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Do-Joon è un giovane dalle limitate capacità mentali che vive con sua madre. Un giorno viene accusato dell'omicidio di una ragazza del luogo e sua madre, non credendo alla sua colpevolezza, cerca con tutti i mezzi di indagare sull'accaduto.
La madre di Do-Joon non ha un nome. È soltanto un'archetipo, quello della Madre sacrificale. La Madre non ha altro scopo nella vita che il suo unico figlio. Un figlio stranamente lento a pensare e decisamente tardo a ricordare. Un figlio accusato di un omicidio che lei non crede assolutamente che lui possa aver commesso. Così si rimbocca le maniche e si da da fare.
Prima di tutto coinvolge l'amico del figlio, la cui frequentazione non aveva mai approvato. Poi passa alle amiche dalla morta e ai suoi presunti amanti e infine scopre qualcosa. Quello che però non si scoprirà mai, in verità, è che cosa è davvero successo quell'unica sera in cui Do-Joon è andato fuori a bere.
Certo la ragazza in questione è un tantino chiacchierata, ma non è questo il punto. Nemmeno il suo cellulare, perso e ritrovato può davvero dare una risposta. L'unica possibilità sembra essere un eventuale testimone. E qui la faccenda si fa complicata. La madre si trova di fronte a una scelta e quando agirà sarà solo d'impulso, esattamente come non aveva mai pensato di agire.
Bong Joon Ho racconta con passione un'altra indagine, anni dopo quella di "Memories of Murder", e come in quel caso lascia cadere insinuazioni all'interno di una trama che solo in apparenza può sembrare semplice.
La madre del titolo è più che altro una funzione, prima ancora che un essere umano. È il concetto di protezione portato all'estremo. E Bong ha una grande abilità nel tessere il racconto degli estremismi cui si può arrivare, a volte in situazioni che lo richiedono. La storia si apre sul racconto di un fallace equilibrio familiare, e si chiude con l'immagine di un nuovo equilibrio. Nel mezzo tutto quello che un cuore umano può concepire nella più classica delle distorsioni del concetto di amore.
La regia è perfetta, pulita, a tratti spietata nel suo mostrare tutto quello che mai avremmo potuto sospettare solo all'inizio del viaggio.
L'ambiguità morale di cui il racconto sembra ammantato è uno dei cardini delle riuscite rappresentazioni del regista. La madre è là, a testimonianza del fatto che nessuno è esente da ombre, e che Bong non crede mai fino in fondo nella bontà delle intenzioni umane. Come nel suo primo lavoro, il bellissimo Barking dog never bite, ci racconta una storia, insinuando silenziosamente all'interno di un quotidiano mai rassicurante, la sua sfiducia nell'essere umano e il suo fastidio per l'ipocrisia. La polizia, come spesso nei suoi film, è incapace di trovare una reale soluzione al problema, se non addirittura assente quando servirebbe di più.
Bong non ha mai nascosto il suo pessimismo nei confronti delle autorità e spesso, anche se non con un'aperta condanna, ma piuttosto col suo stile sottile e a tratti intrigante, ne ha denunciato l'incapacità. In questo caso la polizia, come anche tutti i comprimari, sembrano lontani, addirittura sfocati al confronto con la nitidezza delle intenzioni e dell'ardore della madre. E forse è per rafforzare questa sensazione che ella non ha nome. È solo un'impulso.
Dapprima ha una comprensibile reazione di incredulità, poi si trasforma in un'efficiente detective, molto più svelta di quasiasi poliziotto. E solo alla fine la vera natura della donna viene a galla.
E non sempre è il caso di mostrare quello che potremmo non essere in grado di intuire sul conto di una madre.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 09/11/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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