Lo scorso 19 agosto, Tony Scott lasciava questo mondo. Anzi, moriva (non sopporto le iperboli pindariche per evitare di nominare la morte - è scomparso all'affetto dei suoi cari, buonanima, etc.). Dardano Sacchetti, illustre sceneggiatore responsabile di quasi il 60% del cinema di genere horror/thriller, così chiosava (cito a memoria): "Morto uno dei fratelli Scott, uno mezzo pieno, l'altro mezzo vuoto". Geniale. Soprattutto il fatto di non assegnare il posto di mezzo vuoto e quello di mezzo pieno. Generalmente, il ruolo di regista mezzo pieno, virtù semipositiva, dovrebbe essere assegnato a Ridley. Il regista mezzo vuoto, lacuna seminegativa, Tony. Forse la somma dei due dovrebbe risultare un regista totale, non so, ma non è questo il punto. Il fatto è come preferirei essere giudicato io; preferirei essere ricordato come un quasiautore con troppe lacune per essere tale o un ottimo regista troppo spesso naive per essere un grande autore? Attenzione perchè la questione non è pura semantica speculativa. Come sempre, la Merda è il parametro discriminante. Ridley, è vero che dalla tua hai Alien, Blade Runner e... E basta. Cioè, non roba a livello. Hai fissato un parametro, poi con la gloria riflessa (non sempre tua, nelle immaginifiche visioni della metropoli dei Nexus non c'è un grammo che sia tuo) ti sei ingozzato come un porco, e hai cagato sulla tua stessa produzione. Davvero tanta merda. Tony, tu invece non hai mai beccato il filmone che zac, stende sia critica che botteghino. Logico, pensavi più al pubblico e meno ai premi. Più defilato, meno arrogante e fracassone, parlavi meno forbito e giravi meno forbito. Sei mezzo vuoto? Ma forse il bicchiere non l'hai riempito volutamente, non sei stato reso ebbro da un successo ormai preistorico, come tuo fratello. E non ti sei mai cagato addosso. Facile ridere di Top Gun adesso, ma tutti da ragazzini (per gli over 30, of course) abbiamo voluto essere Tom Cruise su quei cazzo di aerei. E Beverly Hills Cop 2, e Una vita al massimo... Insomma, 'fanculo Ridley. Adesso stasera ci vediamo tutti L'ultimo boyscout e poi, in un guizzo di lucidità, sarà immediatamente ovvio perchè Ridley è mezzo vuoto; perchè non gli è mai venuto in mente di scritturare un Bruce Willis qualsiasi che ad Alien gli faceva un culo così a testate. Ma tanto, quando uno pensa ad Alien il pensiero va subito al sequel di Cameron...
In questa nostra ultima stagione cinematografica due scrittrici, la prima di successo, munita di marito altrettanto di successo, la seconda meno nota ai più anzi quasi ignota, hanno deciso di passare dalla parola all'immagine. In meno di un mese sui nostri schermi sono arrivati quindi Venuto al mondo, film tutto in famiglia (Mazzantini scrive, Castellitto senior dirige e appare, Castellitto junior recita) e L'amore è imperfetto, opera prima in tutto: primo romanzo di Francesca Muci, primo suo film da regista.
Già dalle primissime pagine di Non ti muovere, libro peraltro bellissimo, chiunque ha pensato (bene) a Castellitto come protagonista e anche alla Cruz nel ruolo della dolente Italia. Libro riuscito, film riuscito, ma il primo genitore, il secondo figlio. La Muci, pur esordiente, ha compreso bene la lezione che vuole come migliore promozione per un libro in uscita un film in uscita e viceversa.
Ci si chiede ora cui prodest tutto ciò... se è vero che cinema ed editoria sono in crisi per overproduzione, vale la pena scrivere già pensando al possibile film che potrebbe venirne fuori? Se la Mazzantini è sostenuta dai suoi e la Muci ha goduto dei sostegni superiori ottenuti chissà come, perché un onesto e valido scrittore deve continuare a riguardarsi il suo manoscritto o la sua sceneggiatura senza speranze né aspettative?
34 anni trascorsi con l'accendino in mano, 10 giorni per smettere di usarlo, 68 minuti per ridurre in cenere lo scroto dello spettatore. Gipi porta scolpiti sul suo volto i segni del nicotinomane incallito: denti marci, pelle rugosa, colorito spento. Sbattuti orgogliosamente in primo piano a riempire lo schermo di una vendetta personale. Se la via intrapresa dal diario casalingo “Smettere di fumare fumando”, cronostoria di un'astinenza in concorso al 30° Torino Film Festival, è a tutti gli effetti quella amatoriale, la costrizione di trovarsi immersi in un contatto ravvicinato con tale aggressiva fisionomia ci trasmette una percezione molto vicina alla terza e persino quarta dimensione, lasciandoci più volte la terribile sensazione di inalare le folate di quell'alito mefitico. La rabbia e la frustrazione accumulate in una carriera non dovutamente apprezzata esplodono in una sfida frontale, uno sfogo a viso aperto per cui il fumo è solo un pretesto. I reali intenti dell'operazione infatti sono presto svelati, e le provocazioni narcisistiche che qualcuno ha definito “morettiane”, pronte a scagliarsi contro i nemici che avevano massacrato il precedente “L'ultimo terrestre”. Il critico qui non viene tormentato nel sonno come in “Caro diario”, ma irriso in conversazioni telefoniche che lo vorrebbero perennemente confinato in bagno, ad assegnare ai propri oggetti di analisi, nell'ossessiva/compulsiva tendenza citazionistica, metafore e riferimenti non sempre veritieri (in una scena Gipi e la compagna, seduti nel silenzio assordante di una cucina, indossano una maschera da ippopotamo, giustificato come omaggio a Bud Spencer anziché ai “Rabbits” di David Lynch).
