kafka quando, rispondendo alla domanda di Gustav Janouch se al di fuori di questo mondo che conosciamo c'è ancora speranza, affermava: "Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi".
Perfino l'arte, che costituirà l'approdo positivo di più di un film del regista (da "Alice" a "Ombre e nebbia"), non fa qui che confermare in negativo la vita. Le immagini di Judah e Dolores che litigano, rinfacciandosi il passato, sono contrappuntate da un eloquente spezzone de "Il signore e la signora Smith" che sembra ripetere in fotocopia la scena precedente; e quando Jack propone a Judah di eliminare la donna, Allen fa ironicamente seguire un analogo trailer (tratto da "Il fuorilegge" di Tuttle), con in più l'ignaro commento di Cliff: "Per fortuna questo succede soltanto nei film". Siamo qui, come spesso avviene nelle opere di Allen, in una dimensione prettamente metacinematografica. Arte e vita si intrecciano e, contro ogni aspettativa, è la vita a copiare l'arte, e non viceversa. Da "Provaci ancora, Sam" (dove Allan Felix trova il modo di essere se stesso ripercorrendo le orme di Bogart) fino a "Misterioso omicidio a Manhattan" (in cui il protagonista, dopo aver vissuto una esperienza identica a quella de "La signora di Shanghai", esclama: "Non dirò più che la vita non imita l'arte!"), nella filmografia di Woody Allen è tutto un susseguirsi di originali commistioni tra cinema ed esistenza reale, le quali vanno al di là della semplice cinefilia (basta ricordare la pirandelliana irruzione nella realtà dei personaggi de "La rosa purpurea del Cairo").
In "Crimini e misfatti" Woody Allen non si lascia sfuggire l'occasione di prendere sarcasticamente le distanze del cinema hollywoodiano. Lo spunto narrativo dal quale il film prende le mosse non si può – è vero – definire una novità, essendo stato sfruttato centinaia di volte da Hollywood, ma mentre Hollywood non ha mai rinunciato all'usuale parabola drammaturgica delitto -> senso di colpa -> pentimento -> espiazione -> redenzione, Allen sorprende tutti, rinunciando al lieto fine consolatorio e moraleggiante. E a Cliff che cerca di dimostrare a Judah perché l'assassino avrebbe convenienza a costituirsi, "perché così la sua storia avrebbe proporzioni tragiche", Judah risponde: "Ma questa è fiction, questo è cinema. Lei vede troppi film, e io sto parlando della realtà. Voglio dire, se vuole un lieto fine vada a vedere un film di Hollywood".
"Crimini e misfatti" si stacca dal classico film hollywoodiano (ma anche dal solito film alleniano) per l'ulteriore motivo che in esso l'elemento comico convive con pari dignità con quello drammatico, e nessuno dei due prevale sull'altro. Certo, non mancano le battute folgoranti che sembrano riesumare lo stand up comedian degli esordi. Eccone un piccolo campionario. Halley (riferendosi a Lester): "Dopotutto è un fenomeno americano"; Cliff (caustico): "Anche le piogge acide lo sono". Oppure: "Il mondo dello spettacolo è peggio di lupo mangia lupo, è lupo che non risponde alle telefonate di altro lupo". O ancora: "L'ultima donna in cui sono stato dentro era la Statua della Libertà". La comicità non ha però in "Crimini e misfatti" una funzione puramente esteriore (tesa esclusivamente a suscitare la risata), ma al contrario riveste un ruolo che potrei definire contrappuntistico. Siccome il film è costruito come un teorema, del teorema Allen si impegna a conservare la freddezza e la rigorosità, preservandolo dallo scottante realismo delle situazioni. Per evitare che il pubblico partecipi in maniera eccessivamente sentimentale alle sorti dei personaggi, Allen utilizza la comicità in funzione straniante, come elemento di distanziazione e di decantazione emotiva. Così una scena "forte" viene sovente ridimensionata da una battuta buffa, in modo che alla fine di essa emergano le implicazioni morali piuttosto che i cascami sentimentalistici e melodrammatici (è un po' il procedimento che utilizza anche Cechov nelle sue commedie). Così facendo Allen realizza un mix di climi narrativi, affrancandosi per la prima volta in maniera totale tanto dalla vecchia e ingombrante comicità del passato quanto dal fantasma di Bergman che i critici più premurosi si affrettavano ogni volta a riesumare per stroncare i tentativi "seri" del regista. I risultati sono eccellenti, al punto che anche l'interpretazione degli attori (Alda e Landau su tutti) ne esce valorizzata. Mi sembra ad esempio che mai come in questo film Allen abbia dimostrato, senza bisogno di ripetere il cliché dello shlemiel sfigato, di essere anche un grande attore. Nella scena della telefonata ad Halley, per esempio, il viso di Cliff passa attraverso una straordinaria gamma di espressioni (dalla fastidiosa inquietudine di non trovare la donna in casa, al sollievo di sentirla rispondere, al doloroso sgomento di scoprire che con lei c'è Lester), mentre in quella in cui egli viene informato, sempre telefonicamente, della morte di Levy, il frivolo cicaleccio con la nipote si spegne in una indimenticabile smorfia di delusione.
