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"Primo amore". Perché "Primo amore"? Chi ha una minima conoscenza dei fatti di cronaca che il film narra si sarà chiesto il motivo di questo titolo, da essi apparentemente tanto distante.
La distanza però non è tale se nel concetto celeste di amore si fanno entrare le debolezze umane, le ossessioni e il disequilibrio (de)generato dal possesso.
Sullo sfondo il Veneto del più grande amore letterario, che di shakespeariano ha però solo il connubio fra passione e tragedia. Nelle immagini due vittime. Sonia è una bella ragazza, serena e sorridente, martire manifesta di un sentimento gioioso che si scopre deviato. Vittorio è ombroso, concentrato su se stesso, malato, il persecutore impietoso che subisce un carnefice ancora più feroce: la sua mente.
Si incontrano, verosimilmente attraverso una specie di annuncio, e si poggiano l'uno sull'altro, divengono l'uno il progetto dell'altro. Lei creta nelle sue mani, lui tiranno da assecondare nella insana speranza di poter essere così fonte di guarigione.
Come Peppino (protagonista de "L'imbalsamatore") anche il nuovo protagonista scelto da Garrone è un artigiano, un orafo per la precisione. Visioni infette lo portano ad applicare alla sua esistenza le dinamiche del suo lavoro: Sonia deve diventare un gioiello, deve essere oro modellato e lucente, deve possedere quello che lui crede bellezza. La stringe in una morsa, la isola, la priva della voglia di vivere. Vuole eliminare da lei ciò che non serve, come un Dio, vuole renderla pura. Così la distrugge, così annulla l'umanità che la rende uguale agli altri.
Lei non si sottrae, è rapita, ammaliata, compiacente, persuasa che il gioco macabro messo in piedi sia solo un modo per avere più amore ed essere più felici. Quando il suo peso sarà quello che desidera il suo amante, quando la bilancia si poserà sul "40" si potranno fermare. Potranno respirare. Potranno amarsi finalmente. Vale la pena di soffrire per un Amore.
Non ci sono appigli, non c'è speranza. Nessun foro fa intravedere la luce perché la luce non c'è.
Solo l'infelicità. Scura. E' l'infelicità la chiave di accesso a questa opera.
L'infelicità che si genera da sola e che diventa addirittura attraente. Non c'è una via di fuga da questa malia, non c'è modo di scappare dalle prigioni che ci costruiamo soli.
Vittorio lavora dietro delle inferriate, il suo laboratorio è una gabbia così come la sua vita, così come le giornate e l'esistenza di chi ha voluto al suo fianco.
Le parole sono poche ed esitanti e le immagini si fanno cullare da questa sobrietà verbale. Luce e colore parlano. Sonia e Vittorio accennano sempre brevemente a quello che sta accadendo. Se lo spettatore avesse solo le frasi che si scambiano per valutare il loro rapporto, fino alla fine la sua idea non abbraccerebbe la realtà. Una sola volta i due affrontano, sempre con poca incisività e chiarezza, il tormento che li sta risucchiando. Sono in barca: il verde intorno e il lago a cullarli. Loro però non ci sono, sono due ombre, due fantasmi. Due figure sbiadite su un quadro luminoso.
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Recensione a cura di Dulcinea - aggiornata al 31/05/2004
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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