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"Ogni bambino contiene già i germi dell'uomo che diventerà"
Il 4 gennaio 1960 Albert Camus, scrittore e filosofo francese, premio Nobel per la letteratura del 1957 e uno dei padri dell'esistenzialismo ateo del '900, trovava la morte in un tragico incidente automobilistico, le cui dinamiche non sono state mai del tutto chiarite (si parla di un attentato del KGB come ritorsione per alcuni articoli scritti dallo stesso Camus contro l'invasione dell'Ungheria da parte della Unione Sovietica, ma è solo una supposizione). Un autore in rivolta contro gli schemi ideologici che si andavano cristallizzando nell'Europa della metà degli anni '50.
All'interno della macchina semidistrutta fu rinvenuto un manoscritto con alcune correzioni e cancellature e diverse varianti. Era la bozza incompiuta del romanzo "Le premiere homme" che Camus portava con sé al momento dello schianto mortale contro un albero, avvenuto nei pressi del comune di Villeblevine nell'Yonne.
Dopo un meticoloso lavoro di riordino il libro, ultimo atto di una ricerca di sé e del senso del proprio tempo, in cui sono contenuti i punti cruciali sulla sua visione filosofica della vita, venne pubblicato postumo nel 1994 a cura della figlia di Camus, Catherine.
Traendo ispirazione da quelle pagine rimaste incompiute, dopo aver ottenuto il benestare di Catherine Camus, nel 2011 il regista Gianni Amelio ha realizzato il film "Il primo uomo", che traduce per immagini le parole e il pensiero del grande scrittore francese, considerato tra i più influenti del XX secolo.
Un'opera in cui passato e presente, infanzia e maturità si intersecano con il valore della coesistenza e dell'integrazione contrapposta alla realtà dell'integralismo e della radicalizzazione ideologica e religiosa. Una narrazione complessa, commovente, e autobiografica basata esclusivamente sulle emozioni, le impressioni, il pensiero del protagonista, che Gianni Amelio ci restituisce con intelligenza, puntando direttamente al nucleo del pensiero di Camus.
Complice anche il fatto che ci sono molte analogie biografiche tra lui e il filosofo francese, accumunati da vicende esistenziali lontane nel tempo ma vicini nella sostanza, come ad esempio: contesti familiari poverissimi, infanzie indelebilmente segnate dall'assenza della figura paterna (il padre di Camus morto giovanissimo nella battaglia della Marna durante la I guerra mondiale, quello di Amelio emigrato in Argentina e mai più ritornato), entrambi allevati in famiglie rette da nonne severe e dispotiche, ma attente a colmare assenze e privazioni, entrambi costretti a lavorare giovanissimi, entrambi aiutati negli studi da insegnanti lungimiranti, entrambi vissuti in terre di confine (l'uno nell'Algeria al tempo del conflitto per l'indipendenza dalla Francia, l'altro nella Calabria dei tanti problemi irrisolti del nostro Mezzogiorno), entrambi presi dalla stessa fascinazione per il cinema.
Come se, sottolinea il regista, Camus gli avesse dato modo di raccontare, oltre che fatti della sua vita, anche fatti della propria che altrimenti non avrebbe avuto mai il coraggio di raccontare.
La rievocazione con cui egli ricrea la propria e l'altrui infanzia è dunque intensa e sentita proprio per questa quasi identicità che fa dell'uno una sorta di alter ego dell'altro. E' proprio su questo dualismo biografico che Gianni Amelio costruisce il film omonimo che si svolge su due linee temporali parallele: l'infanzia del protagonista nel primo dopoguerra e la sua maturità negli anni '50.
Protagonista della storia è dunque Jean Cormery (ovvero lo stesso Camus), nato in Algeria da una famiglia di modesti coloni francesi e attualmente residente in Francia dove è diventato un intellettuale e uno scrittore di successo.
Nel 1957 decide di tornare nel paese d'origine per tenere una conferenza all'Università di Algeri, organizzata dai circoli studenteschi, che gli chiedono di prendere posizione a favore delle legittime aspirazioni degli indipendentisti del FLN, che si preparano alla guerra di liberazione dalla Francia colonialista di allora.
