Tutti i post di Paola Gianderico
Di storie impossibili la settima arte ne ha trasposte a iosa, dal dramma di
Tristano e isotta a
Romeo e giulietta, dagli
ostacoli di classe di
Cenerentola (tradotti nel capostipite delle favole moderne,
Pretty woman) all’amore consumato al di qua e al di là della barriera Coreana in
Poongsan.
Ora, immaginate che un immenso muro di Berlino separi due pianeti gemelli che orbitano nello stesso sistema solare. E che la relazione a distanza tra due giovani, oltre che dalle forze militari, sia minata da forze di gravità opposta. Dovendo affrontare continuamente nausee, vertigini e torcicolli, risulta una situazione ancor più complicata da gestire di una dittatura. I mondi capovolti di
Upside down, a parte il sangue alla testa dello spettatore che si contorce inseguendo le inquadrature rovesciate, sono indubbiamente accattivanti e ricchi di fascino.
Come da tradizione, il genere fantascientifico trasla sull’ambientazione futuristica i disastri del tempo presente, proponendo scenari apocalittici non tanto distanti dai risultati degli storici e attuali totalitarismi. Ma contrariamente agli interrogativi antropologici su cui il cinema contemporaneo ultimamente sta riflettendo, vedasi
Cloud atlas o, se ci si vuole
spostare su una dimensione nettamente più simbolista l’
Holy motors di Carax, questo film non ripercorre il ciclo evolutivo per stanziare un’analisi chiarificatrice sulla fase in cui ci troviamo, né affronta la crisi identitaria dell’uomo moderno.
Malgrado le fiduciose premesse della prima parte, il contesto civile resta uno sfondo approssimativamente abbozzato, le sorti dell’umanità superficialmente accennate, mentre è l’intreccio amoroso a reggere interamente i fili del discorso.
Caramella più gommosa e digeribile da dare in pasto allo spettatore medio. Il ché ci regala uno degli amplessi castigati più suggestivi mai realizzati (ai quali Jim Sturgess sembra proprio essere portato, se pensiamo alle altrettanti acrobazie, sottomarine, rese in
Across the universe), ma lascia cadere quei tentativi avanzati finora da alcuni autori (
Malick e
Von trier su tutti), di gettare luce su un cammino dai residui medievali, oscuro ed impervio.
In Upside Down c’è molto più di qualche buco di sceneggiatura frettolosamente tappato (la guerra dei brevetti, le inviolabili leggi violate di Transworld). C’è l’indifferenza di un cinema che non avverte la necessità di porsi come guida, che non raccoglie l’ansia di inquadrare le incertezze di un domani inafferrabile, preferendo tenere il suo pubblico nel buio di una caverna, sospeso come stalattiti e stalagmiti, a distrarsi con le ombre proiettate sul grande telo bianco.
Commenti: ancora nessun commento al post.
E’ sempre triste assistere ad un riciclaggio di sex symbol. Veder sul grande schermo i divi di ieri, vecchi e malfunzionanti, rimpiazzati dai bellimbusti in materiale ecosostenibile di oggi.
Ma è ancor più triste quando il figaccione di un’epoca fa, che la morte anticipata non ha consegnato alla storia avvolgendolo di un’aura sempiterna, e che solo sullo sguardo da piacione, la natica d’acciaio ed il pettorale in tensione tracimante sudore aveva costruito la fama, non prende atto della propria data di scadenza, ostinandosi imperterrito a ricoprire il solito ruolo.
La sindrome di Peter-pan in video è presto smascherata e lascia strascichi di profonda desolazione, quando un primo piano ravvicinato svela inesorabile la caduta libera delle rughe facciali o al contrario, i solchi gonfiati dalle punturine di botox.
George Clooney per correre ai ripari ha optato recentemente per un lifting testicolare, mentre
Bruce Willis spera ancora che il luccichio della fallica pelata basti a distrarre dalle scene d’azione acciaccate in
Die Hard numero 5.
Harrison Ford e
Michael Douglas appartengono ad un’altra generazione ed ultimamente trascorrono le giornate in ospizio, ma all’età di
Tom Cruise (freschissimo di imprese mirabolanti in
Jack Reacher), inseguivano le Missioni impossibili seducendo acerbe fanciulle, mentre alle attempate coetanee e partner femminili toccava interpretare regine del focolare e mogli cornute.
E persino
Allen, che bello non è mai stato, fino a qualche anno fa ci faceva credere fosse possibile soddisfare una
Téa Leoni in
Hollywood Ending, capendo finalmente alla soglia dei 70 che forse non era più il caso di continuare.