Ma il punto è capire fin dove può spingersi oggi l'uso privatistico del mezzo cinematografico, e se per certi esperimenti ormai non sia più opportuna la piattaforma di youtube, che offre visibilità planetaria e garantisce perlomeno libertà di fruizione, piuttosto che la sala di un festival che sfrutta il pubblico ponendolo in una condizione di vittima passiva, marionetta del divertimento di un singolo, complice obbligato di un gioco dispettoso. Per tornare a Lynch, “INLAND EMPIRE” aveva già aperto il dibattito sulla mancanza di considerazione dell'utente finale, ma comunque il godimento estetico trasmesso dal maestro interveniva in favore di un'assoluzione con formula parziale. Per stessa ammissione di Gipi invece, non basta nemmeno questo a salvare “Sdff”, poiché “Il film non
ha nessuna velleità artistica, l'ho fatto solo per me, per avere un'occupazione mentale”.
Le sale cinematografiche italiane sempre più frequentemente offrono eventi speciali di musica, con prezzi molto speciali per quanto concerne il biglietto, ospitando sul grande schermo concerti di artisti noti e di grande successo. Dopo lo straordinario, e forse inatteso, successo di "Celebration Day" dei Led Zeppelin e di "Mistery Magical Tour" dei Beatles ecco susseguirsi nel medesimo mese altri tre concerti-evento sui nostri schermi. Martedì 20 Novembre è stato il turno dei Queen con l'ultimo concerto, datato 1986, che ha visto lo strepitoso e indimenticato Freddy Mercury sul palco. Giovedì 22 Novembre e venerdì 23 Novembre due giorni dedicati a Vasco Rossi "Live Km 011". Il best dei concerti tenuti a San Siro nel 2011 dal rocker emiliano è stato un successo già alle prevendite, forse questo più prevedibile degli eventi che lo hanno preceduto. I fan di Vasco si contano sempre più numerosi e per due giorni anziché gli stadi invaderanno le sale italiane e non so quanto si tratterranno da cori e da grida nonostante l'ambiente non sia quello più idoneo. Vasco non è il primo cantante italiano a finire sullo schermo delle sale cinematografiche con le proprie canzoni, Ligabue ci è entrato perfino in 3d... Ieri, Martedì 27 Novembre, è toccato al mitico Jimi Hendrix che avrebbe compiuto 70 anni proprio nel 2012. Il concerto proiettato è stato l'indimenticabile Live At Woodstock, Agosto 1969. Di seguito il trailer nel caso voleste recuperarlo in home video, visto che è rimasto nelle sale solo per un giorno:
Che si apprezzino o meno ormai queste occasioni musicali su grande schermo sembra proprio che abbiano preso un avvio prepotente. Chissà se il prezzo del dvd sarà minore di quello del biglietto per vedere Vasco dentro un cinema...
La tivù non sempre propone prodotti di basso livello, non sempre è la sorellastra del cinema. Spesso, per la tivù, producono prodotti di tutto rispetto, alcune volte capolavori veri e propri. Certe serie lo dimostrano e lo hanno dimostrato e tra queste ce n'è una molto recente e molto famosa, Game of Thrones, conosciuta in Italia con il titolo Trono di spade.
Game of Thrones è un capolavoro fantasy e se n'è parlato molto negli ultimi tempi. Tanto la critica quanto gli spettatori l'hanno premiata, permettendo alla HBO (Oz, The Sopranos, True Blood) di produrne due stagioni e confermarne una terza in uscita nel 2013.
Trasposizione della collana di romanzi fantasy A Game of Thrones, dello scrittore George R. R. Martin, la prima stagione è andata in onda nel 2011 e la seconda nel 2012, entrambe scritte dalla coppia D.B. Weiss e David Benioff. Bisogna dirlo, sono entrambe spettacolari, un groviglio di trame e sottotrame che corrono su binari paralleli e si intersecano per poi allontanarsi e riavvicinarsi subito dopo.