La sua posizione, però, difficile e controversa, finisce per scontentare tutti, rivolta com'è alla mediazione politica, comprensiva sia delle ragioni del popolo algerino che rivendica il diritto all'indipendenza, sia delle ragioni dei pieds-noirs, algerini di origine francese che non vogliono abbandonare la terra in cui sono nati. Una posizione, quella di Cormery, tesa a favorire il dialogo e la convivenza pacifica e contraria sia al terrorismo anticolonialista degli algerini che all'oltranzismo nazionalista francese (Camus fu accusato di immobilismo politico dai colleghi Sartre e Jeanson che sostenevano la piena indipendenza dell’Algeria), che provoca l'aspra contestazione sia dagli studenti algerini di origine araba, in quanto pieds-noirs e figlio di pieds-noirs egli stesso, sia dai suo connazionali francesi che, nel suo appoggio all'indipendenza algerina, lo considerano un traditore.
Il ritorno in Algeria, devastata dal conflitto franco-arabo, e l'incontro con l'anziana madre Catherine, gli offre, però, l'occasione di iniziare un viaggio a ritroso nella memoria che lo riporterà nei luoghi della sua infanzia, povera ma vitale, rivisitata nei suoi ricordi e attraverso le parole di tutti coloro che gli hanno consentito di costruire se stesso come uomo: in primo luogo il suo antico maestro di scuola che per primo riconobbe in lui il germe dell'uomo che sarebbe diventato ("ogni bambino contiene già i germi dell'uomo che diventerà", era la frase che gli ripeteva spesso e che ha segnato la sua vita), verso il quale nutrirà sempre enorme riconoscenza.
E poi lo zio Etienne un po' debole di mente e il compagno di scuola arabo Hamoud, che in classe aveva sempre rifiutato la sua amicizia e che ora gli chiede aiuto per salvare suo figlio, in carcere accusato di attentati terroristici.
Avrà così modo di visitare il casolare in cui sua madre lo mise al mondo sotto gli occhi stupiti di un gruppo di bimbi algerini, e il cimitero di guerra in cui, tra le tante lapidi è sepolto suo padre, mai conosciuto e morto in guerra nel 1914.
Il ritorno in Algeria finisce però col costituire una sfida per l'intellettuale Cormery, alle prese con la riconsiderazione del liquido significato di patria e di terra nativa.
Emergono così le due figure femminili particolarmente significative della sua infanzia: la madre affettuosa e remissiva, ma poco influente nella sua crescita; e la nonna paterna, donna autoritaria e severa, inflessibile e indurita dalla miseria e dalle privazioni, fondamentale nella sua educazione (le sue punizioni con la frusta sono quasi un rito per assicurare al nipote un comportamento retto e onesto); entrambe analfabete e sole (il padre, figlio di coloni francesi nativi di Bordeaux, era morto precocemente "per difendere un paese non suo" come ebbe a scrivere lo stesso Camus nel suo romanzo); ed emergono le sue impressioni e le sue emozioni, l'infanzia povera, le amicizie, i giochi, le tradizioni, i sogni, le prime sigarette condivise con lo zio e la figura del "primo uomo", l'uomo in pectore che c'è in ciascuno di noi ma che non in tutti è dato rivelarsi.
Vuol dire rivedere i luoghi della sua povera infanzia, ritrovare l'antico insegnante che riconobbe in lui il "germe dell'uomo che sarebbe diventato", grazie a cui potè beneficiare di una borsa di studio che gli permise di proseguire gli studi al liceo e poi all'Università di Algeri. Vuol dire soprattutto ritrovare il ricordo di quel padre mai conosciuto, morto quando era poco più che un neonato.
Il film, nato dal connubio Gianni Amelio e Albert Camus, nel corso del suo lento alternare momenti di grande tensione e altri di respiro più trattenuto, diventa un'opera politica che scivola morbidamente nell'oggi, scolorando l'incanto di ieri in un carosello di caos e di conflitti etnici non ancora risolti. Ieri come oggi, lo stesso odio razziale, la stessa violenza cieca di chi si ribella, la stessa prevaricazione del forte sul debole, lo stesso desiderio di libertà e di giustizia.
