La vita dell'imprenditore italiano che ha dato il nome alle celeberrime automobili di lusso, in un biopic che si concentra più sulla sua figura di uomo, dal punto di vista privato, che su quella pubblica.
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Dopo "Blackhat" Mann torna a muoversi fuori dagli Usa e lo fa con un film accarezzato e voluto da decenni. Il suo "Ferrari" non è (e non poteva essere altrimenti) un semplice e banale biopic riepilogativo della vita di Enzo Ferrari: è un cupissimo film sulla morte, la perdita, la sconfitta che colpiscono anche i più "grandi", quelli che mai ci si aspetterebbe alle prese con le difficoltà più nere della vita. E invece Mann decide di raccontare il matrimonio ormai defunto di Ferrari (verso cui è rivolto l'unico sparo del film, di un regista che invece ha sempre fatto sparare molto i suoi personaggi), la storia parallela con un figlio che non ha il cognome di suo padre, le sconfitte umane e sportive dei suoi piloti, "mandati a morire" dal cinico Ferrari. Riferimenti continui alla sconfitta (nel più ampio senso del termine), alla morte, alla mancanza, al fallimento (finanche societario-finanziario): Ferrari è ingabbiato da se stesso, da una mascolinità superflua, poi puntualmente salvata dalla moglie rinnegata. Ci sono momenti in cui si percepisce un Mann forse non totalmente a suo agio all'interno di un mondo cinematografico/estetico che non è propriamente il suo: ma nello stile, nella poetica, nell'oscurità crepuscolare, nel racconto del fallimento e della morte e non della vittoria e della gloria, sta la forza di un altro grande lavoro di un regista tra i più importanti e innovativi degli ultimi 40 anni.