Non è facile seguire gli avvenimenti che sconvolgono i Sette Regni prima che la lunga estate finisca per lasciare il posto al lungo inverno. Sin dal primo episodio della prima stagione facciamo un po' fatica, noi spettatori, a seguire tutti i personaggi, a ricordare i loro nomi e a riconoscere i buoni dai cattivi. Probabilmente perché, tranne qualche caso isolato, buoni e cattivi si confondono, mutano e prendono il posto l'uno dell'altro. L'ambientazione è quella di un Medioevo molto simile al nostro, in cui miti e leggende sono l'eco di un passato lontano sepolto nella neve e oltre il mare. Storie dimenticate o raccontante da vecchie dame di compagnia o spiritati consiglieri ultracentenari. Eppure quei miti e quelle leggende sembrano non essersi dimenticati del sud, del mondo civile, e lo rincorrono celati nell'ombra.
Il fantasy, in Trono di Spade, è un accidente che episodio dopo episodio prende forma divenendo sempre più fondamentale ai fini della storia. E' l'aspetto fantasy a introdurci nella serie, con una sequenza bellissima che mostra i propri debiti nei confronti di tanto cinema horror. Poi viene lasciato dietro le quinte (con qualche breve comparsata) fino al bellissimo finale di prima stagione. Ed è in quel momento che capiamo quale sia la dimensione originaria di una storia che non rinuncia mai a uno pseudo realismo visivo, tra sangue, escrementi e intrighi di corte. Non ci sono solo draghi, giganti e immortali, ma esseri umani che lottano per il potere e per la gloria, animati da vendetta, onore e ambizione. Nella seconda serie l'elemento fantasy è più presente ma mai invasivo, non fa altro che dare al progetto un impronta surreale e ne moltiplica il fascino mitologico.
Un'epopea epica intrisa di ironia e romanticismo, che non lascia nulla all'immaginazione tra corpi nudi e squartati, cavalli decapitati e scene di sesso lesbico tra prostitute. Qualcuno potrebbe trovare delle similitudini con altri prodotti televisivi attuali (Spartacus?) ma Game of Thrones è diverso e quando finisce lascia un vuoto incolmabile nello stomaco. Attori e regia sono sopra la media e in fase di scrittura l'impagabile duo Weiss/Bonioff ha dato spessore ai personaggi rendendoli quasi tutti indimenticabili, nel bene e nel male. Ciò che viene raccontato sono storie di vita in un mondo più vicino al nostro che a quello di Dungeons & Dragon o Il Signore degli Anelli. Lentamente, con il passare degli episodi, il groviglio inesplicabili di nomi e volti si dipana e seguire gli eventi diventa più facile, perché l'obbiettivo finale è il trono di spade e attorno a quest'ultimo si focalizza l'attenzione di tutti, di chi è oltremare e di chi è oltre la Barriera.
La verità è che fa sognare. Sì, fa sognare questa serie che ti prende e ti porta in un altro mondo, ti fa sentire la sporcizia e il rumore delle spade e tu ti ritrovi senza accorgertene in un'altra dimensione, che anche se terribile, ingiusta e violenta, è comunque migliore della solita, vecchia routine. Si può stare dalla parte di una qualunque delle casate invischiate in questo gioco al massacro, con i ricchissimi Lannister, gli onorevoli Stark o i guerrieri Baratheon. Si può ammirare il coraggio di Jon Snow membro dei Guardiani della Notte e esploratore di terre selvagge o l'onore di suo padre, Ned Stark. Si può amare alla follia la bellissima Khalesi dai capelli d'argento, Daenerys Targaryen, diretta discendente al trono del Re Folle e regina dei draghi, o ammirare il possente Khal Drogo, suo marito. E, perché no, è facile perdersi nei lunghi monologhi della fiera Cersei Lannister o tra l'arguto umorismo di suo fratello Tyrion, il folletto (il personaggio più riuscito di tutta la serie), allo stesso modo in cui è facile odiare la crudeltà di Joffrey Baratheon. Più penetri la coltre e più ti ritrovi parte del tutto, sei quasi una delle spie di Varys l'eunuco, fino a sentirne la mancanza quando sei costretto ad andar via.
Tratta da una serie letteraria lunghissima, non deve essere stato facile comprimere in 600 minuti per serie tutto quello che viene raccontato sulla copia cartacea. Forse è questo l'unico, misero difetto: comprimendo si finisce sempre per creare una sorta di caos che però, in questo caso, ben si amalgama con quel che viene raccontato. E tra un colpo di scena e l'altro c'è anche il tempo per ridere e commuoversi.
Forse Game of Thrones è una delle serie più cinematografiche mai prodotte. Ricorda molto l'estetica di un certo tipo di cinema tra il peplum e l'epopea. Non a caso a dirigere il nono episodio della seconda serie troviamo una vecchia conoscenza dei cinefili: Neil Marshall.
Ora, in attesa di vedere cosa succederà con la terza stagione prevista per il 2013, non possiamo far altro che rivedere le prime due e continuare a sognare. Perché sognare fa bene e la televisione, certe volte, aiuta a farlo tanto quanto la letteratura e il cinema.