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La mente umana è avvolta dal mistero. Insidiosa ed imperscrutabile ammalia e spaventa chi non è in grado di spiegarla. Ma chi lo è? Chi riesce a darle un significato concreto che trascenda dalla sua espressione cinematografica? Una larga parte del cinema francese ha scelto di raccontare questa realtà dal potenziale sconfinato, ci mostra quanto sono intricati i nodi che si possono affacciare in chi guarda e osserva.
La moustache appartiene proprio a questo filone, tradotto (ormai sempre più) banalmente come L'amore sospetto, sconfina nel limbo dell'inconsapevolezza e della follia partorita da una mente disturbata. La seconda regia dello scrittore Emmanuel Carrere (ispirata a un suo libro), vincitrice della Quinzane a Cannes, è un'opera affascinante quanto incompleta, che parte bene per poi perdersi in una regia spesso fuorviante ed evanescente, riferimento alla netta distinzione tra una sintomatica prima parte parigina ed una onirica in quel di Hong Kong.
Carrere vorrebbe esplorare l'abisso che si cela dietro la normalità, le certezze che divengono timori, il progressivo abbandono della sanità mentale. E lo fa mettendo in scena due figure distinte, l'affabile Marc, Vincent Lindon, e sua moglie, un'inquietante Emmanuelle Devos. Il primo dopo tanti anni decide di tagliarsi i baffi, ma nessuno si accorge del cambiamento, anzi, tutti quanti, compresa la consorte, affermano che lui i baffi non li ha mai portati. La progressiva degenerazione di tale suspence è l'espediente che serve all'autore per esprimere il proprio personalissimo movente, che però risulta astratto e tedioso, rispondendo difficilmente ai numerosi quesiti che il film pone e che lascia aperti.
L'amore sospetto, utilizzando la paranoia come motore d'azione anche nei momenti più silenti, vuole appositamente fornire poche risposte, spiazzando il pubblico, sedotto e abbandonato di fronte al tema principale in mancanza di spiegazioni. La coppia d'interpreti risulta molto affiatata, ma questo non basta a salvare il tono di un film che fa della sua non conclusione l'anello debole di tutto il plot. Le chiavi di lettura sono molteplici, l'impossibilità di accettare il cambiamento, la perdita di sé come unica speranza di recupero, persino il sogno/incubo come tentativo di immaginarsi una vita diversa (ma quanto migliore??). Se frolliamo il tutto in un unico calderone vediamo che l'intero impianto narrativo non può sorreggere una struttura mancante, una storia che sì, affronta il tema della progressiva perdita di fiducia nel rapporto di coppia, ma che mostra poco o niente per forgiare in noi l'idea di quella follia flirtata quale ossessione del nulla, disordine e ordine che appartengono solo inconsciamente al caos della psiche. Il concerto per violino di Philip Glass, ipnotico ed evocativo, accompagnando tutta la narrazione, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione dell'atmosfera del film, che rimane sospeso tra sogno e realtà.
Ciò che invece non viene sfruttato appieno è la buona idea di partenza, lasciando lo spettatore con la certezza di aver assistito ad un progetto autoriale legittimo ma non ben delineato, un'opera che per l'enfasi di quello che vuol raccontare finisce col limitarsi ai meravigliosi scorci delle due metropoli in cui è ambientata.
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Recensione a cura di Simone Bracci - aggiornata al 04/07/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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