La vis comica che trapela, sia pure in forma amarognola, da "Crimini e misfatti" serve anche a rendere il film meno saggistico e dottrinale, anche se, obiettivamente, la parte filosofica appare preponderante rispetto a quella propriamente cinematografica. Non sono però d'accordo con Franco La Polla quando afferma che "Allen si sta allontanando sempre più dal cinema" e che "Crimini e misfatti" "pare quasi una rinuncia alla forma… in favore di un problema etico appassionante e fondamentale, al prezzo di concepire il film come un pulitissimo, addirittura accuratissimo, esercizio di noncuranza". La Polla riconosce – è vero – all'ultimo Allen l'affinamento delle capacità tecniche e l'eleganza della confezione, ma il problema è un altro. "Crimini e misfatti" a mio avviso non sarebbe quello che è, cioè non imporrebbe le sue problematiche con tale intensità e non avrebbe quell'impatto contenutistico che lo rende memorabile, se non fosse girato con quel preciso (e intendo dire precisamente quello, e nessun altro) stile cinematografico.
In primo luogo bisogna rilevare l'assoluta prevalenza dei piani sequenza. La macchina da presa infatti non è quasi mai ferma, ma segue instancabilmente i personaggi in lunghi ed elaborati movimenti privi di stacchi, i quali hanno, secondo il mio parere, come principale effetto quello di radicare maggiormente i personaggi nel loro ambiente. In assenza dei classici campi-controcampi, con lo sfondo spesso indistinto e innecessario che funge quasi da quinta teatrale, i personaggi di "Crimini e misfatti" interagiscono con oggetti, persone, spazi che li circondano, anche a costo di sacrificare le proporzioni e la simmetria dell'inquadratura (come nella scena in cui il viso di Dolores, durante il dialogo con Judah, viene coperto da un armadietto, oppure in quelle inquadrature con più persone in cui alcuni personaggi vengono tagliati o ripresi di spalle). Questi movimenti di macchina contribuiscono anche, grazie alle maggiori informazioni realistiche messe a disposizione dello spettatore, a definire psicologicamente i personaggi senza che il regista sia per forza costretto ad assumere il loro particolare punto di vista. Combinando il massimo di obiettività psicologica con il minimo di compromissione emotiva, Allen realizza una performance tecnica di tutto rispetto, tanto più apprezzabile in quanto il virtuosismo è abilmente dissimulato dietro un approccio fintamente noncurante e dilettantesco (ma a volte la sapienza registica emerge ugualmente, come nella sequenza in cui la camera scivola lentamente dal volto di Judah fino a quello di Dolores morta, accomunando entrambi in un'unica espressione di muto sgomento). Questa tendenza nell'uso della macchina da presa subirà nella filmografia di Allen un'ulteriore evoluzione (per certi versi peggiorativa, tranne che in "Mariti e mogli"), con film in cui un uso mosso e nervoso dell'obiettivo mira a dare l'impressione di una captazione della realtà non mediata da troppi studi a tavolino. Se negli interni la macchina riprende costantemente i personaggi da vicino (ma non in maniera pedissequa, giacché non è neppure il caso che un personaggio entri ed esca più volte dall'inquadratura), negli esterni Allen attribuisce come di consueto un'importanza preponderante a paesaggi, scorci e vedute di New York, attraverso l'uso privilegiato di campi lunghi (con i personaggi che spesso entrano in campo a sequenza iniziata) che valorizzano la fotogenicità (e la lontananza dai cliché abituali) dell'amata metropoli.
