Sei un blogger e vuoi inserire un riferimento a questo film nel tuo blog? Ti basta fare un copia/incolla del codice che trovi nel campo Codice per inserire il box che vedi qui sotto ;-)
Il primo film a colori del regista. Uno dei più cupi e pessimisti della sua carriera. Girato sull'isola di Faro nel pieno del periodo più sperimentale, ha in comune col precedente 'la vergogna' l'analisi profonda dei meccanismi di fronteggiamento di alcune persone difronte a determinati eventi traumatici. Ciò introduce ai temi più importanti analizzati tramite i ritratti dei quattro protagonisti, ossia la solitudine, la differenza di interpretazione della sofferenza, i sensi di colpa legati al ricordo, di cui l'uomo è indissolubilmente vittima. Nettissima l'influenza di Kierkegaard e in minima parte del solito Strindberg, oltre a gran parte della cultura nordica che il regista tanto ama, come è stato sottolineato nel validissimo commento che precede il mio. Ma credo che per quanto l'impianto narrativo sia (volutamente) scarno, l'analisi introspettiva dei personaggi sia incredibilmente valida e spunto delle 'solite', numerose riflessioni. Ciò eleva 'the passion of anna' (titolo originale del film) a opera di assoluto spessore pur nella sua estrema intellettualità e problematicità. Rispetto a tutti gli altri film di Bergman c'è un elemento di parziale novità, ossia dei brevi interventi fuori campo dei 4 attori che parlano dei rispettivi personaggi. Ciò contribuisce a fornire una chiave di lettura in più allo spettatore, e in un caso (quello della Andersson) a anticipare la conclusione della propria vicenda; conclusione che non viene mostrata nel film. Dei quattro personaggi è lecito parteggiare per tutti tranne che per quello interpretato da Josephson. E' lui il trionfatore virtuale, in realtà è un uomo capace di vivere solo mediante la propria maschera. E' lecito chiedersi cosa realmente cambi tra una serenità fasulla come la sua e una vita realmente disperata come quella di tutti gli altri personaggi, in particolare Anna e Andreas. La locandina potrebbe richiamare all'idea del doppio, su cui ruotano più o meno tutti i film del periodo sperimentale del regista. Maschera o realtà? questo è il dilemma. Il personaggio della Andersson è quello che maggiormente incarna questo dualismo. Sembra vittima di un falso sè, priva di una definizione della propria identità. Di conseguenza priva di confini cerca una risposta mediante il conformismo a modelli che la circondano. Passa da quello del marito a quello di Andreas, ma in entrambi i casi la propria personalità non riesce a trovare una collocazione. Per cui cerca la sola via d'uscita possibile ma fallisce (stando alle sue parole fuori campo), per poi vivere da maschera e dare così il proprio senso alla sua esistenza. Diverso il discorso per Anna e Andreas. La prima è inequivocabilmente segnata dal mistero che riguarda il proprio passato, e che verrà svelato solo nel finale. Cerca di colmare la propria fragilità con una passione sfrenata e insensata, che si rivela fasulla. Non è capace di vivere da sola ed è destinata a soccombere ad un'esistenza di non-accettazione della solitudine. Andreas ha già in passato scelto quella via invece, per evitare di porsi il problema. Ricorda molto uno dei due personaggi di 'Persona': al mutismo del Capolavoro del '66 qui è associato un metodo simile: vivere come eremita, solo, in un mondo di bugie. E' più o meno consapevolmente risucchiato nel ritorno alla vita di relazioni interpersonali, ma ne riesce nuovamente sconfitto. Il film si chiude con una scena strepitosa che rappresenta un pò il sunto di tutto. Non poteva esserci finale migliore. Ma ci sono due scene che mi hanno colpito ancora di più: la prima riguarda la lettura di una lettera indirizzata a Andreas da un vecchio dell'isola vittima di una storia crudele e meschina. La seconda è semplicemente una delle scene più intense che Bergman abbia portato sulla scena: un magistrale monologo di Von Sydow alla Ullmann, nella parte finale del film. Un monologo esacerbante, crudo, che lascia senza parole. Magistrali le interpretazioni dei protagonisti, quattro attori che è impossibile non amare da parte degli estimatori del regista svedese. Bellissima la fotografia di Sven Nykvist, ma non è una novità.
'Non ho voglia di nulla. Non ho voglia di cavalcare, è un moto troppo violento; non ho voglia di camminare, è troppo faticoso; non ho voglia di distendermi, perchè o dovrei restare in tale posizione, e non ne ho voglia, o dovrei di nuovo alzarmi, e non ne ho voglia nemmeno. Summa summarum: non ho voglia di nulla'