Diamo dunque tempo a
Richard Gere di acquisire un minimo senso del ridicolo e provare (non è mai troppo tardi) a svincolarsi dalle tenaglie dello star system che lo vorrebbero tuttora protagonista di scene bollenti. In
Arbitrage, sveste i panni di un magnate della finanza immischiato in giochi di sesso e potere. I capezzoli sono orecchie da coker, l’aria è stanca e affaticata (complice forse la dieta vegetariana buddhista), e proprio non gli riesce più di sollevare Letitia Casta come l’operaia di Ufficiale gentiluomo.
Schemi ripetitivi, ad Hollywood come a casa nostra, a cui siamo abituati da tradizione secolare, ma che ultimamente hanno assunto una piega “Inevitable”, per usare lo slogan Chanel pronunciato da
Brad Pitt (uno dei pochi che sopravvive grazie al talento recitativo più che ai ruoli da macho).
Anche se abbiamo avuto
Amour a sensibilizzarci sull’amore all’ultimo stadio della vita e le dimissioni del Papa, che hanno lanciato un messaggio di speranza sul mettersi da parte, il mito della falsa giovinezza spinge per restare al potere.
E il 25 febbraio sapremo se l'Italia girerà l'ennesimo sequel de
La morte ti fa bella.
Commenti: ancora nessun commento al post.
Ci sono film che in base all’età e alle condizioni psico-fisiche con cui ti accingi alla visione, possono assumere significati radicalmente diversi. Che quando li riguardi a distanza di tempo pensi, “Ma i miei nervi quanto erano fragili?” o al contrario, se l’organo cuore fosse partito in vacanza.
Ci sono poi giudizi influenzati dal doppiaggio scadente, che può snaturare completamente l'anima di un film. E ci sono attori eternamente legati al personaggio che li ha resi famosi, che eternamente marchieranno a fuoco le pellicole a cui prenderanno parte, cedendoli in proprietà ad un genere ed un pubblico specifici.
“
The perks of being a wallflower”, tratto dall’omonimo best-seller di Stephen Chbosky, è un teen movie in bilico tra tutte queste caratteristiche, che conta tra i numerosi protagonisti
Emma Watson. Quanto basta a snobbarlo e a bollarlo come minchiata isterica per adolescenti in crisi esistenziale. Sarà che il passaggio al mondo degli adulti per me non si è ancora del tutto concluso, ma quest’”Isola dei giocatoli difettosi” invece, col suo coacervo di ragazzini problematici (la matricola looser, la darkettona, la buddhista punk, il fattone, il gay represso, la tipa bisognosa d’attenzioni che si regala in cambio di una parola affettuosa) mi è parsa di una purezza e di un’innocenza fuori dal comune. E non è un caso se i produttori sono gli stessi di "
Juno".
Tralasciando la svolta shock sul trauma infantile, è un gran film sulla ricerca della propria identità, sulla difficoltà a trovare una giusta collocazione sociale, sul sentirsi “carta da parati” osservando la realtà circostante anziché parteciparvi. Sull’amicizia e sui legami che aiutano a crescere. Insomma, tutto ciò che Moccia non è mai riuscito né a scrivere, né a raccontare per immagini, e che Chbosky ha doppiamente fatto con la sua creatura letteraria. La scena del tunnel, un contatto liberatorio con l’infinito a folle velocità, tra le luci della notte, accarezzando l’aria in piedi a braccia tese sul tettuccio dell’automobile non sarà inedita (molto Gioventù bruciata o prua del Titanic), ma scegliere di sposarla con “Heroes” di David Bowie è una mossa azzeccata. Tra l’altro Bowie si conferma autore prediletto ad esprimere per musica il malessere giovanile (pensiamo al recente “Ragazzo solo, ragazza sola” scelto per “
Io e te”, di
Bernardo Bertolucci). Quindi non so se remare contro (anche al cinema) stia diventando la mia attività sportiva preferita, ma davvero non sopporto le opinioni aprioristiche. Giudicate un prodotto senza paletti e schemi precostituiti. Guardatelo in versione originale, perché l’ultima generazione di voci italiane si divide tra timbro soap e trasteverino. E al limite lasciate vincere sull’obiettività il vostro bagaglio esperienziale e il vostro passato, ma in quel caso mi spiace per voi se eravate cheerleaders o capitani della squadra di football. Io sedevo al tavolo dei weird, e ho imparato tanto.
Commenti: ancora nessun commento al post.
Gianni, non ci lasciare!