Ma il film, che ci regala un ritratto poetico dell'Algeria e ci offre molti spunti di riflessione, è anche un inno intimo e poetico sul destino dell'uomo contemporaneo, sul rapporto tra padre e figlio, su quelli che hanno operato scelte diverse, su quelli che stanno da una parte e chi dalla parte opposta della barricata. Un film sulla povertà e la ricchezza, sulla necessità di scegliere quando è impossibile restare neutrali, sull'attaccamento alle proprie radici ma anche sul bisogno di andare oltre, sul valore della cultura come veicolo di emancipazione e mezzo per affrancarsi, per poi, magari tornare indietro, più consapevoli e più determinati, per affrontare e risolvere (forse) conti irrisolti nel presente.
Un humus, questo, che nutre i personaggi e le loro azioni.
Un humus che Amelio incentiva forzando la mano sull'aspetto politico e ideologico, che fa derivare l'incipit non tanto dal desiderio di Jacques Cormery di ritrovare la memoria del padre morto, quanto dalla necessità, e la seconda parte del film insiste parecchio su questo risvolto razziale, di aiutare l'amico arabo che vive il dramma della condanna a morte del figlio diciottenne accusato di partecipazione ad uno dei numerosi attentati terroristici che ai tempi insanguinarono le strade della capitale algerina (tentativo comunque destinato al fallimento).
E poi nell'impegno contro la dissennatezza della guerra fratricida e sull'aspirazione alla convivenza pacifica tra arabi e francesi, divulgata nel corso di una famosa dichiarazione radiofonica, nella quale espose la sua posizione politica, profondamente emozionale sul valore della solidarietà, frutto della consapevolezza e dell'esperienza ormai acquisita, che ruota attorno alla frase "Si j'avais à choisir entre cette justice et ma mére, je choisirais encore ma mére" (in realtà la ormai celebre frase,che ha contribuito per tanti a qualificarlo come filosofo di destra, Camus la pronunciò in occasione del discorso per il ritiro del premio Nobel). Una frase considerata da Amelio molto riduttiva del pensiero del filosofo, che l'ha spinto, come spiega lo stesso regista, a "decontestualizzarla" e inserirla in una scena molto più significativa e, forse, anche più vicina al vero significato che Camus voleva darle, sfrondandola così del sospetto di reticenza conservatrice sulla questione franco-algerina, che per anni ha macchiato il pensiero dell'intellettuale francese.
Lo stile con cui il regista calabrese porta in scena le vicende di Cormery/Camus è come sempre asciutto ed elegante, privo di inutili infarcimenti estetici e di superflui virtuosismi.
La messinscena colpisce per la grande intensità del linguaggio poetico, ed è impreziosita da una fotografia che ritrae i caldi colori mediterranei di quella terra; un paese difficile ma solare, intriso di sole e di mare, e di profumi che quasi si percepiscono e inebriano. Il tutto amalgamato da una suggestiva colonna sonora, ricca di canzoni popolari e musiche dal sapore fortemente esotico.
Il risultato di questo lavoro è un film profondamente intimo e sincero, costruito sul fascino e sulle le emozioni che i ricordi esercitano, specie se legati all'infanzia, soprattutto su chi giunto alla soglia della maturità si ritrova a fare il bilancio della propria esistenza come atto su cui riflettere per affrontare il futuro.
Il volto intenso e malinconico di Jaques Gamblin, attore transalpino, possiede il carisma necessario per sintetizzare al massimo una figura complessa come quella di Cormery e per tenere insieme le fila di questa complessa opera estetica di testimonianza, al tempo stesso storica e personale.
Lo affiancano una schiera di nomi che valorizzano tutti i ruoli, anche i più piccoli, a cominciare da una bravissima Catherine Sola nelle vesti della madre di Cormery, interpretata in gioventù da una convincente Maya Sansa.
Il film che, come dice Amelio, non è un film sulla guerra d'Algeria come lo è "La battaglia di Algeri" di Gillo Pontecorvo, ma un film su una guerra che divide due etnie, si chiude sul volto e sullo sguardo senza parole di Catherine Cormery che guarda uno scorcio di terra che ostinatamente si ostina a sentire visceralmente suo ("la Francia è bella, ma non ci sono gli arabi"), malgrado le bombe, malgrado tutto.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 31/07/2013 15.46.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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