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"Ti perdono. Tu non sai quello che fai"
"Non voglio il tuo perdono"
Kline è un detective che combatte il lungo strascico lasciatogli dallo scontro con un serial killer che usava i corpi delle sue vittime per delle installazioni. Accetta così l'incarico di trovare Shitao, il figlio di un ricco imprenditore, che è scomparso nelle Filippine.
Seguendo le sue tracce si trova a Hong Kong dove Meng Zi, un suo amico che lavora per le forze di polizia locali, lo aiuta nelle ricerche.
Nel frattempo Meng Zi lavora al caso di un piccolo boss del luogo, Su Dongpo, la cui fidanzata tossicodipendente è sparita durante un inseguimento.
Kline ha fatto un bruttissimo incontro, persino peggio di quelli che le persone come lui fanno per lavoro. Ha incontrato il serial killer di cui sono, per fortuna, pieni solo i film: uno psicopatico che si definisce un artista e che compone installazioni coi corpi delle sue vittime.
Scampato da poco al pericolo reale di diventare la sua prossima installazione, Kline si porta dietro gli incubi e qualche visione. Ma decide di rimettersi al lavoro, come sempre succede ai detective che non si fanno fermare dai cattivi. Almeno nei film. Nella realtà è molto probabile che, dopo un incontro simile, uno scelga di cambiare mestiere, città e magari pure continente.
Kline va dapprima a Mindanao, nelle Filippine dove incontra il precedente investigatore che si era dedicato al caso, e poi si reca a Hong Kong. Qua si fa aiutare da Meng Zi, un suo collega della polizia, che casualmente lo coinvolge nell'indagine a carico di Su Dongpo.
Quello che però Kline scoprirà quasi subito è che i due casi sono collegati e che Shitao, nonostante le notizie che lo davano per morto, è presente sul luogo di uno dei crimini connessi a Su Dongpo.
Sebbene non particolarmente originale, questo inizio è solo la facciata, dietro la quale il film prende lentamente una piega strana e visionaria.
Shitao è una figura molto particolare, e la sua abilità di assorbire il dolore e i mali delle persone lo rende presto un oggetto di venerazione. Annunciato da un evangelista pazzo, Shitao però si spinge pure un pochino oltre, e ritorna dalla morte.
Il suo ritorno sotto la pioggia lo rende praticamente un catalizzatore per tutti malati e gli storpi. E quando si imbatte in Lili, la fidanzata tossicodipendente di Su Dongpo, non può evitare di aiutarla.
Tran Anh Hung, regista de "Il Profumo della Papaia verde", "Cyclo" e "Solstizio d'estate", combina ambiziosamente il thriller con una potente metafora cristologica, la quale arricchisce non poco una trama in sé banale.
La costruzione non lineare rende leggermente barocca la rappresentazione, ma affascina con il semplice espediente di mostrare le cose senza contestualizzarle, spingendo a mano a mano il racconto verso il surreale e inducendo lo spettatore a credere fino alla fine alla metafora folle che si intuisce sin dalla prima apparizione di Shitao.
Tran Anh Hung usa la macchina come fosse un bisturi, e lentamente insinua nello spettatore una sensazione di complicità con i personaggi, anche quelli più neri, lasciandoli agire senza nessuna sottolineatura, a parte la trascinante musica dei Radiohead. Infatti le immagini più potenti sono quelle che ricalcano l'iconografia cristiana e nessun commento sarebbe in verità risultato adatto.
Il buon uso degli attori è uno dei cardini della riuscita rappresentazione. La combinazione di uno stropicciato Shawn Yue e di uno stranamente convincente Josh Hartnett crea una base efficace per le caratterizzazioni via via più accurate che incontreremo lungo il cammino. Elias Koteas è un freddo killer da incubo, mentre il sempre bravo Sam Lee presta il suo sguado allucinato all'evangelista folle.
Takuya Kimura è il pallido Shitao, cui è richiesta una sola espressione, quella dell'eterna accettazione, mentre Lee Byung-hun è un boss sufficientemente cattivo da decidere per una crocifissione sul posto dell'ingombrante guaritore.
In definitva si tratta di un lavoro accurato, da parte di un regista che ha già dato prova delle sue buone capacità evocative. Il tutto si contiene nei binari di un'onesta rappresentazione di quella che alla fine è una gigantesca metafora del significato che ciascuno attribuisce a sé stesso nel mondo in cui si trova ad agire.
E se anche potrebbe sembrare semplicistico il punto rimane sempre lo stesso: per le cose che ci sembrano inspiegabili a volte conviene prestare attenzione alle parole dei folli. In genere la sanno più lunga e non finiscono mai imbrogliati dalla ragione.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 18/02/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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