Preda dell'alcol per consolarsi degli scarsi successi letterari, scrittore in crisi allontana da sé il fratello e la donna che lo ama. Tenta il suicidio, ma la donna non si rassegna...
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Presenti SPOILER! Ogni volta che mi appresto a vedere un film di Wilder cerco di convincermi di un fatto, vale a dire che è impossibile possa sorprendermi, non dopo aver visto quelli che, a tutti gli effetti, restano i suoi capolavori più celebri. Poi, però, ecco che la convinzione va letteralmente a farsi benedire... è successo con "Uno, Due, Tre." ed è successo anche con questo "Giorni perduti". Pur non rappresentando l'apice più alto mai raggiunto dal regista, questo resta comunque un film straordinario, una pellicola che molti registi non riuscirebbero neppure a sognarsi la notte di fare... e questo era giusto per dare un'idea dell'immensa grandezza di Wilder; non che ce ne fosse il bisogno visto di chi stiamo parlando, ma mi fa sempre piacere sottolinearlo. Il film in sé è un lucidissimo e terribile viaggio nella piaga dell'alcolismo, un viaggio estremamente povero di luci ma pregno di zone oscure... non ci sono sconti, non ci sono speranze, c'è solo una lunga, interminabile discesa che accompagna il protagonista fino al finale il quale, a pensarci bene, potrebbe tranquillamente avere due diverse interpretazioni. Il tutto viene ovviamente diretto con una maestria da far impallidire anche il più in gamba degli attuali cineasti... Wilder va dritto al punto, utilizza una fotografia particolarmente grigia e inquietante e regala un numero di scene memorabili davvero impressionante. Tra le tante come non citare quella in cui Milland si trova a dover fare i conti col suo personale "delirium tremens" e inizia a vedere un topo che rosicchia la parete di casa; oppure quella precedente, dov'è costretto ad assistere alle crisi degli altri pazienti in un enorme sala quasi completamente buia. L'oscurità delle immagini, unita alle terribili grida degli alcolizzati, sono un qualcosa di davvero pazzesco. Senza parlare poi della sceneggiatura, al solito più ferrea che mai. E il cast? Milland regala una performance di una bravura terrificante e si porta a casa meritatamente l'Oscar... se molte scene riescono a scuotere lo spettatore con una certa intensità il merito non va solo a Wilder, ma anche a lui. Fantastico! Non da meno, però, risulta essere la Wyman... in un ruolo minore rispetto a quello di Milland offre un'interpretazione tremendamente convincente; la sua tenacia e il suo amore verso il compagno sono semplicemente commoventi, tanto da portarla ad essere l'unica possibile ancora di salvezza di un uomo sempre più alla deriva. Il punto è, quest'uomo vuole davvero essere salvato? Difficile stabilirlo, e il finale se da una parte getta un'inaspettata luce di speranza dall'altra mette più di un dubbio sull'effettiva riconciliazione del protagonista con se stesso. Tutto è troppo rapido per pensare che la via della guarigione sia stata intrapresa nella maniera giusta, rapido e accondiscendente... e in netto contrasto con il resto della pellicola. Forse una scelta precisa del regista, forse no... non ci è dato saperlo. Fatto sta che, personalmente, adoro finali del genere! A ognuno la sua interpretazione.