Anche la fotografia di Sven Nykvyst gioca un ruolo fondamentale nell'economia stilistica del film, in quanto la raffinatezza dei colori (tendenti, nell'episodio di Judah, al giallo e al seppia) e delle luci è funzionale a descrivere tanto il dècor di personaggi appartenenti alla medio-alta borghesia quanto il clima di corruzione e di disfacimento morale che aleggia intorno a loro. In certi casi, gli effetti visivi sono particolarmente efficaci, come nella onirica scena ambientata di notte nella casa di Judah, con il temporale che imperversa all'esterno e le luci dei lampi che illuminano a giorno le stanze, rivelando a un certo punto la presenza inaspettata di Ben. Il temporale, con la sua forte carica di violenza in atto, ricorre più volte nel film a contrappuntare la drammaticità delle situazioni. Allen non esita infatti a ricorrere a questi espedienti per accentuare la resa simbolica delle scene, attingendo, dove occorre, anche al profilmico. Intendo far riferimento soprattutto alla musica, il cui ruolo nel cinema alleniano è sempre stato molto importante, ma che in "Crimini e misfatti" raggiunge punte di intensità straordinaria con il primo movimento del Quartetto n° 15 op. 161 di Schubert, il quale contrassegna in maniera perfetta le scene drammatiche dell'omicidio dell'amante e del ritorno del protagonista nel medesimo luogo.
Alla complessità stilistico-formale del film si deve aggiungere la complessità dei piani temporali. Allen è spesso ricorso all'utilizzo dei flashback, ma in "Crimini e misfatti" sembra voler sfuggire alla automaticità del classico meccanismo insorgere del ricordo -> immagine del passato. Ad esempio, in una breve scena del primo tempo, vediamo dapprima Judah in automobile e successivamente le immagini del flashback relativo al primo incontro con la Dolores in aereo; sulla conversazione alquanto formale che inizia tra i due si innesta, sovrapponendosi ad essa, un ulteriore ricordo, quello del bacio in un corridoio d'albergo, il quale, collocandosi un po' più avanti nel tempo, opera una confusione temporale dialetticamente molto stimolante. Questa confusione diventa estrema laddove nella stessa scena vengono a coesistere passato e presente (è il caso della riunione della famiglia di Judah, che diventa il pretesto per discutere il problema morale di quest'ultimo) oppure realtà e sogno (come nella sequenza già descritta del temporale). La predilezione alleniana per l'ellissi è infine agevolata dall'alternanza tra la storia di Judah e quella di Cliff, la quale consente di realizzare, oltre a una grande varietà di modulazioni narrative, anche una velocità ed una agilità di racconto altrimenti impossibili. E' stata già riconosciuta l'importanza che in "Crimini e misfatti" ha la struttura narrativa del "doppio binario". La trovata migliore è però quella di far convergere le due storie nel finale, in quella lunga sequenza che, oltre a servire a tirare le somme e a ricavare la morale, è anche di una bellezza straziante. L'inquadratura che riprende Cliff e Judah seduti uno accanto all'altro, il primo ingobbito nel suo frac preso a nolo e con una espressione da cane bastonato, il secondo austeramente compreso nella sua inattaccabile posizione di uomo di successo, è un'immagine che stringe il cuore e che esprime, meglio di qualsiasi ulteriore considerazione astratta, il senso ultimo ed esaustivo di questo piccolo, splendido capolavoro.

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