All’indomani della conclusione del TFF, pubblico e critica lanciano un appello affinché
Gianni Amelio (o
Pupi Avati, tanto è uguale), rimanga incollato alla poltrona di direttore (richiesta insolita per gli italiani). Ma nonostante l’incremento dei dati d’affluenza sia lì a registrarne palesemente il successo, la sua fine purtroppo sembra ormai prossima, salutata dal passaggio di testimone quasi certo a
Gabriele Salvatores. Un vero peccato, perché in un autunno caldo brulicante di manifestazioni cinematografiche che si spintonavano tra loro (e non è finita, il
Milano Filmmaker è partito il 30 novembre e durerà fino al 9/12), la luce delle pellicole proiettate all’ombra della Mole è stata indubbiamente la più brillante.
Per buona pace di Anselma Dell’Olio, un fittissimo ventaglio di anteprime (oltre 160) ha sancito la sconfitta del glamour, regalando un’edizione tutta incentrata sul tema dell’identità, scandagliato negli aspetti più turpi e deviati dalla malatissima sezione “Rapporto confidenziale”.
A svettare incontrastato
Chained, pugno allo stomaco firmato Jennifer Lynch, che a differenza del
padre non si serve della dimensione onirica per alleggerire l’atmosfera e smorzare i toni del suo incubo domestico, ma sceglie una messa in scena cruda e realista per scatenare la violenza
dell’inconscio.
(Prima di risalire su un taxi ci penseremo due volte).
Restando sempre nell’ambito del cinema a gestione famigliare, in K-11 la mamma della vampira di Twilight
Kristen Stewart, ci mostra le ignobili condizioni di sopravvivenza dei detenuti di un braccio carcerario destinato a gay, trans e pedofili, il K-11 appunto, calando l’obiettivo tra le pareti unte di un trash movie (dove per trash s’intende in questo caso il richiamo alla sporcizia) claustrofobico e politicamente scorretto.
Ci sono poi il bullismo e la violenza amatoriale di V/H/S, accozzaglia di omaggi tremolanti all’horror in presa diretta (
The Blair witch project,
REC e
Paranormal activity), ma garanzia sicura per il divertimento scacciapensieri degli amanti del genere.
Ci si è potuti inoltre rendere complici di un gioco sadico ai danni di una ragazzina rinchiusa senza vestiti nel magazzino di un fast-wood (prima di tornare al Mcdonald’s ci penseremo due volte), seguendo scrupolosamente gli ordini della legge in
Compliance, polemica rivolta alla cieca fiducia riposta nelle autorità;
e si è potuto provare il brivido di stringere tra le proprie mani l’esile collo di una giovane vittima, vederla implorare pietà, sgozzarla in sincrono con il respiro e le pulsioni del maniaco sessuale e folle omicida di
Maniac, magnifico remake girato tutto in soggettiva.
Si capisce invece poco l’inserimento di Thanks for sharing, coerente nelle premesse (maschi adulti malati di sesso si iscrivono ad un gruppo di sostegno), ma risoltasi nella retorica delle tradizionali commediole americane pregne di moralismo (c’è Gwyneth Paltrow), lontana anni luce dal desolante spaccato metropolitano emerso nello
Shame di Steve Mcqueen (quello di colore).
Spostandoci in TorinoXXX, spazio dedicato alla celebrazione del trentennale della kermesse,
Holy Motors di Leos Carax ha raccolto il maggior numero di applausi, divenendo il film più discusso e apprezzato dell’intera rassegna. Un’opera complessa, dalle mille sfaccettature come mille sono i personaggi in cui il trasformista
Denis Lavant si cala, sfogando in chiave simbolista e meta-cinematografica l’alienazione dell’uomo contemporaneo, costretto ad indossare ogni giorno una maschera diversa e a recitare più ruoli sociali.
Tra gli autori presenti in concorso, oltre a Scott Graham vincitore del palmarès con Shell, storia di solitudine esistenziale tra un padre e una figlia confinati in una stazione di servizio, si è distinto l’italiano Giovanni Columbu, autore di Su Re. Rivisitazione sarda della passione di Cristo,
fortemente sostenuta da
Moretti e distribuita dalla Sacher, ha il pregio di smontare l’iconografia classica del Gesus Christ Superstar bello, biondo e con gli occhi verdi, destinando il martirio ad un cristo brutto, che riflette su di sé l’asprezza del paesaggio circostante.
Ma sarà probabilmente l’esplosione visionaria a stento contenuta in “Festa mobile”, l’unica ad accedere prossimamente nelle sale. L’uscita di
Ruby Sparks è già programmata per questo week-end, adatta a spettatori di tutte le età. Dalla macchina da scrivere di un rampante scrittore troppo pieno di sé per donarsi agli altri, prende vita la ragazza dei sogni, controllata dal battito dei caratteri selezionati a formare le frasi con le azioni da compiere.
