Voto Visitatori: | 8,73 / 10 (94 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
Camillo Mastrocinque, più volte definito "onesto artigiano", capace però di confezionare prodotti interessanti ancora oggi, dirige l'ennesima prova di una delle migliori coppie comiche del cinema mondiale: Totò, al secolo Antonio De Curtis, e Peppino De Filippo.
Siamo nel 1956 e Totò è all'apice del successo cinematografico: gira infatti più pellicole contemporaneamente ed è campione d'incassi ma - triste rovescio della medaglia - è bistrattato dalla critica di mestiere che scrive su di lui articoli al limite della querela.
Il canovaccio del film diretto da Mastrocinque è effettivamente molto elementare, decisamente poco adatto agli annali della cinematografia e si basa molto, forse totalmente, sulla verve degli artisti, sulle loro capacità improvvisative e soprattutto sull'ottimo sodalizio che coesiste tra il comico Totò e la celebre spalla De Filippo.
La storia è fondamentalmente un "musicarello" , un film cioè concepito come traino ad una canzone celebre, nella fattispecie scritta proprio da De Curtis. Il genere filmico, appartenente inevitabilmente alla filmografia di serie B, era particolarmente coltivato negli anni Cinquanta e partiva nell'intreccio dalle basi della sceneggiata napoletana con protagonisti: isso, buono onesto ma in un determinato frangente sul punto di traviarsi; essa, l'innamorata dolce e illibata e o' malamente (il villain shakespeariano). Intorno a questi una serie di personaggi minori tra cui l'immancabile mamma e i buffoni.
Mastrocinque sovverte l'intreccio classico per fare dei buffoni i protagonisti, mentre l'innamorato (un giovanissimo Teddy Reno non ancora scopritore e consorte di Rita Pavone) e la sua fidanzata (Dorian Gray, soubrettina italiana dallo pseudonimo letterario, popolare per le sue "grandi forme") rimangono confinati ad apparizioni.
Pur girato con grande povertà di mezzi e di pretese, il film risulta invece senz'altro come una delle migliori prove di Totò, pieno di sketch che sono rimasti nella storia del cinema comico, primo fra tutti la celebre "lettera" ripresa e rivista in seguito da molti comici ma mai eguagliata (tra tutti si ricorda la coppia Benigni-Troisi in "Non ci resta che piangere") o l'incontro con il vigile in Piazza Duomo a Milano con quel "noio vulevons savuar..."
L'ilarità di quest'ultima scenetta vuole invece affrontare un tema serio che per gli italiani di oggi abituati a parlare tranquillamente la lingua ufficiale "toscana" e a viaggiare senza grossi problemi potrebbe apparire non sense. Nell'Italia anni Cinquanta, dieci anni dopo la guerra il "viaggio" specie da Nord a Sud era visto come un'incognita perigliosa, con un conflitto interiore sul senso di appartenenza (rappresentato dalla necessità di portarsi appresso cibo e animali), ma soprattutto per chi, come i personaggi interpretati da Totò e Peppino, non aveva avuto possibilità di studiare, la "barriera" linguistica risultava quasi insormontabile (il dialetto napoletano non ha quasi niente in comune con il lombardo).
Ecco quindi che Totò tra i frizzi e i lazzi fa anche denuncia sociale! Il critico dell'epoca, fanatico di opere intellettuali, non graziava però i tentativi del comico mettendolo alla berlina e dimenticando di osservarne ed esaltarne le indubbie capacità.
Considerando scarso il plot della storia, invece, ancor di più onore e merito a regista ed interpreti principali che sono riusciti a costruire un piccolo capolavoro.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 04/10/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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