Il richiamo per Blancanieves, esperimento spagnolo muto e in b/n, lo consente
The Artist. Se però il trionfatore agli oscar 2011 omaggiava il passato da un’ottica odierna e imbastiva una riflessione sullo statuto del post-moderno, le intenzioni di Pablo Berger sono quanto mai superflue e riguardano la semplice (senz’altro godibile) realizzazione estetica datata 1929, limitata alla sottrazione di suoni e colori.
Così come i fans di Fellini, attirati dalla trama, accorreranno a vedere L’étoile du jour, per poi restare delusi nello scoprire che si tratta di un surrealismo videoclipparo fine a se stesso, che stupra il mondo del circo come fatto dalla recente
Ballata dell'odio e dell'amore, sperando di succhiarne la linfa vitale e accaparrarsi un briciolo di quel furore creativo. (Nemmeno Iggy Pop salva la baracca).
Per l’
Anna Karenina di Joe Wright invece, non servono scuse perché si sfiora il capolavoro.
Sfavillante miscela barocca contaminata da elementi teatrali (sequenze racchiuse dalla cornice di un palcoscenico, metafora del dramma umano in cui è intrappolata l’eroina tolstojana; tableaux vivants atti a simboleggiare l’ingessatura della società moscovita di fine ‘800), trasposta in una
coloratissima chiave pop sullo stile della
Marie Antoinette di coppoliana memoria, ma meno antipatica.
Anche rispetto a Muller.
Perché al Festival di Roma non si sono accorti che il popolo aveva fame e mancava il pane. Mentre a Torino, per fortuna, si è fatto incetta di brioches.
Commenti: ancora nessun commento al post.
34 anni trascorsi con l'accendino in mano, 10 giorni per smettere di usarlo, 68 minuti per ridurre in cenere lo scroto dello spettatore.
Gipi porta scolpiti sul suo volto i segni del nicotinomane incallito: denti marci, pelle rugosa, colorito spento. Sbattuti orgogliosamente in primo piano a riempire lo schermo di una vendetta personale. Se la via intrapresa dal diario casalingo “Smettere di fumare fumando”, cronostoria di un'astinenza in concorso al 30° Torino Film Festival, è a tutti gli effetti quella amatoriale, la costrizione di trovarsi immersi in un contatto ravvicinato con tale aggressiva fisionomia ci trasmette una percezione molto vicina alla terza e persino quarta dimensione, lasciandoci più volte la terribile sensazione di inalare le folate di quell'alito mefitico. La rabbia e la frustrazione accumulate in una carriera non dovutamente apprezzata esplodono in una sfida frontale, uno sfogo a viso aperto per cui il fumo è solo un pretesto. I reali intenti dell'operazione infatti sono presto svelati, e le provocazioni narcisistiche che qualcuno ha definito “morettiane”, pronte a scagliarsi contro i nemici che avevano massacrato il precedente “
L'ultimo terrestre”. Il critico qui non viene tormentato nel sonno come in “
Caro diario”, ma irriso in conversazioni telefoniche che lo vorrebbero perennemente confinato in bagno, ad assegnare ai propri oggetti di analisi, nell'ossessiva/compulsiva tendenza citazionistica, metafore e riferimenti non sempre veritieri (in una scena Gipi e la compagna, seduti nel silenzio assordante di una cucina, indossano una maschera da ippopotamo, giustificato come omaggio a
Bud Spencer anziché ai “
Rabbits” di
David Lynch).
Ma il punto è capire fin dove può spingersi oggi l'uso privatistico del mezzo cinematografico, e se per certi esperimenti ormai non sia più opportuna la piattaforma di youtube, che offre visibilità planetaria e garantisce perlomeno libertà di fruizione, piuttosto che la sala di un festival che sfrutta il pubblico ponendolo in una condizione di vittima passiva, marionetta del divertimento di un singolo, complice obbligato di un gioco dispettoso. Per tornare a Lynch, “
INLAND EMPIRE” aveva già aperto il dibattito sulla mancanza di considerazione dell'utente finale, ma comunque il godimento estetico trasmesso dal maestro interveniva in favore di un'assoluzione con formula parziale. Per stessa ammissione di Gipi invece, non basta nemmeno questo a salvare “Sdff”, poiché “Il film non
ha nessuna velleità artistica, l'ho fatto solo per me, per avere un'occupazione mentale”.